Lo spacciatore con tre nomi – Parte prima, di rfayyiq

23

La madre

 

 

Lo sapeva benissimo che ogni notte il figlio riceveva a casa il suo amico. Da quando quella strana sciagura aveva avviluppato la città, stravolgendo le sue abitudini, non dormiva più. Per altro, non sa neanche bene perché, aveva deciso di interrompere il lexotan proprio pochi mesi prima e restava a letto sveglia per ore, leggendo o guardando ossessivamente le notizie al cellulare. Anche quella notte sente l’amico scavalcare il cancello, entrare nel giardino condominiale e arrampicarsi in camera di suo figlio, dalla finestra. Ogni notte ne sentiva i passi felpati sul selciato del cortile, cercava di produrre meno rumore possibile, questo glielo riconosceva, e paradossalmente gliene era grata, non avrebbe retto un’altra discussione con i vicini. Arrivava verso l’una di notte e se ne andava passate le tre. Quei due ragazzi si sentivano protetti dalla calma ovattata dei Parioli, intoccabili, in quella quiete surreale. Non capiscono la gravità della situazione, si dice, sono ancora ragazzini, si fanno compagnia, si sostengono in un momento storico così assurdo. Li giustifica anche un po’, in cuor suo: questo coprifuoco è esagerato, lo dicevano anche alcune sue amiche che continuavano a entrare di nascosto a Villa Ada per lunghe passeggiate, incuranti, delle ordinanze comunali, anzi fottendosene alla grande, con quell’atteggiamento aristocratico e snob che lì ai Parioli si imparava fin da bambini.

Eppure, la mattina, mentre il figlio ancora dormiva, non poteva fare a meno di entrare nella sua stanza e lucidare compulsivamente con l’alcol tutte le superfici dove si immaginava che l’amico si fosse appoggiato. Puliva persino il davanzale della finestra da cui entrava, facendo pianissimo, ovviamente, per non svegliare il figlio che dormiva avvolto nelle coperte, anzi sentendosi anche un po’ in colpa per fare entrare l’aria fredda nella sua stanza. Spruzzava il disinfettante sul cumulo di vestiti che troneggiava sul divano della cameretta e passava il tavolo con una spugna imbevuta di amuchina, zigzagando tra il disordine pervicace della stanza del figlio, stando attenta a non spostare nulla, evitando financo di togliere i resti di tabacco e cartine, che campeggiavano ovunque, come sempre. Non vuole assolutamente che queste sue incursioni mattutine siano scoperte dal figlio, non osa neanche affrontare con lui il discorso sulle visite notturne dell’amico, che contravvengono alle regole che avevano stabilito in famiglia, nonché ai vari decreti imposti per la quarantena nazionale. La verità è che non ce la fa più a litigare, non regge l’idea di subire ancora una volta le urla del figlio, gli insulti, gli oggetti spaccati per rabbia, l’umiliazione e quella sensazione amara, in gola, di aver sbagliato tutto con quel ragazzino, di essere una madre sbagliata, fallita. Ecco, “fallita” era proprio la parola che il figlio ripeteva sempre, sputandogliela addosso con disprezzo: “madre fallita, mi fai schifo, vattene”. Questo le diceva quando litigavano, ovvero ogni volta che lei timidamente tentava di restaurare un appiglio di regola, o provava semplicemente a esercitare un minimo di innocua autorità genitoriale. Tutto gli avevano concesso. Il simbolo della loro totale incapacità a far rispettare le regole era quel barattolo pieno di marijuana che svettava beffardo sul tavolo del figlio, non si curava neanche più di nasconderlo nel cassetto, sbandierandogli in faccia che lui le canne se le faceva, quando e dove voleva, pure a casa, anche di mattina. Ed ora, quel ragazzino impunito, si faceva beffe anche delle regole imposte dallo stato per contrastare la diffusione di un virus che causava ogni giorno migliaia di morti. Non gliene fregava un cazzo, a suo figlio. A volte, di pomeriggio, scompariva per un paio d’ore, senza dire dove andava, uscendo senza salutare, lasciandola in ansia che lo arrestassero, che dovessero pagare l’ennesima multa, sussultando a ogni squillo del cellulare. Inutile, poi, era scrivergli un messaggio o chiamarlo: non rispondeva mai. Quel ragazzino ingrato stava costantemente con il telefonino in mano, qualsiasi cosa facesse, pure mentre mangiava o guardava un film, eppure, non le rispondeva mai, non si disturbava neanche di aprire i suoi messaggi, non la degnava neanche delle due spunte blu.

