(da) UN BAOBAB TOCCO’ IL CIELO DELL’AFRICA – Giacomo Pozzi

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La stesura di questo romanzo è iniziata per gioco, da un’immagine: un foglio bianco con al centro un punto nero. Proprio da quel punto di partenza tutto è mutato, assumendo le sembianze di un concerto di musica classica di cui sono stato il direttore; un bambino che si faceva vestire bene dalla propria madre aspettando di uscire allo scoperto.

Ogni volta che terminavo di scrivere sentivo l’urgenza di ripulirmi, il bisogno di abbandonare ed essere svuotato; così mi sciacquavo la faccia con dell’acqua fredda, oppure placavo la mente

con una doccia calda o vagabondavo come un estraneo alla ricerca di tranquillità. Ma spesso non bastava, e le pagine del libro prendevano il controllo del mio corpo un’altra volta: mi assillavano riempiendomi di una confusione completamente disorientante.

Le vicende si sono susseguite rapide nella mia mente, come lo scorrere dell’acqua di una cascata che precipita dall’alto fino al basso, si getta impetuosa e selvaggia dall’inizio alla fine per poi riunirsi al fiume calmo e pacato della valle, luogo sicuro dove defluirà in pace e ricucita per il resto del tempo. E forse, per certi aspetti, la vita dei protagonisti è andata esattamente così… è stata la loro cascata divenuta il loro fiume.

Difficile, è stato difficile.

Alcune notti faticavo a prendere sonno; venivo richiamato alla vigile attesa dagli stormi rumorosi delle idee. In altre giornate l’insoddisfazione superava di gran lunga l’appagamento e la contentezza, sfociando in un’ambigua sensazione di smarrimento rabbioso e deludente.

Di fatto, scrivere un libro – ma anche leggerlo – a volte può essere il rischio di perdere la propria persona, sminuzzare o ritagliare la propria personalità. E con lui, forse una parte di me è morta, forse un seme è germogliato nel mio animo dopo aver atteso a lungo i timidi raggi di un sole improvviso. Questo non lo so, non adesso, ma sono certo che questo libro sia esattamente come sarebbe dovuto essere: quella cascata di acqua dalla schiuma limpida, senza nulla togliere alle onde del mare. (G.P.)

 

 

Il signor Magnus tornò poco dopo con l’impronta umida delle dita sulle coste dei pantaloni di velluto, dove doveva essersi appena asciugato le mani bagnate.

 

Ci scambiammo un sorriso: lui si mise a sedere, rituffandosi con assoluta concentrazione nella lettura interrotta prima di incassare il colpo sferratogli con l’ausilio della felpa che, a sua detta, odorava di compiuto. Allora io ripresi a guardare fuori dal finestrino. L’aereo stava sorvolando alcuni monti dissonanti, colorati d’ombra da uno spazio sfumato di blu, accogliente i vespri e la sera.

L’acuta e fervida immaginazione tipica dei bambini non mi aveva mai abbandonato, neppure in età adulta, e di tanto in tanto faceva piacevolmente capolino dai meandri della mia mente.

Così, quel tardo pomeriggio, lasciai che la fantasia prendesse il sopravvento sulla ragione, modificando le sembianze del mio rigido corpo che all’improvviso si trasformò in quello di un elegante stambecco: brevi zampe dotate di larghi zoccoli e di suole elastiche, con durissimi margini taglienti adatti a far presa nell’arrampicare, andarono a sostituire le mie gambe e le mie braccia e, ancora con gli arti che vibravano per la mutazione in atto, mi accorsi di avere sulla fronte lunghe corna arcuate e nodose a forma di scimitarra.

Mi guardai riflessa nel finestrino, e rabbrividii nel vedere che i miei occhi erano diventati ovali, con strane pupille allungate di forma rettangolare, come quelle delle capre, e che lunghi peli di un colore bruno scuro ricoprivano la mia pelle rendendola uno spesso manto invernale. In ultimo, una sorta di folta barbetta sotto al mento completava la metamorfosi. Saltavo leggiadra tra una cima imbiancata e un’altra compiendo insospettabili e straordinarie acrobazie, mentre il mio corpo si muoveva tra i freddi cristalli di neve con la stessa delicatissima grazia con cui sanno volteggiare certe ballerine romantiche. Le rocce e le pietraie di alta montagna erano diventate per me occasioni considerevoli di diletto, grazie alle quali, adesso, potevo mostrare al mondo intero l’eleganza fine e amabile con la quale una donna trasformatasi fantasticamente in stambecco è in grado di danzare.

