Stralci da “I’M NEW YORK (MY DIARY)” – Diario inedito di Reginaldo Cerolini

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30 aprile 2013 (08.05) Harlem, in Harlem YMCA 7° Floor, living room

 

Sento il tipico rumore dell’ambulanza che ritma tutta NY, e dal basso un sottofondo di voci di bambini, più una volante della polizia, un clacson. Sono qui seduto da un paio di minuti.

Sono sveglio dalle 6.30 anche se mi sono addormentato alle 00.45 circa. Non so perché NY mi faccia essere tanto mattutino, mi fa ricordare i giorni nella fazenda di Lavras dove pure ero mattiniero e diversi giorni in Myanmar in cui mi svegliavo prestissimo, ma in quest’ultimo caso era per via dello stordimento dell’afa. Può darsi allora che sia la dimensione del viaggio a rendermi, attivo, o il fatto stesso che non abbia troppi pensieri. Questo però non è il caso americano, primo perché sono qui dal 26 notte e non come turista ma per restare – esclusi i viaggi di ritorno a casa in Italia – per due anni, e se si tratta della realtà che credo io per restarci un po’ di anni. Il secondo motivo è che, serenità a parte, ho molti pensieri. Due in particolare: trovare casa e iscrivermi all’università.

Qui dove pernotto all’Harlem YMCA, c’è un’atmosfera molto giusta. Il silenzio e la tranquillità della mia stanza cella – peccato solo che spesso deva venire qui nella sala comune perché in camera internet fatica a prendere – le numerose attività al primo piano sportivo-cultural-sociali, la posizione nel quartiere, il prezzo basso, lo sconto in un paio di locali dove si mangia. In effetti vorrei abitare a Harlem, in alternativa a Morningside o nell’ Upper Manatthan W.. Infatti oggi ho il secondo appuntamento, proprio nell’Upper Manatthan (da ora UMa) con Angel, un tizio strano che mi scrive da giorni, dice di essere disponibile per far visitare l’appartamento poi lo chiami e dice che sta lavorando, gli chiedi indicazioni precise per arrivare, non te le manda e poi ti scrive se sei sotto casa per vedere l’appartamento, lo chiami e non risponde. Insomma sono circa 3 giorni che ci inseguiamo, infatti io gli ho detto di averlo cercato e chiesto precisazioni senza aver avuto risposta, e lui ha risposto con delle indicazioni precise, in sms chiedendomi se andavo all’appartamento, ma siccome ieri non sono stato mai col cellulare, gli ho risposto solamente ieri sera. Insomma un’estenuante trattativa, senza neppure sapere se mi piace l’appartamento, la stanza, e lui. Dalla voce credo che sia più inglese che americano, risponde in modo sintetico e tagliato con una lieve flessione cortese (ma quasi impaziente). Ieri sono andato, come mi ha insegnato mia madre, a vedere in google la mappa del luogo e delle fotografie dell’appartamento, almeno l’esterno. Direi che sono rimasto basito, sembra una via meravigliosa. Sul fatto che il quartiere sia meraviglioso non ho dubbi, essendo tra Morningside e Uma, e precisamente fra due dei parchi che adoro St Nicholas Park, e Riverside Park e il parco più famoso di NY ovvero Central Park. E poi vicino alla Columbia (bellissimo quartiere). Insomma per dire che non è niente male, e proprio a due passi da Harlem che è in assoluto il mio quartiere preferito e che senza falsa modestia conosco discretamente poiché sono 4 giorni (ho iniziato la prima sera) che cammino 4/ 5 ore al giorno.

Non mi dispiacerebbe affatto che questa casa fosse quella giusta, mi risparmierebbe il pensiero dell’alloggio, e l’idea di continuare a aggiungere giorni alla mia permanenza in Ostello. Non tanto per questioni economiche o altro, che sono molto floride, ma perché mi sentirò a casa appena avrò la mia stanza. Appena potrò tirare fuori i vestiti dalla valigia, andare a fare la spesa, conoscere il quartiere, sentirmi insomma New York nelle vene.

La casa che sono andato a vedere in Spanish Harlem, due giorni fa, sebbene il quartiere fosse popolare e vivace, non era pessima nel suo stile trasandato e francese, ma in una via di traffico, in una posizione angusta, piccola e mal organizzata, questo per non parlare della camera ricavata dalla living room. Non so, mi ha sconfortato, tanto che tornato a casa ho scritto almeno 25 mail per nuovi appuntamenti, passando dai 750 USD come base e attorno agli 850 come tetto massimo a 850 come base e 1100 dollari come tetto massimo.