Anche quella notte sente montargli in petto la rabbia verso il figlio. Non è solo rabbia, è proprio odio e le fa paura. Le fa paura l’idea di odiare suo figlio, di non volergli più bene. Lo sente come un nemico estraneo, una presenza maligna e disturbante nella sua vita. Cerca di reprimere quell’idea, di ricacciarla dentro. È adolescente, si dice, è una fase, succede a tutti. Cambierà. D’altronde anche le sue amiche hanno gli stessi problemi con i figli e tutte sembrano indulgere verso le canne, i tatuaggi sfacciati, le uscite di sera, anche durante la settimana, quando c’è scuola, i brutti voti, l’ostentato disinteresse verso tutto e tutti. È una questione generazionale, si dice, per confortarsi. Eppure, quella sensazione di estraniamento verso il figlio non l’abbandona, così come la latente convinzione che qualcosa si sia incrinato per sempre: riuscirà mai a provare stima e genuino affetto verso il ragazzo, a volergli ancora veramente bene. Si rende conto che persino i suoi disegni, i suoi quadri, che prima la rendevano piena di orgoglio come madre, l’hanno stancata, non ci trova niente di bello, anzi la inquietano.

Da quando la scuola ha chiuso, il figlio dorme fino alle due di pomeriggio, ogni giorno. Non c’è modo di svegliarlo. Tanto vado all’artistico, dice, non ho nulla da fare, non hanno attivato la didattica a distanza “a scuola mia”, rinfaccia. Quella scuola, poi, un’altra riprova del loro fallimento genitoriale, della loro incapacità di imporsi, di tracciare una linea. Dopo la bocciatura in quinta ginnasio, arrivata dopo un anno sanguinoso di lotte per farlo studiare, di soldi buttati al cesso in costosissime quanto inutili ripetizioni; il figlio non aveva voluto sentire ragioni. Voleva andare all’artistico. Non gliene fregava un cazzo del greco, della storia, della letteratura, dell’università, lui doveva fare arte, disegnare e sticazzi di tutto il resto. Si sentiva un artista, quel ragazzino, oppure, come lei sospettava intimamente, non aveva voglia di studiare, di impegnarsi in qualcosa di serio. È vero, fin da piccolo aveva sempre disegnato e loro lo avevano incoraggiato, incorniciando i suoi quadri, appendendoli in salotto. Tuttavia, ad essere sinceri, alla madre non erano mai veramente piaciuti quei suoi disegni, era bravino, sì, ma non aveva mai intravisto nulla di vistosamente eccezionale nelle “opere” del figlio. Inoltre, i disegni che faceva ora, di cui riempiva maniacalmente ogni angolo della stanza, li trovava a dir poco ermetici, se non inquietanti. Erano un groviglio di linee nere che davano vita a forme arzigogolate, astratte. Nell’intricato avvolgersi e districarsi di quei percorsi immaginari, facevano capolino forme vagamente più definite, che potevano interpretarsi come mostri alieni, forse animali, o donne mostruose. Quei disegni, a dire il vero, la disturbavano, sembravano sbatterle in faccia tutte le problematicità psicologiche del figlio, ricordarle quanto al figlio nella vita fosse destinato un inevitabile fallimento esistenziale, condannando lei, in contumacia, a madre fallimentare.