Il viaggio di ritorno proseguì tranquillo, ma tornai a essere un rigido e goffo essere umano. Sul volo finii di leggere l’ultimo libro che mi restava inesplorato tra quelli che avevo deciso di portare con me, e che mi aveva fatto compagnia durante l’attesa del cambio durata ben tre ore e mezza.

Il resto del tempo lo passai a guardare fuori dal finestrino, senza pensare a nulla in particolare fino alla fine dell’atterraggio, pizzicata a tratti come da un formicolio contemporaneamente composto da pura energia, esperienza maestosa, e afflizione malinconica per la vita in generale.

Alla stessa maniera di una donna abbandonata dal proprio marito, padre di innumerevoli figli obbligato a uccidere al fronte in nome della santa guerra, ella mi aspettava ansiosa, con il corpo putrefatto e divorato da un desiderio struggente di normalità.

Prima di addentrarmi nell’aeroporto, salutai con riconoscenza il signor Magnus.

«Arrivederci signorina Hélène! Custodisca le mie parole come fossero pepite d’oro riposte in uno scrigno d’argento, e buona fortuna a lei e a suo figlio. Le auguro tanta felicità: le spetta…»

Poi chiamai un taxi per raggiungere la casa dei miei genitori.

«Salve, dove vuole che la porti?»

«In via Washington, grazie».

«Ha fretta?»

«No, perché?»

«Vorrei fumare se non le dispiace».

«Ok, certo. Faccia pure».

Le luci accese degli appartamenti disegnavano – assieme a quelle spente geometrie a scacchiera sulle pareti degli edifici e dei palazzi vicino all’aeroporto; era ormai sera.

Il tassista fece l’ultimo tiro e, senza spegnerlo, gettò a terra il mozzicone della sigaretta. La cenere ardente emanava ancora una piccola scia di fumo; la cicca avrebbe avuto vita breve, investita da lesti pneumatici di macchine precipitose, pestata da qualcuno, osi sarebbe dissolta per autocombustione.

Il tassista mi fece cenno di salire: «Via Washington, giusto?»

Annuii.

Le piazze e le vie della città erano disseminate di gente intenta a osservare le vetrine, disorientata dalle accecanti insegne accese dei negozi come falene sfarfallanti fatalmente attratte a crogiolarsi nel loro calore. Quelle immagini sfumavano via di continuo, in balìa del moto relativo del taxi sul quale stavo viaggiando, ma a ogni curva ecco che tutte quelle persone riapparivano come lucciole: l’inquinamento luminoso, si sa, cancella il vero buio e insieme un modo di vivere.

«Siamo in via Washington».

«Si fermi prego: qui va bene. Quanto le devo?»

«Quarantadue euro».

«Mi prende per il culo?!»

Il tassista fece spallucce: «Io non so che dirle; mi ha chiamato lei e queste sono le tariffe al chilometro» disse all’aria, picchiettando il dito sul tassametro. «E se vuole scendere ora, mi paghi».

Era tutto il giorno che mi trovavo in viaggio da un continente all’altro, e ancora non ero arrivata a casa dei miei genitori. Mi sentivo davvero esausta, perciò evitai di insistere oltre con le lamentele, cercando tra un sospiro e l’altro i fottuti quarantadue euro cambi da dare a quell’approfittatore di un tassista.

Nel portafoglio mi erano rimaste solo quattro banconote da dieci euro, ma dei due euro mancanti me ne fregai altamente,

conscia di aver subìto un rincaro del prezzo che includeva il costo della sosta per la sigaretta dello stronzo.

D’impulso gliele lanciai addosso: «Tieniti i tuoi soldi! E il mozzicone della sigaretta… mangiatelo la prossima volta invece di buttarlo per terra, razza di idiota!»

