Le autonome. Storie di donne del Sud.
Raccontare la storia dell’autonomia meridionale e raccontarla, per giunta, dal punto di vista delle donne, delle compagne, del complicato percorso di ibridazione e distanziamento dalla grande stagione politica del femminismo italiano ed europeo degli anni ’70, è un’operazione complicata, difficile, che suona a tratti simile ad un’eresia[1].
Provare ad intraprendere questo percorso, significa situarsi al centro di un triangolo tutto da tracciare: quello tra movimenti autonomi, femminismo e “questione meridionale”; un triangolo in cui ognuno dei tre vertici – va detto immediatamente – ha avuto, con entrambi gli altri, una relazione difficile, dolorosa, a tratti quasi impossibile.
Un percorso che assomiglia ad una ricerca nel vuoto; non un vuoto prodotto dall’assenza, ma dalla iperpresenza di significati e parole dissonanti, di storie reciprocamente conflittuali, di spaccature profondissime.
L’autonomia meridiana. Storia di chi parte e di chi resta
L’esistenza stessa del presente volume, che prova a raccontare la storia dei collettivi autonomi vista da Sud, apre un dibattito sopito, rimasto troppo a lungo letargico: l’operaismo, lo sappiamo bene, come ipotesi teorica e pratica politica ha trovato le sue culle quasi naturali nelle catene di montaggio dei poli industriali del Nord Italia, nella centralità delle lotte operaie che hanno scosso le metropoli industrializzate; come pratica di analisi e pensiero ha fatto spesso – troppo spesso – fatica a immaginare, comprendere e tematizzare questa alterità impensabile costituita dal Meridione, dalle sue vaste aree non metropolitane, dalle sue campagne ribollenti eppure lasciate troppo spesso in pasto alla narrazione pietistica del Partito Comunista. Le cicliche esplosioni delle insorgenze meridiane – bollate sempre come pre-moderne, pre-politiche, intrappolate in un eterno “non ancora” della storia dell’antagonismo – sono troppo spesso sfuggite anche alla comprensione dei compagni dell’autonomia, con qualche rara, preziosissima eccezione incarnata dal seminale lavoro di Alessandro Serafini e Luciano Ferrari-Bravo o dalla sferzante narrazione di Nanni Balestrini. È su questi treni che portavano i contadini del Sud a diventare operai nelle catene di montaggio del Nord che abbiamo appreso a considerare il ruolo e il carattere meridiano insito nella storia dell’operaismo; una storia che non parla della famigerata ed eternamente attesa alleanza tra contadini e operai, ma che ci racconta, al contrario, che i soggetti della rivolta non erano quelli a venire, idealizzati e segregati in un eterno “non ancora”, ma proprio gli stessi: quelli che incarnavano una storia di mobilità interna senza la quale non sarebbe esistito tanto lo sviluppo capitalistico del Paese intero quanto l’assalto al cielo che lo avrebbe messo radicalmente in discussione.
Quando pensiamo poi al ruolo delle donne del Meridione nei movimenti autonomi, dovremmo avere la possibilità e il tempo di indagare anche questa prospettiva; poiché abbiamo imparato da tempo che non esiste “questione meridionale” senza questione migratoria, che la storia d’Italia è – per intero – una storia di spostamenti di massa di forza-lavoro – e delle eccedenze insite in questo movimento stesso, che hanno portato masse spossessate del Sud ad invadere le metropoli del Nord, a costituirne l’elemento di frizione, di pericolo, di sovversione. Quanta di questa storia è una storia femminile? Tanto, troppo, più di quanto siamo abituate a vedere. Uno degli elementi che hanno inficiato il piano capitalista di spostamento regolato di forza-lavoro dal Sud al Nord – regolamentazione che aveva come obiettivo il mantenimento di un determinato rapporto tra occupazione e disoccupazione – è stata proprio l’eccedenza di reti affettive, familiari, relazionali che hanno portato più persone di quante fossero impiegabili a intraprendere la strada della migrazione. Se è vero che a partire per primi per essere trasformati in operai massa erano gli uomini, è innegabile che questo surplus, questa eccedenza sia stata determinata anche da una conseguente migrazione femminile, che all’inizio avveniva all’interno delle dinamiche dei ricongiungimenti e delle anguste frontiere della famiglia – nucleare, ma anche allargata. Ed è altrettanto vero che le progressive conquiste di maggiore autonomia femminile a partire dal ’68 e per tutti gli anni ’70 corrispondevano anche ad una progressiva apertura al fenomeno delle migrazioni autonome, legate allo studio o al lavoro, di molte donne. Molte compagne che sarebbero state, poi, protagoniste di una stagione straordinaria di militanza, che avrebbero animato i collettivi studenteschi come quelli femministi, i gruppi organizzati dell’Autonomia in molte città del Centro-Nord, ma che forse non si sarebbero mai riconosciute del tutto come appartenenti anche ad una storia meridiana, ad una storia di emigrazione vecchia quanto lo Stato-Nazione.
[1] Varie donne militanti, intellettuali, attiviste sono state interpellate nel corso di questa ricerca. Alcune non hanno potuto essere intervistate per questioni logistiche o per scelte personali. L’autrice tiene a ringraziare tutte le persone coinvolte, quelle che le hanno raccontato questa storia e quelle che non hanno ancora potuto essere parte del racconto, sperando in incontri e scambi futuri ancora a venire. Un ringraziamento particolare va a Mariella Toledo e a Teresa Rossano per le parole, l’aiuto e il materiale condiviso.
Carla Panico è nata nel 1989 a Gagliano del Capo, in provincia di Lecce. Vive per molti anni a Pisa, dove si laurea in Storia contemporanea – occupandosi principalmente di Questione meridionale, migrazioni e postcolonialismo – e dove si trova allo scoppiare della crisi economica del 2008. È una delle ragazze e dei ragazzi dell’Onda. Deve tutto quello che sa alle comunità politiche e agli spazi sociali che ha frequentato e contribuito a ri-produrre negli anni successivi, in giro per l’Italia e per l’Europa. Ha scritto per DinamoPress, Euronomade, Il Manifesto e altri media indipendenti. Nel 2017 si è trasferita in Portogallo, dove ha iniziato un dottorato di ricerca, vissuto in una casa comunitaria autogestita e preso parte ai movimenti femministi – locali e migranti – con nuove compagne di viaggio e di lotta. Attualmente – precariamente – vive a Napoli.