L’idea che l’amico del figlio, visitando quotidianamente la loro casa possa infettarli con il virus non le si leva dalla testa. Per questo ogni mattina disinfetta ogni superficie in camera del figlio, mentre lui dorme (sembra morto), con il collo riverso sul cuscino e la testa di lato. Non si fida dell’amico, non le è mai piaciuto questo ragazzo, che pure è sempre molto educato quando si incrociano in corridoio e saluta gentilmente atteggiandosi a ragazzo a modo. Non si fida. Sembra sporco, con i capelli arruffati e le scarpe da ginnastica incrostate. Potrebbe essere un famigerato asintomatico, chissà poi da che ambiente viene. Sa che la madre è medico e questo non fa che aumentare la sua preoccupazione. Potrebbe lavorare in ospedale con i malati del virus. Non osa chiederlo al figlio. Si augura, solo, con tutta sé stessa, che almeno i due ragazzi, nei loro incontri notturni, non si passino lo stesso spinello, avendo almeno l’accortezza di consumare ognuno il suo. Le mani, le viene improvvisamente in mente, l’amico del figlio entra in casa e neanche si lava le mani!

 

 

Il figlio

 

 

Ti sei lavato le mani? Dice all’amico appena scende dal davanzale della finestra, urtando il tavolo, goffo come al solito. Sì, certo che l’ho lavate, prima di uscire, poi mi sono messo i guanti, tranquillo.

La presenza dell’amico sta cominciando a diventare opprimente. Viene ogni sera e pretende di fumare con lui, senza offrire (quasi) mai nulla. È una sanguisuga. In questo periodo del cazzo, poi, l’approvvigionamento (a lui e il suo amico diverte usare quel termine militare) è sempre più difficile e caro. Oddio difficile non è, anzi per certi versi è più facile. Ora vengono loro, solo che costa di più. Non deve più imbarcarsi in quelle epiche traversate di Roma in motorino per arrivare in quartieri che fino all’anno scorso per lui erano solo toponimi che evocavano disagio e povertà: Tor Bella Monaca, Cento Celle, Torpignattara. Luoghi chiassosi, pieni di gente, traffico, movimento, così diversi dalla staticità immobile di piazza delle Muse, dove le uniche persone che vedi per strada, anche prima del virus, sono i filippini che portano giù la spazzatura, o il cane.

Ora te la portano sotto casa in bici, Il mercato si adegua sempre alle condizioni sociali e alle necessità del consumatore, pensa, è una legge economica. Si compiace della sua pensata. Solo che costa di più, quasi il doppio. Certo te la portano a domicilio, ma non vengono per meno di quaranta euro. Prima con cinquanta ne potevi comprare anche tre, ora una costa quaranta euro. E il suo amico, ovviamente, non ha mai soldi. In nome della loro “amicizia” (fratello, brother, commilitone), si presenta tutte le notti là, sfidando i controlli delle forze dell’ordine, per elemosinare qualche tiro. E lui non sa dirgli di no, anzi non può, sono hermanos loro. L’amico sa benissimo dei soldi che lui riceve mensilmente dalla nonna, la quale ancora prima di morire (è ancora viva la vecchiaccia) ha intestato una piccola rendita a lui e un’altra alla sorella che vive a Bruxelles. Ma neanche quei soldi bastano più, per colpa di questo cazzo di virus. Almeno, prima del virus, l’amico riusciva in qualche modo a rimediarne un po’ con qualche insulso impiccetto, o rubando cellulari ai ragazzini. Ora non può più, c’è una cazzo di quarantena nella nazione, e sua madre, il medico impaccato di soldi, gli da solo venti euro a settimana. Non gli bastano neanche per le sigarette. Ed eccolo, ogni notte, far leva sulla loro amicizia scroccandogli, anzi levandogli di bocca, diciamola tutta, qualche tiro.

Quello che la madre non sa è che ogni notte, il figlio e l’amico non si vedono per fumare marijuana. Accendono un paio di canne, sì, ma lo fanno soprattutto per abitudine e per coprire l’altro odore. Quello dolciastro dell’eroina che scivola sfrigolando sul foglio di carta stagnola.

Ormai da agosto, quasi ogni giorno.

È diventato un problema, ne è consapevole. Anzi, a dirla tutta ha superato del tutto la fase del “rendersi conto del problema”. Neanche ci pensa più in quei termini. Ormai per lui l’eroina è un dato di fatto, una componente della sua esistenza, un punto fermo, non un qualcosa da mettere in discussione. Ha provato a smettere, tre volte. E ha provato sulla sua pelle quanto è difficile. Il problema semmai è l’approvvigionamento, anzi i soldi per l’approvvigionamento e quella sanguisuga del suo amico.