Scesi dal taxi sbattendo lo sportello, e mi incamminai. Prima di partire, il tassista abbassò il finestrino e mi inveì contro: «Fottiti, cogliona!»

Ma lo ignorai.

Arrivai in fondo alla via, dove l’ultima villetta a schiera con il giardino più grande e il cancello più alto era quella dei miei genitori. Dopo qualche secondo, mia madre rispose al videocitofono:

«Chi è?»

Coprii la telecamera con il palmo della mano per non essere riconosciuta subito.

«Su avanti, si faccia vedere… chi è?!», gracchiò lei.

«Il cancello non si apre?»

«Ma insomma, che insolenza!»

Mio padre uscì di casa, e mi trovò davanti al videocitofono intenta a fare la simpaticona con mia madre.

«Nilde sta’ calma, è quella disgraziata di nostra figlia!»

Mia madre si affacciò in vestaglia da notte sul ciglio della porta e, dopo avermi visto da lontano, scese velocemente i cinque gradini, venendomi incontro con rapide e ravvicinate zampate da papera. Terminò la sua ridicola corsa fermandosi davanti alle sbarre del cancello, e anche mio padre, con molta calma, iniziò ad avvicinarsi mentre lei continuava ad ansimare per riprendere fiato, strabuzzando gli occhi incredula.

A quel punto confessai: «Mamma sono io, sono Hélène. Ti senti bene? Mica morirmi davanti eh; ci manca solo questo!»

Mia madre si rianimò da quella fase di paralisi inarcando le sopracciglia, e assordando tutto il vicinato con la sua voce squillante:

«Oddio Hélène! Bambina mia!»

«Shhh! C’è bisogno di urlare così, Nilde?!», la rimproverò mio padre, che nel frattempo ci aveva raggiunte.

«Ma cosa ci fai qui?!» sussurrò lei, impugnando le alte sbarre che restavano a dividerci. Così, con i capelli arruffati per la corsa, la vestaglia da notte e il volto incastrato tra le inferriate del bronzeo cancello a cui si teneva stretta con le mani, sembrava davvero fossi andata a trovarla in manicomio.

«Mi fate entrare per favore?»

«Ah sì sì, entra pure entra pure».

«Ho lasciato le chiavi dentro… un attimo che arrivo» disse mio padre, e con la medesima calma con la quale era venuto ritornò verso casa.

Mia madre non seppe contenere l’emozione, e riprese a urlare come una matta da dietro al cancello, con lo stesso identico tono di voce fastidioso e squillante: «Oddio Hélène, non sai che piacere vederti! Ci sei mancata tanto… Vieni dentro, vieni pure».

«Mamma parla piano, ma insomma!»

All’improvviso le due parti del cancello si dischiusero con un sonoro lamento metallico, susseguendosi verso l’interno del giardino.

Mia madre, appena poté passare di lì, si fiondò ad abbracciarmi e sbaciucchiarmi.

«Sei una disgraziata a non averci detto niente, ci hai fatto una bella sorpresa! Ti fermerai a cena spero…»

«Be’, ehm… credo che starò qui a lungo. Magari non nei prossimi mesi a venire, ma sicuramente sento di aver bisogno della

vostra presenza e del vostro supporto morale; del vostro aiuto».

Mia madre mi guardò incuriosita senza capire fino in fondo che cosa le stessi effettivamente dicendo; ma a lei non importava, adesso ero finalmente tornata a casa.

«Fa ancora freddo a quest’ora, andiamo dentro, andiamo a mangiare».

Ci avviammo lungo il vialetto ghiaiato, e il cancello si richiuse adagio alle nostre spalle, questa volta senza emettere stridio alcuno.

Mio padre aveva lasciato di proposito l’uscio socchiuso; non ricordavo che odore avesse la mia infanzia, ma appena mia madre spinse la porta, un’intensa vampata di quel profumo inconfondibile riportò indietro anche mio fratello: lo vedevo adesso davanti a me, un bambino seduto a gambe incrociate sul parquet di rovere del soggiorno, intento a fissarmi con gli occhi di chi ha voglia di giocare e non smettere mai.

