Un racconto argentino: Sirena di fiume, scritto da Ana María Shúa

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Dalla Fotogallery: 4K – Davide Dicorato

Sirena di fiume

Ana María Shúa

(traduzione di Lucia Cupertino)

Il sedativo che gli aveva somministrato il veterinario non aveva fatto effetto. Il cane era grande, perdeva pelo, puzzava e si muoveva nell’auto, camminando sulle gambe dei ragazzi, spostandosi sul sedile anteriore e rendendo più difficile l’accesso alla leva del cambio. ll viaggio verso Traslasierra era lungo. Si alternavano alla guida con Carolina, ma quando era il suo turno sul sedile del passeggero, Fran non riposava. Rimaneva teso, attento ai ritmi mutevoli della strada, e quando uscirono dall’autostrada fu ancora peggio, le auto che andavano in direzione contraria lo facevano andare in tilt. I suoi movimenti convulsi, le grida di allarme e le raccomandazioni finirono per stufare Carolina. Non guido più, disse. Continua da solo. All’inizio la moglie si era dedicata alla vendetta, imitandolo: attento, non così, più a destra, attento al ciglio della strada, guarda davanti a te. Per fortuna, fu ben presto distratta dal bellissimo paesaggio. I ragazzi se ne stavano tranquilli, Valentín non staccava gli occhi dal suo tablet e Ailén si sentiva così male, come le succedeva sempre in macchina, da non avere la forza di litigare col fratello. Ogni tanto dovevano fermarsi affinché la piccola potesse fare qualche passo sulla terraferma, vomitare se fosse necessario, e respirare profondamente un’aria che sembrava sempre più pura e piacevole. L’unica cosa insopportabile era il maledetto cane, non avrebbe mai dovuto permettere di farlo entrare nella loro famiglia, ma ancora una volta era stato sconfitto dall’alleanza di Carolina con i ragazzi.
L’amica di Caro viveva da sola alla periferia di uno dei villaggi di Traslasierra e li aveva invitati. A casa sua, nulla migliorò di molto. Ailén e Valentín si divertivano, perché nella frazione c’erano molti altri ragazzi e subito erano diventati pappa e ciccia con la piccola banda che scorrazzava lì. Si arrampicavano sulle piccole colline, cercarono nidi di uccelli e facevano il bagno tra i sassi di un piccolo ruscello dalle acque fresche, che non era affatto pericoloso.  Quelli che Fran non sopportava erano gli adulti. Con il tuo buon umore di sempre, lo incalzava Carolina. E forse aveva ragione, ma come e perché sopportare quegli hippy di una certa età, che si guadagnavano da vivere saccheggiando i turisti con la vendita del loro artigianato scadente, che insistevano fino all’esaurimento sull’importanza della natura? Per Fran erano semplicemente dei perdenti che si nascondevano dai loro parenti. Di notte erano sempre ubriachi e fumavano come dei turchi, con la scusa che la marijuana, il tabacco e l’alcol erano “naturali”. A Francisco non importava un fico secco di ciò che era naturale. Ogni due giorni andava al supermercato di Mina Clavero a comprare bibite. Niente zucchero raffinato, ma lecca-lecca sì? rispose una volta alle obiezioni dell’amica di Carolina. Sua moglie gli rivolse uno sguardo assassino.
Una sera, quando vari amici erano riuniti in casa a bere e chiacchierare, lo affrontò Jopito, una specie di guru che tutti sembravano rispettare e che per Fran non era altro che uno psicopatico manipolatore.
– Tu non ci vuoi bene – gli disse – Tu non bevi con noi, non canti, non giochi. Ti hanno portato qui con la forza e ci resti solo perché non hai le palle per andartene.
Jopito aveva capelli lunghi, lisci, scuri e molto sporchi, uno sguardo intenso nonostante le pupille dilatate e l’intuizione di ogni buon guru di percepire le debolezze degli altri e farne leva. Era rimasto seduto sul pavimento, ma ora si alzò, gli si piazzò davanti, sufficientemente vicino da far sì che il suo alito di vino da quattro soldi lo colpisse in faccia, e gli diede una leggera spinta sul petto. Per un attimo Fran pensò di essere costretto ad arrivare alle mani. Non litigava con un altro uomo da quando aveva dodici anni. Ma quando gli restituì la spinta, Jopito barcollò e solo allora Fran si rese conto che era così ubriaco da riuscire a malapena a starsene in piedi.
– E non è solo con noi, questa è la cosa peggiore – continuò a dire Jopito, con la sua voce profonda e saggia, che nemmeno l’alcol rendeva ridicola – Quello che non ti piace sono le persone. Gli esseri umani.