L’amico è un poveraccio, fondamentalmente gli fa pena. Anzi, si sente in colpa di averlo fatto iniziare, poi di averlo fatto smettere, poi di essersi fatto aiutare a smettere e averlo fatto di nuovo ricominciare. Sa benissimo che se non fosse stato per lui probabilmente l’amico non l’avrebbe mai provata. Avrebbe continuato con le cannette, qualche impiccio (massimo un etto a buffo) per fumare gratis, e qualche botta di cocaina il fine settimana. Come facevano tutti, lì ai Parioli, nella sua vecchia scuola. Mentre lui all’artistico aveva scoperto un altro mondo, un’altra composizione sociale, dove le linee che separavano i gruppi, le comitive erano molto meno nette, più sfumate, difficili da interpretare.

Nel liceo classico ai Parioli dove aveva fatto quarto e quinto ginnasio tutto era abbastanza semplice: c’erano gli sfigati, il gregge dei normali, e i bulli. Questi ultimi erano tutti uguali: palestra, cocaina, fascismo e Lazio. Pieni di soldi, “facevano le prepotenze” a tutti gli altri, rubando giubbotti, telefoni, soldi, droga, solo per il gusto della sopraffazione. Ovviamente le ragazze ne andavano pazze. Gli sfigati, invece, erano quelli strani, si vestivano male, il più delle volte erano poveri, finiti per qualche errore del destino in una scuola ai Parioli. Facevano schifo, stargli vicino, a volte anche solo parlarci o seguirli su social (se non per umiliarli e ridere delle loro foto), poteva essere causa di stigma sociale. Lui, e il suo amico, non appartenevano né ai bulli, né agli sfigati. Erano incolori, normali, senza arte ne parte. Compravano l’erba dai bulli, a volte della cocaina. Non gli fregava un cazzo del calcio, né di politica, ma, se interpellati, si professavano anche loro fascisti e laziali. Non seguivano i bulli su Instagram, per un senso di dignità, ma passavano il tempo a guardare le loro stories, gelosi del successo che avevano con le nostre compagne di scuole (quelle cagne).

Quando era arrivato all’artistico era rimasto sconvolto. Non riusciva ad ambientarsi, a capire come funzionavano le dinamiche sociali. Innanzitutto la scuola si trovava nel centro di Roma, questo significava che c’erano ragazzi da tutti i quartieri della città e di tutte le estrazioni sociali. Vigeva tutta un’altra gerarchia sociologica.  “Avere i soldi di famiglia” sembrava una colpa, invece che qualcosa da ostentare, anzi chi era ricco lo nascondeva. Venire da un quartiere disagiato, povero, o semplicemente lontano dal centro, era una qualità che suscitava intrinseco rispetto (attento, quello è di Boccea) “Pariolino”, era un insulto terribile. Un marchio di infamia, mentre “coatto” era un termine che ispirava reverenza, timore, ma era anche un aggettivo per indicare qualità positive. Questo per fortuna l’aveva capito subito e non diceva mai a nessuno dove abitava. Se gli facevano la dirimente domanda “di che zona sei”, rispondeva vago, diceva “Roma Nord”, senza specificare.

E in quella scuola aveva incontrato l’eroina. La prima volta l’aveva provata per curiosità, attirato da quell’odore zuccheroso che sentiva sempre in bagno, quando quel ragazzo dell’ultimo anno della classe accanto si chiudeva dentro. Una volta gli aveva chiesto una sigaretta, e lui, non sapeva neanche perché e con quale coraggio, gli aveva risposto “ti regalo il tutto pacchetto se mi fai fare un tiro”. E quello glielo aveva fatto fare. Gli era piaciuto, tantissimo. Sembrava che una nuvola di bolle di sapone ti entrasse nel sangue, scorrendoti su per le vene, distribuendo piacere e sollievo a tutto il corpo. Non aveva neanche vomitato. Dopo una settimana aveva rintracciato lo stesso ragazzo in bagno e gliene aveva chiesta da comprare. Quello lì lo aveva guardato male minacciando di dargli un ceffone, “lascia stare, ragazzino” gli aveva detto. E se ne era andato. Ma lui aveva insistito ogni volta che lo incontrava, fin quando quello non aveva ceduto e a un prezzo esorbitante gli aveva venduto una pallina. La sua prima pallina. Era maggio dell’anno scorso, neanche un anno fa.