Mi sentivo alquanto scossa, ma la nostalgica visione durò poco, interrotta dalla voce gracchiante di mia madre che mi urlò nelle orecchie: «Sei proprio fortunata Hélène! Ho preparato qualcosa che ti piace tanto, sai figlia mia. Posso dire casualmente – in effetti non sapevo tornassi questa sera – ma il mio sesto senso da mamma evidentemente non fallisce mai!»

La calda cena appena preparata aspettava solo me per farsi servire. Mi tolsi le scarpe, sistemai la felpa in modo che non cadesse dall’appendiabiti, e andai in cucina, dove le porzioni che stava finendo di impiattare mio padre ci aspettavano fumanti sopra a una tovaglia ricamata a mano in organza di lino con inserti in filet. La tovaglia in casa nostra era senza ombra di dubbio la regina della tavola, scelta ben ponderata e determinante, e guai a sporcarla, motivo per cui era sempre stata all’origine di molti nostri litigi, fin da quando ero piccola.

«Allora Hélène? Che ne pensi?», mi domandò mia madre dopo aver masticato qualche boccone. «È buono?»

Mio padre anticipò la risposta, canzonandola volutamente, ironia che mia madre non colse: «Nilde, a me non sta piacendo; ha un sapore strano, e credo di essere obbligato a lasciarlo raffreddare nel piatto senza mangiarlo».

Mia madre lo guardò perplessa e concitata. Poi, bisognosa di conferme, mi lanciò un’occhiata in cerca di approvazione.

Mia madre era sempre stata una credulona, così ressi il gioco di mio padre senza darle soddisfazione alcuna: «Se proprio vuoi che sia sincera con te mamma, ti dico… non è poi così buono, e ho trovato anche un capello nell’impasto». Mi impegnai a fare un’espressione schifata e ingannevole: «Queste cose mi disgustano, ho il voltastomaco adesso». Senza che lei mi vedesse, feci l’occhiolino a mio padre, che si trattenne a fatica dal ridere.

Mia madre iniziava proprio ad agitarsi, e non riusciva più a stare ferma sulla sedia. Subito dopo cercò di giustificarsi con ben poca fantasia, sparando una di quelle classiche frasi fatte del tipo: «Manca un po’ di sale, e magari poteva cuocere ancora un po’ in effetti». Atto di clemenza: mio padre pose fine alla tortura.

«Ma dai Nilde! Stavamo scherzando, è buonissimo! Forse uno degli stufati di coniglio in agrodolce migliori che abbia mai mangiato, e dico sul serio».

«Sì, mamma, è davvero squisito. Ti abbiamo solo preso in giro, credulona che non sei altro…» Risi.

Mia madre tirò un sospiro di sollievo, poi dal canto suo tentò di prendere posizione: il suo volto cambiò colorito, divenne paonazza, e contrattaccò con aggressività.

«E allora per voi due ingrati niente dolce più tardi!»

«Ma come» esortò mio padre, sollevando un sopracciglio, «io una fetta di strudel la voglio».

A questa parola mi esaltai: «Hai preparato lo strudel di mele?» le chiesi, stuzzicata dall’acquolina in bocca.

«Oh sì Hélène, lo strudel di mele migliore che abbia mai fatto. Ma lo regalerò ai vicini, siccome non sapete apprezzare la mia

cucina!»

«Ma dai Nilde! Stavamo solo scherzando…» replicò mio padre, disperato.

«Oh no no no, comoda così! Dato che adesso mi ci fai pensare, è tutto il giorno che cucino. Allora terrò una fetta solo per me; poi lo nasconderò fino a domani, e la mattina porterò il resto dello strudel alla tua amata vicina Rosy – la simpaticona. Che ne dici Anton?!»

Da uomo sicuro come lo avevo visto qualche istante prima, ora mio padre era stato messo alle strette, e sembrava trovarsi proprio in difficoltà. A questo punto non riuscivo a capire se mia madre stesse scherzando o se invece, conoscendola, se la fosse presa a cuore sul serio. Mio padre sospirò, scusandosi con lei.

«Pfff, questa poi… scusarsi adesso è proprio un comportamento da bambino piagnucolone – perché non riceverà il dolce tanto atteso – e invece, te lo meriti!»