Senza rispondergli, Fran lo aiutò a sedersi di nuovo e andò in camera sua. Quella notte, nello scomodo e stretto letto ad una piazza e mezza che condividevano, Carolina non solo gli voltò le spalle, ma allontanò i piedi da lui. Era una cosa seria. Dopo una discussione importante o una brutta giornata, dopo essersi trattati male in modo diretto o sottile, nonostante tutto i loro piedi si erano sempre ritrovati sotto le lenzuola, quasi fossero capaci di decidere in autonomamente. Anche se non si abbracciavano, anche se non si parlavano, anche se i loro piedi erano freddi, c’era qualcosa in quel ritrovarsi che fungeva da sollievo e consolazione. Perché era così arrabbiata? Avrebbe dovuto litigare? Con i pugni? Nonostante la triste condizione del suo nemico? O il contrario? Avrebbe dovuto scusarsi, avrebbe dovuto cercare di giustificarsi o spiegarsi?
La sua salvezza fu quella di scoprire che nel fiume c’erano ottimi pesci re. Da quel momento in poi uscì ogni giorno con la sua canna e cassetta da pesca per tornare poi a cena con due o tre grossi esemplari. Come pescatore rispettoso delle regole, restituiva al fiume qualsiasi pesce re inferiore ai venticinque centimetri. Insegnò ai ragazzi a pescare dei pesciolini con un barattolo nel torrente, attirandoli con pezzi di pane tenuti sul fondo del barattolo con un filo di ferro. Si divertivano molto e lui glieli comprava per usarli come esca. Si prendeva cura di tutti i dettagli: canna da quattro metri, piccole lenze ad amo con tre boe, mulinello frontale. Al posto del nylon aveva acquistato il multifilamento, che è più elastico e favorisce l’aggancio. E poiché non pescava sempre nello stesso posto, avevo preparato diverse lenze con boe di colori diversi: nero opaco per evitare il riflesso, nel caso avesse il sole di fronte, e colori chiari (bianco o verde lime) per i luoghi dove il sole arrivava da dietro.
Era la stagione estiva e sulla riva del fiume c’erano sempre più turisti. Lasciavano carte sporche di ketchup e senape, bucce di frutta, sacchetti di plastica, piatti di cartone oleosi con avanzi di cibo attaccati, facendo rumore e schizzando, spaventando i pesci. Francisco decise di addentrarsi nella boscaglia, risalendo il fiume, per liberarsi delle presenze umane. Forse non era colpa degli amici di Carolina, forse non era colpa dei suoi compagni di scuola, o dei suoi parenti, o dei ragazzi dell’ufficio, forse Jopito aveva ragione e ciò che non gli piaceva erano le persone in generale, gli esseri umani, era disposto ad ammetterlo. Da solo, nel silenzio rotto dal vento tra i rami, dagli insetti o dagli uccelli, si sentiva molto meglio. Pensava. Chissà quali vette avrebbero raggiunto i filosofi greci se, invece di perdere tempo a girare per l’agorà e a parlare con gli ignoranti che incontravano, avessero fatto i pescatori. Pescare è pensare.
Si imbatté nella sirena molto a monte, in una zona in cui il pendio si faceva più ripido e il fiume era fiancheggiato da pagliai scomodi per i picnic delle famiglie. Aveva iniziato ad immergersi nell’acqua con i suoi stivali da pescatore quando la vide. Lei era seduta su una roccia, mangiava un pesce re crudo e la sua apparizione non sembrava infastidirla. Era molto brutta, con i capelli lunghissimi e aggrovigliati, mescolati con alghe, resti di plastica sporca, insetti e altri rifiuti. Le sue tette erano cadenti e le mancava un dente davanti. Non sembrava molto giovane, ma come si fa a calcolare l’età di una sirena? Fu la prima a parlare e questo rese più facile la comunicazione.
Sarebbe stato facile pensare che non avessero nulla in comune, eppure divennero subito amici. In realtà, un pescatore e una sirena hanno sempre qualcosa di cui parlare. La sirena aveva una buona padronanza dello spagnolo, con inflessione di Córdoba e un leggero, indefinibile accento straniero. All’inizio parlarono del tempo, della rivalità, del fiume, tuttavia man mano che si conoscevano meglio toccavano argomenti più personali. La sirena accompagnava le diatribe di Francisco contro gli altri esseri umani con sorrisi, commenti ed esempi che le confermavano. Ma non condivideva la sua antipatia, a lei piacevano, la divertivano, pensava addirittura di capirli. Si considerava una studiosa degli umani, li osservava sempre dal fiume, smuovendo le rive.
– Non ti annoi a guardare le persone, non fanno e dicono sempre le stesse stupidaggini? – chiese Fran.
– Può essere un po’ noioso – disse la sirena- come guardare il Grande Fratello senza il montaggio. Ma a volte succedono cose interessanti. Una storia d’amore, un litigio…
Negli ultimi anni aveva imparato molto sulle persone e sul loro strano mondo, grazie al fatto che tante persone avevano perso i loro cellulari. Tante persone? chiese Fran. Alla fine, lei dovette confessare che a volte li rubava, soprattutto in estate.
– Qui non c’è segnale – spiegò la sirena – ma di notte scendo per avvicinarmi al villaggio. – Mi prendo cura di loro in modo che non si bagnino e li uso finché la batteria dura.