Ricorda ancora la sensazione elettrizzante che gli aveva dato tastare con il dito quella protuberanza nel taschino dei jeans nel tragitto da scuola a casa. Dopo aveva chiamato l’amico, quello che era rimasto nella sua vecchia scuola e si era fatto bocciare per la seconda volta. Ora andava al privato. Oramai, lo considerava poco più di uno sfigato, comparandolo ai ragazzi della sua nuova scuola, con i quali tuttavia non usciva quasi mai, preoccupato che potessero scoprire la sua provenienza sociale e sputtanarlo pubblicamente. Invece l’amico abitava vicino casa sua e non lo giudicava mai, anzi, si accollava qualsiasi cosa lui gli proponesse. Era solo come un cane (quel coglione), al privato non aveva legato con nessuno. Si erano dati appuntamento come ogni giorno al parco sotto casa. Erano entrati nel bosco di Villa Ada e sul solito tronco, invece dell’erba, aveva tirato fuori eroina e la stagnola. L’amico aveva mormorato qualcosa (tu sei matto, fraté), ma poi aveva fumato con lui.

 

 

Lo spacciatore con tre nomi

 

 

Lo spacciatore si chiama Moussa e l’eroina non l’ha mai provata. La vende da un anno e mezzo. Aveva cominciato neanche due mesi dopo essere arrivato a Roma. Tecnicamente è uno sputapalline, ovvero uno spacciatore che nasconde le palline in gola, pronto a ingoiarle in caso di controlli. O a sputarle in mano per il cliente. Non è difficile, basta fare un po’ di pratica, c’è una tecnica per tutto. Si ingoiano senza deglutirle, facendo in modo che rimangano tra l’epiglottide e la faringe. Poi, come quando ci si induce il vomito o si simula un colpo di tosse, si fanno risalire in bocca e si sputano.

Moussa è molto bravo. Aveva imparato subito e oramai riesce a nasconderne in gola anche una ventina contemporaneamente. È sveglio il ragazzo, lo era sempre stato. Fin da piccolo, uno di quelli che se la cavavano in tutte le situazioni. Wisdom, il nigeriano, l’aveva capito subito che quel ragazzo aveva la stoffa, ci sapeva fare. Gli diceva sempre che era la sua miniera d’oro. Una volta gli aveva anche regalato una giacca di pelle (you deh my golden boy). Affidabile, forte e silenzioso, mai una parola di troppo, mai una lamentela. Era il migliore del gruppo. Ed era anche l’unico che lavorava con gli stessi ritmi di prima in quel periodo assurdo di quarantena nazionale.

Aveva avuto un’idea geniale. Non si poteva più girare, la polizia, i carabinieri fermavano, ovunque e chiunque. Si vedevano anche i militari, che a lui evocavano brutti ricordi. Gli unici che potevano circolare erano quelli che ancora lavoravano. E gli unici neri che giravano per la città per lavoro erano i fattorini del cibo, i rider. Quelli con la bicicletta col borsone giallo sul portapacchi. Glovo.

La bicicletta già ce l’aveva, l’account e il borsone ufficiale li aveva presi in affitto da un suo amico. Trenta euro al giorno. Nei documenti italiani non aveva ancora diciotto anni (tecnicamente era ancora un minore non accompagnato) e non aveva diritto di aprire un account. Ma non era un problema, c’era un fitto mercato nero di prestanome che cedevano l’account Glovo in cambio di soldi. Molti erano italiani che “davano in gestione” il proprio account a neri senza documenti, che non potevano registrarsi. In cambio di soldi, ovviamente.