Un silenzio tombale andò a riempire gli spazi vuoti della cucina, infilandosi tra le occhiate minacciose che mia madre continuava a lanciarci, spostando lo sguardo da mio padre su di me e viceversa. Poi, l’espressione furiosa che le disegnava profonde rughe sulla fronte e tutt’intorno agli occhi scomparve, lasciando posto a un largo sorriso da buontempona: «Dovevi vedere la tua faccia Anton!» esclamò, prima di scoppiare in un’incontenibile sghignazzata.

Dopo aver ripreso fiato andò ad accucciarsi vicino a lui.

«Eri allibito per il tuo amato dolce, tesoro; sembravi un bambino a cui avevano appena strappato il gioco dalle mani. Stavi

iniziando a farmi tenerezza, ma non devi proprio preoccuparti sai…» Mia madre gli diede due pacche sulla spalla, poi mi guardò divertita. «Ero io adesso che vi stavo prendendo per il culo! Lo strudel possiamo anche finirlo, se volete».

Guardai i miei genitori, intensamente fotografati in quella posizione da uno dei miei battiti di ciglia: quieti, immobili, zitti

zitti senza dar conto a nessuno, né alle leggi del tempo né a quelle dello spazio, né più né meno che a me. Invecchiati dagli anni, ma ancora in grado di amarsi alla follia dopo tutto quel tempo passato insieme.

Mancava solo mio fratello all’interno di quel quadro; mancavano i suoi colori sgargianti, le sue linee selvagge, le sue idee fuori dai contorni, il suo carattere dipinto sulla tela. Ma poi fui in grado di vederli: i miei genitori erano di nuovo assieme al loro amato figlio, riconciliati a ristabilire l’essenza profonda della nostra famiglia.

Continuai ad ammirare la loro forma, a indagarne l’ombra riversando la prima lacrima, che con un altro battito di ciglia scaraventai su quella tovaglia che non poteva in alcun modo essere sporcata, da nessuno, nemmeno da qualcuno che piange.

Grazie a quell’immagine sensibile e sospesa, iniziai a rendermi conto di ciò che per loro avessero significato la morte di mio fratello e la mia partenza susseguitasi. E più mi rendevo conto della mia, di assenza, più qualcosa in me andava risvegliandosi, formando gli albori di quella che poteva essere una nuova coscienza; e più questa coscienza si ampliava, prendeva forza, più aumentava in me quel senso di colpa lancinante che avrebbe presto assunto le sembianze di un incubo dal quale forse, a nessuna condizione e in alcun modo, avrei potuto avere scampo.

Perché compresi davvero che a mancare all’interno di quel quadro non fosse solo mio fratello… mancavo anche io, persa nella nebbia della speranza: io fuggitiva, io guerriera, io scampata alla morte; io incosciente bambina, io adolescente lusingata, io donna del deserto; io figlia, io sorella, io futura madre.

Decisi allora di confidarmi, svelare quel segreto che mi ostinavo a mantenere nascosto e assolvere ogni mia colpa, espiando i peggiori peccati da me commessi in vita attraverso quel gesto. Osservai mia madre e mio padre con le pupille offuscate e bruciate dal sale delle lacrime. Volli essere sincera con me stessa e con il mio cuore, e sincera con loro, almeno questa volta.

«Mi siete mancati voi due, sapete», gli dissi.

Indifesa, il loro sguardo mi penetrò.

«Mi siete mancati tanto…»

 

Ce l’avevo fatta: ero riuscita a dirglielo, un istante, senza nascondermi. E io l’avevo udita, l’avevano udita anche loro, mia madre e mio padre. Era riuscita a dirglielo anche lei; ce l’aveva fatta anche quella donna, che adesso era tornata a parlare. Non l’avevano uccisa, non era mai successo: ero stata io, io soltanto a credere fosse morta.

I polmoni saturi d’aria e le bracciate distese, immersa, colata. Quella donna aveva percorso un’immensa vasca in un sol fiato, raggiunto la fine, toccato il fondo, ed era riemersa. Durante tutto questo tempo lei aveva nuotato, solo nuotato, trattenendo il respiro, con la testa sott’acqua… Per questo non era riuscita a sentire le mie urla invocare disperatamente il suo aiuto, gemere da parte a parte della vasca mentre pesanti proiettili d’ottone ne crepavano l’acqua e le sue forme fisiche.

