Materiali dalle letture in solidarietà con Salman Rushdie alla Libreria Ubik Irnerio di Bologna

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Proponiamo un piccolo archivio di materiali dalle letture bilingui italiano inglese dalle opere di Salman Rushdie tenutesi alla Libreria Irnerio-Ubik, a cura de La Macchina Sognante e The Dreaming Machine il 29 settembre 2022, nell’ambito dell’appello per letture mondiali lanciato dall’Internationales LiteraturFestival Berlin in solidarietà con lo scrittore bersagliato da censure e fatwa già dagli anni 80 del 900 per la sua scrittura e vittima di un tentato omicidio  ad agosto di quest’anno ad opera di un fondamentalista islamico. Condividiamo la scaletta, il link alla registrazione della serata e alcuni dei materiali e delle immagini:

https://youtu.be/22j4Ihhnr10

 

Sana Darghmouni e Bartolomeo Bellanova presentano l’iniziativa in italiano, Pina Piccolo breve introduzione in inglese

Silvia Albertazzi, Professoressa ordinaria Dipartimenti di Lingue, Letterature e Culture Moderne, Unibo, intervento di contestualizzazione s come l’opera di Salman Rushdie è stata integrata e tradotta in ambito italiano.

Maria Luisa Vezzali, letture da  I figli della mezzanotte e Furia

Sana Darghmouni, lettura da I versi satanici

Primo stacco musicale a cura di Luca Sparro, musiche tradizionali del Kashmir. 

Zack Rogow lettura in inglese da Midnight’s Children

Marinette Pendola lettura in italiano  dello stesso brano tradotto in italiano, da I figli della mezzanotte

Walter Valeri legge da Patrie immaginarie, traduzione italiana

Aritra Sanyal, da Kolkatavideo lettura in inglese Imaginary Homelands –

https://youtu.be/ttn86–Wdnk

Secondo stacco musicale di Luca Sparro, musiche tradizionali indiane 

Bartolomeo Bellanova e Lance Hanson, leggono brano da Joseph Anton alternandosi in italiano e inglese

Gaius Tsaamo traduzione italiana di brano da Non c’è niente di sacro?

https://youtu.be/Ui5eH-BEfdI

 

DIO NOI CONFIDIAMO, brano tratto da Imaginary Homelands: Essays and Criticism 1981-1991 (Granta, in association with Penguin 1991) (Patrie immaginarie), Salman Rushdie.

 

Ci troviamo in un momento della storia in cui, guardandoci intorno nel pianeta, sembra che Dio – o, meglio, la religione formale – abbia ricominciato a insistere per occupare un ruolo centrale nella vita pubblica. Non potrebbe esserci momento più appropriato per approfondire il tema dei rapporti tra politica e religioni.

Non sono né un teologo per formazione né un professionista della politica, quindi non posso vantare alcuna competenza. Tuttavia, mi sono trovato, scrivendo narrativa, incapace di evitare le questioni politiche; la distanza tra la persona e gli affari di Stato è ormai così piccola che non sembra più possibile scrivere romanzi che ignorino la sfera pubblica. A volte si invidia a Jane Austen la sua capacità di ignorare le guerre napoleoniche. Oggi, con la televisione che porta immagini da tutto il mondo in ogni casa, sembra in un qualche modo falso cercare di escludere il rumore degli spari, delle urla, del pianto, per tappare le nostre orecchie contro l’inesorabile ticchettio del ‘Doomsday Clock’. Per quanto riguarda la religione, la mia opera, che in gran parte si concentra sull’India e il Pakistan, mi ha costretto ad affrontare la questione della fede religiosa. Anche la forma della mia scrittura ne risente. Se si vuole descrivere onestamente la realtà come viene vissuta dalle persone religiose, per le quali Dio non è un simbolo ma un fatto quotidiano, allora le convenzioni di ciò che viene chiamato realismo sono del tutto inadeguate. Il razionalismo di quella forma arriva a sembrare giudizio, un’invalidazione della fede religiosa dei personaggi descritti. Bisogna dunque creare una forma che permetta al miracoloso e al mondano di coesistere allo stesso livello, nello stesso ordine di eventi. Ho trovato questo essenziale anche se io stesso non sono un uomo religioso.

Il mio rapporto con il credo religioso formale è stato alquanto contrastato. Sono stato cresciuto in una famiglia musulmana indiana, ma sebbene entrambi i miei genitori fossero credenti, nessuno dei due era insistente o dottrinario. Due o tre volte l’anno, ai grandi festival dell’Eid “IN GOD WE TRUST”, mi svegliavo per trovare nuovi vestiti ai piedi del mio letto, mi vestivo e andavo con mio padre alla grande fanciulla di preghiera fuori dalla Moschea del Venerdì a Bombay, e mi alzo e scendi con la moltitudine, borbottando attraverso l’ arabo incompreso proprio come fanno o facevano con il latino i bambini cattolici. Il resto dell’anno la religione passò in secondo piano. Avevo un’ayah (tata) cristiana, per la quale a Natale si metteva un albero e si cantava canti sul bambino Gesù senza sentirsi minimamente a disagio. I miei amici erano indù, sikh, parsi e niente di tutto questo mi sembrava particolarmente importante.