Non mi piace poi la condizione di dover essere scelto, è una cosa che mi sconforta sempre forse perché intimamente ho un’insicurezza- mai visibile esternamente- legata alla mia mancanza di fiducia nella mia qualità di persona. Questa sensazione costante, chissà dovuta forse all’abbandono, di non valere molto e quindi di doversi industriare per dimostrare il proprio valore e quindi finire col non farlo, anzi finendo coll’afflosciarsi e degradarsi recitando con mestizia la parte drammatica. Questo a un livello inconscio, ovvio ma esternamente invece, esce fuori nella sessualità in quello scoglio che è per me il sesso dove, a un desiderio sfrenato di comunicare e di piacere – il sesso non è altro che questo in fondo – consegue un sovraeccitamento caotico e ‘degradante’ in cui l’io erotico e identitario – uniti – si riconoscono. Chissà. Mi sta poi sul culo dover dire che sono omosessuale e che questo possa in qualche modo creare qualche imbarazzo o contrarietà. È solo in questo senso che cercare case è estenuante, anche se sorrido anche se sono gioviale, intraprendente e chi mi parla non credo possa sospettare nulla dei movimenti inconsci. Certo anche altri, suppongo hanno movimenti inconsci. Per esempi visto il prezzo, la posizione non capisco come mai questa stanza di Angel non sia stata già affitta. A proposito, ho il sospetto da un paio di giorni che Angel sia in realtà uno che si infiltra nel sito e da appuntamenti inventati per il gusto di prendere per il culo chi cerca casa. Questo risponderebbe alla modalità secca delle sue risposte, all’incostanza del suo agire. Ma chissà, spero di sbagliarmi e che sia invece vero.

Indipendentemente da questo ieri ho preparato in inglese circa 12 domande generali, su casa, quartiere, e situazione burocratica sull’affitto. Direi che avendo vissuto a Bologna con diverse persone, ho una certa dimestichezza con l’assunto. Alla domanda 9 c’è la questione che in italiano suona “Il fatto che io sia omosessuale potrebbe in qualche modo crearti dei problemi?” che in sintesi di google traduttore suonerebbe seccamente così “I’m gay, it’s a problem for you?”, che insomma suscita una certa ruvida ironia.

 

L’appuntamento oggi è alle 11. Sarò là già alle 10.30 per vedere anche il quartiere direttamente.

Appena trovo casa, il problema sarà questa benedetta scuola di inglese o insegnante privato. Vedremo, una cosa alla volta.

 

Non ho ancora detto – forse perché questo diario è il seguito di quello appena concluso ieri Witeng New York (iniziato a dicembre 2012 in Arese e concluso appunto ieri qui a NY)- che sono entusiasta di New York e completamente perso per Harlem.

 

Ieri ho raggiunto un record che, a parte i podisti e qualcuno in bicicletta, non credo faccia nessuno.  Dalla 135 ho preso la Fifth Avenue e l’ho percorsa interamente a piedi, con calma, sino alla fine. Credo si tratti di non meno di 5 Km. Quindi da Harlem alla Downtown zona Est. Devo dire lungo il percorso di essermi più volte chiesto se fossi matto, ma continuavo perché a volte quando ho un obbiettivo sono assoluto nonostante le difficoltà. Avevo poi un altro obbiettivo in aggiunta ovvero raggiungere la 14 St il numero centro vicino alla Square, dove si trova la mia Academy di cinematografia. Ci sono arrivato. Poi ho fatto la cosa più pazza del mondo, ho deciso di tornare a piedi e lì il mio corpo, e i miei piedi mi hanno ostentato un rifiuto ribelle, quasi feroce ma io ho continuato. Morale dalle 14.40 del pomeriggio fino alle 22 sono stato fuori, se togliamo un’ora e mezza anche due tra riposo in qualche panchina e il mangiare in un posto (anche se credo che in definitiva sia meno tempo che mi sono fermato) ho camminato circa per 5  ore. Posso dire, avendo percorso Harlem negli scorsi giorni da parte a parte, che a piedi conosco una buona parte di Manatthan. Quello che ho visto da dopo il Museum of Arts, ma anche prima, è semplicemente sbalorditivo e avveniristico. Lusso sfrenato, potenza, amenità e un po’ di tracotanza superba oserei. Ho preferito, come sempre, la parte dopo il centro (anche se i palazzi incantano come quello dei Trump e l’Empire) quando la città si abbassa e diventa più sporca e vitale, oppure la parte dopo ancora di midtown e dell’est molto europea, vitale ma senza ostentazione o eccessi. Oppure la 108 st molto bohemienne e affabile.