Anche quel giorno esce subito dopo pranzo. Alle due, come ogni giorno, dovrà accendere il telefono del lavoro. In strada non c’è quasi nessuno, sembra irreale. Il rumore dello sferragliare dei tram completamente vuoti rimbomba sulla Prenestina deserta. Questi tram che girano indefessi, senza passeggeri, sono inquietanti, sembrano relitti di vascelli fantasmi trasportati dalle onde.

Alle due in punto arriva a Porta Maggiore e accende il telefono del lavoro. Comincia subito a squillare. Nessuno dei clienti conosce il suo vero nome, si fa chiamare Muhammad, anzi Moamed come pronunciano a Roma. Moussa è il nome con cui lo conoscono gli altri neri in Italia e gli operatori della comunità per minori, eppure neanche quello è il suo vero nome. In realtà si chiama Kadafi. Suo padre l’aveva chiamato così in onore dell’ex rais libico, che aveva finanziato la costruzione di una moschea nel loro quartiere di Serrekunda, in Gambia. Kadafi era nato il giorno dell’inaugurazione di quella moschea.

Suo zio, prima che partisse per il viaggio verso il nord gli aveva detto di stare attento in Libia, di cambiare nome, agli arabi non sarebbe piaciuto vedere un nero col nome del loro ex presidente. E lui aveva scelto Moussa. E Moussa Djallo era rimasto, anche in Italia. È il nome scritto su quella schedina di plastica tanto importante, che gli dà uno statuto speciale rispetto agli altri neri. Il permesso di soggiorno. Titolare di Protezione Umanitaria, c’è scritto. Quando il nigeriano aveva scoperto che Moussa ne era munito, non aveva esitato un secondo ad accoglierlo nella sua squadra (you deh in my team nah). Non solo era minore, quindi con minime possibilità di venire arrestato, ma aveva anche il permesso di soggiorno in regola, per due anni. Era perfetto. Sveglio, con le carte apposto, la faccia pulita e l’aria da bravo ragazzo, con quel tipico aspetto da nero buono, da ragazzino per bene, il tipo di nero che non faceva paura agli italiani, anzi ispirava simpatia. Lo spacciatore perfetto, golden boy.

Il telefono comincia subito a squillare non appena acceso. La quarantena non scalfisce la fame dei tossici. Moussa li conosce tutti, nomi, facce e caratteristiche. Sa chi sono quelli che pagano sempre, senza fare storie e i problematici, quelli che vogliono sempre uno sconto, che non hanno mai tutti i soldi. Vendere eroina non è un mestiere semplice, bisogna saper dosare inflessibilità e indulgenza. Non ha senso perdere un cliente fisso se un giorno ha tre euro in meno, o se ti chiede tre palline per cinquanta euro. Allo stesso tempo non si deve mai provare empatia nei loro confronti, è un discorso puramente economico. Non si fa uno sconto perché ti fanno pena o simpatia, ma solo per mantenere la fedeltà del cliente. E gli eroinomani possono essere clienti fedelissimi. Moussa ha imparato a conoscerli bene, sa distinguere i pericolosi dagli innocui. Hanno provato ad aggredirlo due volte. La prima erano in due con un coltello. Uno era un cliente nuovo, contatto di un suo collega che era dovuto tornare a Siracusa a rinnovare i documenti e gli aveva venduto la sua rubrica di clienti per cento euro. Moussa, anzi Moamed, gli aveva dato appuntamento, come al solito, in una stradina interna, dietro piazzale dei Gerani. E questo si era presentato insieme a un altro, contravvenendo una delle regole basilari che imponeva ai suoi clienti: venire da soli, o avvertire prima. Il contatto del suo collega si era avvicinato dicendogli che ne voleva due. Mentre si portava la mano alla bocca per sputare due palline, l’altro tipo l’aveva afferrato per il braccio e con l’altra mano aveva tirato fuori un coltello. – Ora ci dai tutto quello che hai, stronzo. L’altro aveva ribadito la frase sferrandogli un pugno sul ventre e afferrandolo dall’altro lato. Lo tenevano da entrambi lati, quello col coltello a braccetto, mentre l’altro gli aveva passato il braccio dietro il collo, come due amici che fanno una passeggiata.