Giocavano il suo stesso gioco, profanando la liscia tensione superficiale di una capillarità poggiata, scolpendola come un’effigie.

Le piombavano addosso, le schizzavano accanto al corpo e alla bocca, ai lineamenti, blandendole la pelle a bruciapelo; ne invadevano continuamente il moto, ne disturbavano le fluttuazioni, ne interrompevano le gesta e i movimenti briosi e dinamici. Quel fare fuoco, loro… quei colpi spaventosi. La donna, sott’acqua, non poteva gridare: il suono ovattato, le corde vocali annegate dalla densità liquida. Solo per questo non era stata in grado di aiutarmi… Come me, lei doveva riuscire a salvarsi per non morire.

Ma era tornata a casa. Per questo piangeva. Intera.

Io avevo deciso di perdonarla pietosamente quella donna, colpevole a suo modo di essere innocente. Avevo deciso di redimerla da quell’egoistica sopravvivenza, concederle la grazia dopo aver trovato il coraggio di giudicarla e criticare il suo comportamento. Proprio io che volevo impossessarmi di un diritto incompatibile con la carità; proprio io che volevo aggrapparmi a quel peccato mortale; io che volevo uccidere me stessa con la misericordia di nessuno. Ma sarebbe stato un gesto vile quello, macchiato d’infamia, gravissimo e imperdonabile.

Adesso quella donna era nuda. Innanzi a me. Come non si era mai mostrata. In piedi. Accanto ai miei genitori. Tremava.

Quel giorno, mia madre e mio padre si resero conto di tutto. Avevano intuito quanto fossero simili a lei nell’osare essere fragili; avevano compreso di non esser mai stati lasciati soli a sfangare le difficoltà e il dolore per la perdita di un figlio, e di non esser mai stati biasimati con noncuranza o abbandonati. Mai nella loro vita. Nemmeno da mio fratello. Questo, loro lo avevano finalmente capito; come lei, come me del resto… quella donna racchiusa nelle lacrime della sua piscina.

 

* Cortesia della Casa Editrice Tempo Libero (Faenza, 2022)

 

Nota biografica

Giacomo Pozzi è stato concepito nell’isola di Creta, ma è nato nel 1998 a Lugo di Romagna e vive a Imola, in provincia di Bologna. Nell’ultimo periodo si è avvicinato alla  permacultura, trasformando completamente la sua concezione di vita. Appassionato di musica e di tè, skater da anni, ha viaggiato molto e, come ammette, continuerà a farlo cercando di vivere come ha sempre voluto: da uomo libero quale è  nato. Un Baobab toccò il cielo dell’Africa (2022) è il suo romanzo d’esordio.

 

 

Immagine di copertina: Opera grafica di Mubeen Kishany.

Riguardo il macchinista

Walter Valeri

Walter Valeri poeta, scrittore e drammaturgo è stato assistente del premio Nobel Dario Fo e Franca Rame dal 1980 al 1995. Ha fondato il Cantiere Internazionale Teatro Giovani di Forlì nel 1999. Successivamente ha diretto il festival internazionale di poesia Il Porto dei Poeti a Cesenatico nel 2008 e L’Orecchio di Dioniso a Forli' nel 2016. Ha tradotto vari testi di poesia, prosa e teatro. Opere recenti Ora settima (terza edizione, Il Ponte Vecchio, 2014) Biting The Sun ( Boston Haiku Society, 2014), Haiku: Il mio nome/My name (qudu edizioni, 2015) Parodie del buio (Il Ponte Vecchio, 2017) Arlecchino e il profumo dei soldi (Il Ponte Vecchio, 2018) Il Dario Furioso (Il Ponte Vecchio, 2020). Collabora alle riviste internazionali Teatri delle diversità, Sipario, lamacchinasognante.com Dal 2020 dirige i progetti speciali del Museo Internazionale della Maschera “Amleto e Donato Sartori”. È membro della direzione del prestigioso Poets’ Theatre di Cambridge (USA).

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