 

Ora vado fare colazione. È tutto per oggi. (08.59)

 

 

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(23.19)

 

“Ho God is so great!”, dice un ragazzone nero alto uno e novanta e nerissimo, dopo avermi chiesto se la stanza 723 sia la mia , lui è davanti alla stanza 725. Siccome lo guardo con stupore, mi spiega in un inglese elegante ma non americano, non inglese e in nessun modo europeo, che il motivo del suo stupore e della sua felice espressione è dovuta al fatto che gli sia appena caduta la chiavetta di internet, scivolatagli dalla tasca, proprio dentro la mia stanza e che insomma sia proprio io ad essere lì davanti, invece di dormire e essere fuori è proprio un segno divino. Non so ma “it makes sense”. Apro la camera, non la vedo, poi la scorgo in fondo vicino alle sedie, piccola e grigio nera. Gliela do e lui esplode in un sorriso. Esco un minuto dopo dalla stanza per usare internet, che spesso non prende in camera ma in questa stanza comune sì, e lui sta andando verso la mia stessa direzione che porta all’ascensore, ai bagni e docce, e a questa stanza. Scambiamo due chiacchiere e scopro che è del Ruanda. Non so se sia perché mi genera un’emozione leggera di dolcezza e allegria ma decido di seguire il ritmo della chiacchiera.

 

Non riesco a stare dietro al ritmo con cui le cose succedono, e scrivere diventa una necessità, scarica eccesso di emozioni e sensazione, altrimenti convogliabili in un’idea mesta di sessualità spiccia: e non ne ho voglia, realmente.

 