Moussa era rimasto calmissimo, non aveva detto una parola e si era lasciato trasportare in un parcheggio sotterraneo senza opporre resistenza. Sapeva che doveva aspettare il momento adatto per liberarsi e che doveva agire in modo rapido e coordinato. Quei due tossici non gli facevano paura. Ad Agadez in Niger aveva subito aggressioni molto più serie, per non parlare di Sebha e Sabrata in Libia.

– Mo’ ce dai tutto, coglione. Avevano continuato a ripetere a bassa voce lungo tutto il tragitto Arrivati dietro una macchina gli avevano intimato di sputare tutte le palline che aveva in bocca e di tirare fuori anche i soldi. Moussa era stato fulmineo, mentre fingeva di avvicinare la mano alla bocca per sputare le palline, con uno strattone si era liberato della stretta sul braccio e con una gomitata in faccia aveva colpito quello che gli teneva il braccio sul collo. Una volta libero, aveva mirato subito a quello col coltello, colpendolo con la mano a martello sul naso, sfracellandoglielo. L’altro aveva accennato un colpo, ma Moussa, rapidissimo, con un calcio laterale dietro al ginocchio, l’aveva fatto cadere a terra. A quel punto si era allontanato. Senza correre. Sapeva bene che un nero che corre per strada a Roma richiama troppo l’attenzione. A passo rapido era uscito dal parcheggio sotterraneo e si era infilato nel supermercato antistante. Dopo mezz’ora era uscito con una coca cola e un pacco di patatine. Quei due erano scomparsi.

Moussa è fortissimo, un fascio di muscoli. Un anno di lavoro in semi-schiavitù in cantiere a Tripoli gli aveva scolpito il fisico. Inoltre era rimasto quasi un anno in un centro di prima accoglienza per minori a Siracusa, dove l’unica attività che lui e gli altri ragazzi potevano praticare era lo sport, flessioni e addominali nelle camere e la lotta tra loro. Quei due tossici avevano davvero sottovalutato la sua aria da ragazzino nero buono.

Verso le quattro lo chiama al telefono il ragazzino dei Parioli. Lui e il suo amico sono clienti fissi ormai da qualche mese. Buoni clienti, non fanno mai storie e pagano sempre. Si vede che hanno i soldi, e da quando per via del virus fa le consegne ha potuto vedere la zona in cui abitano e ha capito che sono ricchi, ricchi veramente. Anzi, mentre la settimana scorsa, pedala per la prima volta in quelle vie così eleganti, per recapitargli il primo delivery con la bici di Glovo da quando è iniziato il coprifuoco, decide di provare una mossa ardita. Invece di 25 a pallina, il prezzo che aveva stabilito con gli altri clienti, ossia cinque euro in più come rimborso per la consegna, decide di sparare alto e annunciare ai ragazzini che le palline consegnate sotto quarantena, costano quaranta euro, il doppio. I due ragazzini non avevano battuto ciglio.

 

 

L’amico

 

 

– Quaranta euro per una pallina sono una crepa, lo so fratè. Ho provato a chiamare l’altro negro, Koulibalì, ma dice che bisogna arrivare fino a là. E io un’altra imbarcata fino a Tor de Schiavi in tram, col rischio bevuta che c’è adesso, non me l’accollo. L’altra volta mi ha fatto aspettare quasi un’ora. Ed era pieno di guardie ovunque. Che cazzo gli dico? Che sto portando le mascherine a mia nonna, da viale Parioli a piazza dei Gerani? Almeno Moamed ce le porta sotto casa.

– Eh, ma io mi sto dissanguando, zì, non c’ho più una lira, non possiamo andare avanti così.