La tentazione del sesso passò in fretta. L’unione era impossibile a causa delle differenze anatomiche.
– E poi non ti piacerà toccarmi – disse la sirena.
Aveva ragione. Fran ci provò comunque, la baciò anche, un po’ disgustato dalla sensazione di quella lingua dura e tagliente nella sua bocca. La pelle, anche dalla vita in su, era leggermente squamosa, fredda come quella di un cadavere. Lei non si oppose all’abbraccio, ma non lo ricambiò nemmeno con entusiasmo. Era evidente che aveva avuto altre esperienze frustrate. Il suo sesso era come quello dei pesci, un unico orifizio per tutto, freddo come le sue tette. Non cantava neppure bene.
– Non ho una brutta voce, ma sono stonata. – gli assicurò. Si mise a cantare alcune strofe dell’inno nazionale per dimostrarlo. Era vero. Continuò a cantare fino a quando il suo amico dovette chiederle di smetterla.
Tuttavia, era una sirena molto intelligente e a Fran piaceva molto chiacchierare con lei. Ora andava a pescare tutti i giorni. Carolina lo stava prendendo un po’ in giro.
– Se non fosse per i pesci re, penserei che stai facendo la parte del cowboy gay di Brokeback Mountain.
Ma anche Fran aveva visto il film e aveva prestato molta attenzione ai dettagli. Controllava la cassetta da pesca, bagnava le lenze e gli ami, cambiava le boe. Sebbene trovasse umiliante la competizione con la sirena (lei era molto più brava a catturare tutti i tipi di pesce), ogni tanto pescava per davvero. E non mancava mai di portare a casa qualche pesce re, già pulito, squamato e pronto per la padella. Quando si stufarono di mangiare pesce, l’amica di Carolina, che non aveva un freezer, chiese ad un amico di conservarli per l’autunno.
– Posso scattarti una foto? – chiese Fran alla sirena un giorno, quando mancava ormai poco al suo ritorno in città.
– Certo – disse lei.
Quella sera, chiuso in bagno, Francisco guardò le foto che aveva scattato, diverse della sirena da sola, più un paio di selfie di loro due, e capì che non ne valeva la pena. Erano inverosimili. Scoraggiato, si vede nei panni del ridicolo, che cerca di spiegare ai suoi collaboratori come e perché le foto non fossero ritoccate e la sirena non fosse travestita. D’altro canto, perché voleva farsi fotografare accanto a una donna così brutta? Avrebbe potuto creargli un problema senza motivo. Le cancellò prima di arrivare a casa.
Ciò che Fran ammirava e invidiava di più era la sua conoscenza del fiume. Non capiva bene il suo rapporto con i pesci, se li mangiava eppure sembravano suoi amici. Forse non era così strano, era simile al rapporto che le persone hanno con le loro mucche o galline. Sapeva trovare tutte le anse del fiume e si metteva all’esterno, dove l’acqua si muoveva più velocemente, trasportando più cibo. Trovava i pesci che riposavano controcorrente dietro le pietre o intorno a un gorgo, conosceva ogni piccola cascata, sapeva dove si trovavano gli arbusti o gli alberi galleggianti. Era parte del fiume, suo spirito e sua carne.
Benché fossero diventati buoni amici, non tutto ciò che la sirena faceva piaceva a Francisco, che era un uomo esigente. Vederla catturare un pesce re con i denti era uno spettacolo, ma faceva un po’ impressione. Dopo aver mangiato, lei aveva l’abitudine di pulirsi tra i denti con una lisca di pesce, senza coprirsi la bocca. Negli ultimi incontri cominciò a prendere in giro gli stivali da pescatore di cui Fran andava tanto fiero.
L’addio non fu triste. Francisco promise di tornare l’anno successivo. Avrebbe voluto vedere la sirena più afflitta a causa della sua assenza, ma lei non calcolava il tempo come una donna, un anno le sembrava poco. Fran si rese conto che in fondo in fondo non le importava così tanto se fosse tornato o meno, anche se aveva visto abbastanza teleteatri per fingere che le sarebbe mancato.
L’ultima sera prima di tornare in città, Fran decise di rilassarsi un po’ e di bere una birra con tutti gli altri. Avevano organizzato una grigliata per salutarli. L’odore della carne sulla griglia gli fece capire quanto fosse stufo del pesce. Gli esseri umani e le loro abitudini forse non erano poi così male. Ringraziò la padrona di casa, accettò di fare una giocata con Jopito, tirò fuori tutte le sue abilità sociali. Carolina era felice e grata per il suo comportamento. I bambini erano dispiaciuti di lasciare i loro nuovi amici, ma non vedevano l’ora di iniziare le lezioni e di incontrare i loro vecchi compagni.
L’anno successivo, Francisco Staderi vinse il Concorso di Pesca del Pesce Re presso la diga di La Viña. Catturò così tanti pesci re che un altro concorrente lo denunciò per aver pescato con una rete. Ma non è mai stato possibile dimostrarlo.