Oggi è stata una giornata stratosferica. Mi sembra di essere qui da un mese, l’esperienza arricchisce e consuma: suggestivo binomio. Dunque questa mattina, dopo aver scritto sono stato ad occhieggiare i giornali in stanza, a prepararmi e poi mi sono diretto verso l’appuntamento con largo anticipo: un’ora e venti. Non avevo calcolato bene la distanza, pensavo di metterci 15 minuti per arrivare e poi scoprire il quartiere e trovare un posto dove mangiare, e invece ce ne ho messo 35 di minuti, anche se andavo piano. Sulla Frederik Douglass ho salutato l’anziano dei libri che mi mette una gioia istintiva. Superato l’incrocio di st. Nicholas ho proseguito, ma ho visto che la zona che pensavo rimaneva un po’ prima rispetto alla direzione che credevo. Si susseguivano strade vivaci, molto belle, altre fatiscenti, e tutto fra un ‘blocco’ e l’altro. La strada della casa dove avevo appuntamento era verso l’interno vicino a via Amsterdam e, siccome tra una camminata e l’altra mancavano 30 minuti all’appuntamento, attirato da una visione di dolci tipicamente europei sono entrato dentro La Toulouse Caffetteria, mi sono fatto dare una tazza di thé, insieme a due grandi cornetti. La presentazione del thé ha avuto un lato grottesco, mi chiede la ragazza “Do you want a small cup, medium, or large?”, in effetti non ci avevo mai pensato, preso così di contropiede, che anche questo semplice e antichissimo rito orientale, reso ameno dalle donne inglesi (della middle class), potesse prestarsi a una versione commerciale e seriale da Mc., e così ho scelto la tazza media, senza cucchiaio ma con una cannuccia (sic!). Mentre ero un po’ stordito dall’aspettativa per la casa (la cui posizione tutto sommato non mi dispiaceva), dall’impaccio di prendere lo zucchero da sacchetti mignon che dovevo aprire uno ad uno, e cercavo di barcamenarmi girando il the con la cannuccia, scoprendo oltre tutto che il cornetto era freddo, confesso di essere stato preso da un momento di sconforto. Per fortuna un solerte cameriere mi ha chiesto con gentilezza se volessi che scaldasse la mia pasta, e io come se fosse un marinaio venuto a salvarmi ho detto “Yes please” con devozione amorosa. Lui mi ha invitato a sedermi, e mi ha detto che me lo avrebbe portato appena pronto. Da allora ho cominciato a respirare con calma e a trovare il mio punto d’equilibrio. Una signora inglese mi si è seduta di fianco col marito (suppongo), mi ha fatto un magnifico sorriso e ha commentato la giornata, che forse si apriva al sole, sosteneva. La pasta era molto buona, soprattutto portata con quella gentilezza calma del cameriere, che aveva finito il turno e poi è andato via salutandomi. Ho chiesto un’altra pasta mentre cercavo di riordinare i pensieri. Ho citofonato, Angel mi ha aperto la casa era vuota, mi ha dato la mano in modo sbrigativo – un’esitazione, quasi volesse nascondere tattilmente una mutilazione – e sfrecciando per la casa, che ho visto solo per incidenza – piuttosto grande- mi ha portato nel loculo, scuro e rettangolare, borbottando qualcosa sulla necessità di fare la mia scelta. Quando sono riuscito a fargli la mia unica domanda “quanti siete in casa” in modo vago e frettoloso ha detto “Io, mia madre …” quasi scoppiavo a ridere, ma ha continuato “mio fratello, altri due tizi” e poi grazie al cielo si è fermato, si è girato verso il corridoio e mi ha portato alla porta “La casa è libera dal 1° maggio, quindi prendi una decisione veloce”. Più veloce di così, non potevo prenderla: sono andato via a gambe levate. Lo sconforto gocciolava dentro di me, con una pozza dentro al petto difficile da ignorare. In più si frapponeva una strana anomalia, ero certo che non fosse questa la via, così come ero certo che la stanza non corrispondeva a quella che avevo visto in internet. Dopo tutto da questo fantomatico Angel avevo ricevuto solo sms, quando ho guardato il foglietto che avevo in tasca per istinto ho capito che si era trattato di uno sbaglio, una delle persone a cui avevo scritto lasciando il mio numero mi aveva chiamato senza specificare, ed ecco il perché di quei messaggi. Invece la persona con cui avevo parlato il mio primo giorno, era un’altra, di cui infatti conservavo il numero. Ho fatto subito il numero e mi ha risposto la voce di due giorni fa che riconoscevo, sferzante e algida ma calma. Mi ha detto che non era in casa e mi ha dato appuntamento per le 19.30. Un po’ pedissequamente mi ha fatto ripetere il numero e la via perché non sbagliassi. Ho camminato. Allora più sereno e con una speranza in più – proprio sulla 111 davanti alla casa dove ho preso appuntamento per la sera- mi sono seduto su una panchina per riflettere, una signora anziana che avevo notato mangiare il gelato a cento metri da me, passando mi ha fatto un sorriso grande “How are you, my boy?” a cui ho risposto con gratitudine, dieci minuti dopo sono tornato verso casa e ho potuto restituire il sorriso a un anziano signore che barcollava e che è stato come acceso dal mio semplice sorriso. Ma ancora adesso c’è un elemento che non mi torna. Prendendo la Frederik Duglass dal lato sinistro, che non avevo mai fatto all’altezza della 133 ho visto una libreria. Non ci potevo credere. In tutti questi giorni da che sono qui, non ho visto che due librerie: pazzesco. Ho provato ad entrare, ma nonostante l’orario indicasse che dovesse