Lo fa sentire in colpa, come se gli stesse facendo la carità. Il suo amico è diventato una merda (lo è sempre stato). Gli fa pesare ogni singolo tiro di robba che offre. Come se tutte quelle volte che aveva pagato lui, che si era accollato le traversate in tram da solo (col cazzo che gli prestava il motorino) per portargliela (mi devi aiutare fratè, sto male, sto a rota, non me riesco a move, vacce te), non contassero nulla. Non si ricorda di tutta l’erba che gli regala, di quella volta che aveva pagato le sette palline per il weekend all’isola del Giglio, con i soldi dell’oro rubato alla nonna. Per non parlare di tutte quelle micro-crepette che gli infliggeva ogni volta (quelle rare volte), che andava a prenderla lui. Tornava con palline mezze vuote (ahò, me l’ha data così oggi, chettedevodì), e l’occhio già spillato o gli insulsi imbroglietti sulle divisioni (la sua parte era sempre di più). Ma lui faceva sempre finta di niente, soprassedeva: non è il caso di rovinare una fratellanza per pochi centigrammi, si diceva, ma dentro ne restava ferito, umiliato. Ed ora, in questa situazione di merda si permetteva pure di fargli pesare i (pochissimi) tiri che gli offriva.

(Ma appena Ciccio mi rida i soldi che mi deve, col cazzo che vengo qua a fumare, anzi magari ci vengo e gli lascio le peggio briciole)

Questa cosa dell’eroina è sfuggita di mano. Si sente un fallito, anche più di prima. Uno sfigato. Un tossico. Ma non riesce a smettere più. Poi ora con questa cazzo di quarantena del cazzo, la vita è ancora più orribile.

A dicembre se n’era tirato fuori, una settimana a casa. Aveva superato la crisi d’astinenza da solo. Era stato orribile, ma ce l’aveva fatta, approfittando delle vacanze di Natale e di non dover andare a scuola. L’amico c’era rimasto male, si era ingelosito del fatto che lui ne fosse uscito, che avesse superato la rota. Inizialmente dovevano farlo entrambi, insieme, supportandosi, si erano detti. Ma l’altro aveva retto sì e no due giorni, poi era corso a Tor Bella Monaca.

E quando lui finalmente aveva superato il settimo giorno, l’amico aveva cominciato a invitarlo a casa e guarda caso si faceva sempre trovare con la stagnola in mano, quasi che gliela volesse sventolare addosso. – Eh, ma tanto tu hai smesso, zì, mica ti darà fastidio se ti fumo davanti. Non me la chiedere eh, che non ti faccio fumare. Che infame. Aveva rosicato che lui ci era riuscito, che si era dimostrato più forte, più determinato. E aveva fatto di tutto per farlo ricominciare, per dimostrargli che la sua forza di volontà non valeva un cazzo. – E vabbe’, fammi fa un tiro, va.

Aveva ricominciato. Lo sa benissimo che non era colpa del suo amico, soltanto, ma sicuramente il suo atteggiamento ci aveva messo il carico da novanta.  E ora sta a rota. Quei pochi tiri che riesce a farsi di notte a casa dell’amico lo aiutano, gli calmano l’astinenza permettendogli di dormire almeno fino a mezzogiorno. Durante la giornata, resiste solo grazie ai tavor che ruba alla madre. Si dice che dovrebbe approfittare di questa quarantena e ripulirsi per bene, facendosi la “rota a secco” a casa, tanto la madre non c’è mai e quando c’è non esce dalla sua stanza e non gli si avvicina perché lavorando in ospedale potrebbe essere contagiosa. Cazzo, sarebbe il periodo perfetto per superare l’astinenza. Ma non ce la fa. Ormai né lui né l’altro fumano per stare fatti. Dopo un po’ la robba ti serve solo per rimanere normale, con funzioni vitali regolari, senza piombare nell’incubo fisico e psicologico dell’astinenza. Assumere diventa una necessità fisiologica, proprio come mangiare, bere acqua e andare in bagno. […]

 

Inedito, abbiamo ricevuto questo testo in forma anonima e ringraziamo caldamente l’autore/l’autrice, in attesa di poter pubblicare le parti successive.

 

In questo numero, abbiamo incluso un intervento critico di Reginaldo Cerolini incentrato sul racconto (che potete trovare qui).  Esso è pure oggetto di discussione nel dialogo di Reginaldo con Giulio. che potete trovare nello stesso articolo.

 

Immagine di copertina: Foto a cura della Fondazione Pino Pascoli.

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

Pagina archivio del macchinista