Dio, Satana, il Paradiso e l’Inferno svanirono tutti un giorno nel mio quindicesimo anno, quando persi improvvisamente la fede. Lo ricordo vividamente. A quel tempo ero a scuola in Inghilterra. Il momento del risveglio avvenne, infatti, durante una lezione di latino, e dopo, per provare il mio ritrovato ateismo, mi comprai un panino al prosciutto piuttosto insapore, e così mangiai per la prima volta della carne proibita del maiale. Nessun fulmine è arrivato per colpirmi. Ricordo di aver sentito che la mia sopravvivenza confermava la correttezza della mia nuova posizione. Mi sono leggermente pentito della perdita di Paradise, però. Il paradiso islamico, almeno per come ero arrivato a concepirlo, mi era sembrato molto attraente. Mi aspettavo di ricevere, per mio personale piacere, quattro bellissimi spiriti femminili, o uri, non toccati dall’uomo o dal djinn. Le gioie del giardino profumato; sembrava un peccato doverli rinunciare.

Da quel giorno ad oggi ho pensato a me stesso come una persona del tutto laica, e sono stato attratto dalle grandi tradizioni del radicalismo laico: in politica, il socialismo; nelle arti, nel modernismo e nella sua progenie, che sono state le forze trainanti di gran parte della storia del ventesimo secolo. Ma forse scrivo, in parte, per riempire quella camera vuota di Dio con altri sogni. Perché, dopotutto, è una stanza in cui sognare.

Il sogno fa parte della nostra stessa essenza. Dato il dono dell’autocoscienza, possiamo sognare versioni di noi stessi, nuovi sé per vecchi. Sia nella veglia che nel sonno, la nostra risposta al mondo è essenzialmente fantasiosa: cioè, la creazione di immagini.

Traduzione italiana dall’inglese di Pina Piccolo

 

Brano da “Is Nothing Sacred?”, discorso di Salman Rushdie pronunciato da Harold Pinter  il 6 febbraio 1990 all’Institute of Contemporary Arts di Londra, per l’autore costretto a nascondersi

 

[…] Immagina questa cosa. Ti svegli una mattina e ti ritrovi in una casa grande ma disposta in maniera illogica. Mentre la percorri, ti rendi conto che è tanto enorme che non riuscirai mai a scoprire ogni suo angolo. In casa ci sono persone che conosci, familiari, amici, amanti, colleghi; anche molti estranei. La casa è piena di attività: conflitti e seduzioni, feste e veglie. Ad un certo punto ti rendi conto che non c’è via d’uscita. Scopri che questa cosa la puoi accettare. La casa non è quella che avresti scelto, è in pessime condizioni, i corridoi sono spesso pieni di bulli, ma dovrai accontentarti. Poi un giorno entri in una cameretta dall’aspetto insignificante. La stanza è vuota, ma ci sono delle voci, voci che sembrano sussurrare solo a te. Alcune delle voci le riconosci, altre ti sono completamente sconosciute. Esse parlano della casa, di tutti quelli che ci sono dentro, di tutto ciò che sta accadendo, è accaduto e dovrebbe accadere. Alcune di loro si esprimono esclusivamente usando oscenità. Alcune sono stronze. Alcune sono amorevoli. Altre sono divertenti. Altre ancora sono tristi. Le voci più interessanti sono quelle che comprendono tutto questo insieme di cose allo stesso tempo. Inizi ad andare in quella stanza sempre più spesso. Lentamente ti rendi conto che la maggior parte delle persone in casa a volte frequenta questo tipo di stanze. Eppure esse sono tutte posizionate in maniera discreta e hanno un aspetto insignificante.

Ora immagina di svegliarti una mattina e di essere ancora nella grande casa, ma tutte le stanze con le voci sono scomparse. È come se fossero state spazzate via. Ora non c’è nessun posto in tutta la casa dove puoi andare a sentire voci che parlano di tutto in ogni modo possibile. Non c’è nessun posto dove andare per le voci che un momento possono essere divertenti e tristi quello subito dopo, voci che possono suonare rauche e melodiche nel corso della stessa frase. Ora ricorda: non c’è via d’uscita da questa casa. Ora questo fatto comincia a sembrare insopportabile. Guardi negli occhi le persone nei corridoi: famiglia, amanti, amici, colleghi, estranei, prepotenti, preti. Vedi la stessa cosa negli occhi di tutti. Come usciamo da qui? Diventa chiaro che la casa è una prigione. La gente inizia a urlare e dare pugni contro i muri. Arrivano degli uomini armati di pistole. La casa inizia a tremare. Non ti svegli. Sei già sveglio.

 

La letteratura è l’unico posto in ogni società in cui, nella segretezza della nostra testa, possiamo sentire voci che parlano di tutto in ogni modo possibile. Il motivo che dovrebbe spingerci a garantire la conservazione di questa arena privilegiata non è il desiderio degli scrittori di avere l’assoluta libertà di dire e di fare quello che vogliono. È che noi, tutti noi, lettori e scrittori e cittadini, generali e figure religiose abbiamo bisogno di quella stanzetta dall’aspetto insignificante. Non abbiamo bisogno di sacralizzarla, ma dobbiamo ricordare che è necessaria.

«Lo sanno tutti», scriveva Saul Bellow in Le avventure di Augie March , “Non c’è raffinatezza o accuratezza nella soppressione. Se tieni premuta una cosa, tieni sotto pressione anche quella adiacente.’

Dovunque nel mondo la stanzetta della letteratura è stata chiusa, prima o poi i muri sono crollati.

Traduzione italiana dall’inglese di Pina Piccolo.

 

Foto e card con lettrici e lettori a cura di Melina Sofia Piccolo.

 

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

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