essere aperta, era chiusa. Una signora nera corpulenta, mi ha chiesto di cosa avessi bisogno, le ho detto solo dare un’occhiata e lei mi ha detto che in teoria aveva da fare, ma che se volevo potevo entrare. Sono entrato. Non aveva molti libri, forse appena una cinquantina allestiti in modo visibile. Una libreria sulla negritudine direi, con titoli interessanti su Spike Lee, Obama, le scrittrici nere, movimenti sociali, e libri di auto-aiuto solo credere in se stessi per giungere alla meta. Molto americano, molto protestante e (naturalmente) evangelico il modello. Io e la signora abbiamo incominciato a parlare. Mentre lei seduta spostava fogli. Di Harlem, degli affitti, delle stanze piccole, di Obama, dell’Italia, dell’assistenza sanitaria, della lettura, delle attività sociali, del suo provenire dal Colorado e quando le ho detto della New York film Academy, mi ha detto sorridente “Most important one black man !”. Mi ha fatto scintillare il petto. Poi mi ha detto che se volevo, potevo tornare da lei la settimana prossima per darmi qualche consiglio di case dove poter andare a un prezzo non proprio eccessivo in alcune zone della 137 St. Le ho detto che se poteva bene, ma di non preoccuparsi che in 3 mesi ho solo due cose da fare: imparare bene la lingua e trovare casa. Nel frattempo ho visto due libri che mi piacevano uno “Famous black quotations” di Janet Cheatham Bell. Le ho domandato cosa significasse “quotations” mi ha fatto capire che significava “frasi celebri”, a quel punto mi ha detto che parlo proprio un buon americano. Le ho detto che spero di migliorare. L’altro libro è “Great African-American Novels” di Frederick Douglass (quello della Av.), William Wells Brown, Harriet E. Wilson, per dirla con una battuta su questi autori ho un black-out , non ne conosco nessuno . Questo mi piace. Ho salutato la gentilissima signora dagli occhi grigio-chiari, assicurandole che avevo chiamato mamma e papà, visto che mi diceva “Chissà come si sentiranno soli i tuoi genitori senza te” e me ne sono venuto all Harlem YMCA (che ho scoperto si pronuncia Hallem Yem si ei  e non Harrlem Imca come lo pronunciavo io). Tornando a casa ho scritto una lunga lettera ad Arianna, ho ricevuto la risposta di Leslie Chumming sul fatto che posso andare alla NYFA quando voglio per fare l’intervista. Poi mi sono messo a leggere “famous black quotations”, con il dizionario di fianco e appuntandomi le parole che non sapevo, su cui sono in dubbio o che potrebbero essere ‘dei falsi amici’ – una miriade insomma- poi mi sono messo a studiarle, a pronunciarle. Mi ha preso circa un’ora e mezza. Mi piace il fatto che questo sia il primo libro che leggo interamente in americano, mi sa di buon auspicio. Se devo fare una critica al testo, non posso non menzionare la mancanza di una contestualizzazione e nota su come, dove e quando sono state proferite queste frasi. Mancanza grave, a mio parere. Ho dormito circa un’ora e mezza e poi mi sono alzato per andare all’appuntamento. Sono arrivato lì con puntualità, ho fatto un paio di foto alla chiesa e facendo la camminata sulla F. Douglass mi ha davvero commosso la negritudine, la gioia vitale, l’intensità dei volti, dei passi, dei gesti, dei toni, delle espressioni e quel ritmo da inizio primavera (il sole che era uscito incominciava a coricarsi). Un gruppo di ragazzi (circa 12) facevano evoluzioni in bicicletta, facendosi applausi e prendendosi in giro, un paio di ragazzini sui quattordici anni si chiarivano con qualche spinto “Why you touched my face” ha detto uno all’altro stendendolo in terra, senza un minimo di rabbia e risistemandosi i pantaloni, mentre le amiche di fianco cercavano di dare poco importanza al fatto sollevando il ragazzo atterrato, un altro bambino di sette otto anni invece, giocoso saltava sulla spalla del vincitore, un gruppo di vecchietti sulle sedie guardava la strada, e un mondo nero e ispanico, fra macchine cariche di musica scivolava sulla avenue ostentando la vita. Ho chiamato e il ragazzo mi ha detto che non c’era che sarebbe arrivato entro un’ora, ho chiesto che citofono fosse e lui mi ha detto “You can not go in the home with out me!”, a cui ho risposto “I know, I asked just for do not call you again!” ho risposto piuttosto seccato dicendogli che sarei stato lì. In realtà volevo mandarlo a quel paese, però non era il momento di avere un altro sconforto. Quella cazzo di zona, vicina alla mia Harlem, a due passi (davvero) da Morningside Park ed ha 70 metri da Central park mi piaceva troppo. Sono andato a mangiare in un ristorante etiope. Grosso errore, non devo mangiare quando sono nervoso. Ma ormai ero dentro. Avevo voglia di coccolarmi. Ho preso una cosa col pollo e mi è arrivato questo piatto quadrato gigantesco e meraviglioso con una sorta di piadina morbida e frugale in cui era servito il sontuoso piatto di pollo con salsa, più un’altra salsa e, per finire, verdure in umido lessate, da bere avevo preso una spremuta d’arancia, secondo errore, – troppo fredda (tanto che ho dovuto chiedere se poteva togliere ‘l’Ice’ – secondo errore e continuavano a riempire un bicchierone d’acqua. Ho pensato che fossero matti, la mole di cibo e bevande era troppa per il mio stomaco. In più niente posate – però erano passati a portare un tovagliolino lindo e bianco, bagnato e fresco – insieme ad un elegante ciottolino -. Ho mangiato con le mani, pensando all’ Wali e alla Tanzania (terra il cui ricordo mi è rimasto nel cuore). Ho dovuto controllare i moti di stanchezza del mio stomaco. Il piatto era buono. Ho pagato e alle 20.20 ero fuori, guardavo una madre passare con i suoi tre figli neri sotto i 7 anni tutti bellissimi e sereni. Ah se si potesse serbare la memoria di questi momenti di candore della nostra infanzia, quando non sappiamo che ciò che ci divide dal cielo è appena un soffio di respiro. Bisognerebbe ricordare, ricordare sempre. Non fa bene (non è proselitismo religioso, antireligioso, ateo o laico che sia) è vita. Dunque ricordare è vita, non ricordare è – a mala pena – esistere : c’è una bella differenza. Ho chiamato il ragazzo e non ha risposto, ho provato a richiamare e non ha risposto, ho aspettato un quarto d’ora e intanto ero piuttosto stanco, deluso amareggiato. Pensavo di lasciargli un biglietto sul portone con scritto “You don’t think that I need respect!?” e di mettere sotto il suo numero di telefono, poi invece ho lasciato un messaggio sul suo cellulare. Mi salvava il pensiero di tornare a casa e rimettermi qui a cercare altri annunci, con pazienza e forza. A due donne che sono entrate ho chiesto se sapevano che una casa cercava affittuari: mi era venuto il dubbio come stamattina che si trattasse di uno scherzo di cattivo gusto. Poi è passato un ragazzo nero, elegante quasi glamour con capellino e giacca di lavoratore con pantaloni, che come le due donne precedenti, entrava nel palazzo. Ho domandato a lui se sapeva che avevano una stanza in affitto. Mi ha detto “Ah, sei tu?” con calma e placidità, per poco non lo uccidevo “Mi hai fatto arrabbiare” gli ho detto “ma ti avevo detto che lavoro”. Io ho sorvolato sul fatto che sono giorni che cerco un dato preciso. Siamo saliti in casa. Mi ha detto di accomodarmi in cucina. Quasi una forma di gentilezza in cui mi è sembrato di vedere la luce. Cucina piccola con tavolone alto a 6 posti ma perfettamente fornita di tutto e di più. Poi mi ha fatto vedere la stanza, che per i canoni newyorkesi che ho visto è davvero grande, ci sta un letto matrimoniale e avanza più o meno un metro su un lato, e un metro e mezzo d’ingresso, più l’armadio. Direi che posso viverci. Mi è sembrata buia, ma fuori era buio e probabilmente per come sono le case di questo stile è una finestra che da su un rettangolo interno di solito lugubre e con poca luce. A me però preme più lo spazio. Altro difetto, non ha la sala, e le visite in casa sono solo fino alle 22 (un po’ pazzi), se viene qualcuno devo pagare 20 dollari a notte. Avevo già letto di questo a riguardo. Torniamo in cucina, sono piuttosto interessato alla casa, mi spiega la procedura legale, le cose con le caparre. È molto paziente e ripete con calma. C’è qualcosa in lui che differisce dalla persona che avevo visto in basso: è come contento che sia lì. Gli faccio tutte le mie 11 domande scritte, il prezzo 850 tutto incluso (gas, luce, elettricità, elettrodomestici) – non ho chiesto se internet- è per me ottimo. Entrare nella casa ha i suoi vantaggi. Mi fa da subito risparmiare perché spenderei circa 1400 dollari al mese stando qui nel pur economicissimo YMCA, senza contare che non essendoci che un microonde e non il frigorifero, non posso né fare la spesa né cucinare (altro motivo di grande risparmio). Aggiungici anche la serenità di avere un mio posto, in una zona che semplicemente è esattamente ciò che vorrei. Si tratta di una soluzione ottima. Dico che sono interessato, e praticamente domani alle 8 (salvo imprevisti, con lui non si sa mai, ho già imparato) vado a firmare il contratto e dare la caparra. In casa siamo in 4 anche se la quarta, la proprietaria, non c’è praticamente mai mi spiega. C’è in casa un altro ragazzo, oltre a lui che si chiama Quentin, un po’ troppo bello per i miei gusti, mulatto che passa per salutare. Sono stupito che non ci si presenti tutti visto che si deve vivere insieme. Ma così va in America, prendere una casa è solo una formalità pratica. Quanto stride questo con la gentilezza americana. Non mi offre neppure un bicchiere d’acqua, ma visto che sono seduto sorvolo. La cosa che mi fa più ridere è quando gli dico che sono gay e se questo può dare fastidio a qualcuno, lui mi dice “In che modo potrebbe dare fastidio scusa?” un po’ stupito che lo ponga in questione. Esco contento e al contempo deluso, timore che qualcosa non vada, che sia troppo facile, che ci sia un grande segreto, una gabola, o una fregatura in un momento in cui ho bisogno solo di semplice e solidi punti fermi. Camera, Corso di lingua, e Master in Sceneggiatura. Prima che esca, e dopo che ho scoperto che fa proprio l’agente immobiliare, mi chiede che tipo di sceneggiatore sono, “About some boring movie” gli dico con facilità complessa, e lui stavolta non sa come sfuggire a quest’espressione. Sorride e quasi balbetta, qualcosa come se il mio enunciato chiedesse conforto. Strano il meccanismo reattivo umano. Scendo i cinque piani – altro difetto pregio, dipende- in un lampo, un elegante signora bionda apre la propria porta, si gira e mi sorride. Costeggio il parco e vengo verso casa. Intanto cerco di chiamare Eliana per chiederle cosa pensa di questa mia scelta. Io che a Bologna ho preso la prima casa e non sono mai andato via, così poco aduso a sbagliare.