 

AnaAna María Shua è nata a Buenos Aires nel 1951. A sedici anni pubblicò le sue prime poesie riunite in El sol y yo. Nel 1980 ha vinto il premio della casa editrice Losada con il romanzo Soy paciente. Altri suoi romanzi sono Los amores de Laurita (da cui è stato tratto un film), El libro de los recuerdos (borsa di studio Guggenheim), La muerte como efecto secundario (Premio Club de los XIII e Premio Città di Buenos Aires, sezione romanzi) ed El peso de la tentación. Il suo ultimo romanzo è Hija. Cinque dei suoi libri sono microstorie, un genere in cui ha ottenuto il massimo riconoscimento internazionale: La sueñera, Casa de geishas, Botánica del caos, Temporada de fantasmas e Fenómenos de circo, raccolti in questo volume. Ha scritto anche libri di racconti: Los días de pesca, Viajando se conoce gente e Como una buena madre. Miedo en el sur (Paura nel Sud) ha vinto il Premio Ciudad de Buenos Aires. Que tengas una vida interesante raccoglie i suoi racconti completi fino al 2011. Il suo ultimo libro del genere è Contra el tiempo. Nel 2014 ha ricevuto il Premio Konex di Platino e il Premio Nazionale di Letteratura. Nel 2016 ha ricevuto il Premio Internazionale di Minifiction Arreola in Messico, assegnato per la prima volta. Le sue opere sono state tradotte in una dozzina di lingue.

Riguardo il macchinista

Lucia Cupertino

LUCIA CUPERTINO (1986, Polignano a Mare). Scrittrice, antropologa culturale e traduttrice. Laureata in Antropologia culturale ed etnologia (Università di Bologna), ha conseguito un Master in Antropologia delle Americhe (Università Complutense di Madrid) con tesi sulla traduzione di fonti letterarie nahuatl. Vive da tempo tra America latina e Italia, con soggiorni più brevi in Australia, Germania e Spagna, legati a progetti di ricerca, educativi e di agroecologia. Scrive in italiano e spagnolo e ha pubblicato: Mar di Tasman (Isola, Bologna, 2014); Non ha tetto la mia casa - No tiene techo mi casa (Casa de poesía, San José, 2016, in italiano e spagnolo, Premio comunitarismo di Versante Ripido); il libro-origami Cinco poemas de Lucia Cupertino (Los ablucionistas, Città del Messico, 2017). Suoi lavori poetici e di narrativa sono apparsi in riviste e antologie italiane e internazionali. Parte della sua opera è stata tradotta in inglese, cinese, spagnolo, bengali e albanese. È curatrice di 43 poeti per Ayotzinapa. Voci per il Messico e i suoi desaparecidos (Arcoiris, Salerno, 2016, menzione critica nel Premio di traduzione letteraria Lilec – Università di Bologna); Muovimenti. Segnali da un mondo viandante (Terre d’Ulivi, Lecce, 2016) e Canodromo di Bárbara Belloc (Fili d’Aquilone, Roma, 2018). Membro della giuria del Premio Trilce 2018, Sydney, in collaborazione con l’Instituto Cervantes. Cofondatrice della web di scritture dal mondo www.lamacchinasognante.com, con la quale promuove iniziative letterarie e culturali in Italia e all’estero.

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