Crescendo uno pensa che si toglie molte paure, ma nel mio caso non direi, a parte l’infanzia in cui ero un fiore aperto al furore del mondo, dopo i 26 anni la mia sicurezza si è deteriorata e vivo sprazzi di impetuosità come fasti d’eco di una grande fierezza che ho avuto dai 21 fino ai 25, 26 anni. Che sia questa flessione dell’essere, questa fragilità scomposta ad essere motivo di una nuova identità? Chissà.

Qui all’Hotel mi sono messo a parlare con una ragazza della reception sono sempre 3, 4 e cambiano ogni giorno e persino dal giorno alla sera. Le ho chiesto se hanno cuffia e costume, poi sono andato a vedere la piscina al secondo piano e già che c’ero la sala aerobica, la sala di pesi, il campo da basket. Per poco svenivo di erotismo puro a vedere quei 8/10 ragazzoni tra i 20 e i 30 anni, massicci e vitali, sudati e forti ansimare dietro una palla. Questo Ymca, con i suoi centri sociali e mille attività è sorprendente. Domani o dopo andrò in piscina e magari mi iscrivo al corso di Yoga. In casa- 320, 111 St, se poi va tutto bene e non è una fregatura, ci entro il 5 maggio.  Sono poi uscito a prelevare e quando sono tornato c’era un omone nero che mi ha chiesto “Do you have the room number 237?”, “Yes sir! …”, “ Oh God is so great!”

 

(1.56)

 

 

Immagine di copertina: Opera grafica di Mubeen Kishany.

Riguardo il macchinista

Reginaldo Cerolini

Nato in Brasile 1981, Reginaldo Cerolini si trasferisce in Italia (con famiglia italiana) divenendo ‘italico’. Laureato in Antropologia (tesi sull’antropologia razzista italiana), Specializzazione in Antropologia delle Religioni (Cristianesimo e Spiritismo,Vipassena). Ha collaborato per le riviste Luce e Ombra, Religoni e Società, Il Foglio (AiBi), Sagarana, El Ghibli . Fondatore dell’Associazione culturale Bolognese Beija Flor, e Regista dei documentari Una voce da Bologna (2010) e Gregorio delle Moline. Master in Sceneggiatura alla New York Film Academy e produttore teatrale presso il National Black Theatre. Fondatore della CineQuartiere Società di Produzione Cinematografica e Teatrale di cui è (udite, udite) direttore artistico. Ha fatto il traduttore, il lettore per case editrice, il cameriere, scritto un libro comico con pseudonimo, l’aiuto cuoco, conferenziere, il commesso e viaggiato in Africa, Asia, Americhe ed Europa.

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