Camilla Boemio: La rappresentazione della guerra è un tema ricorrente nel fotogiornalismo, che, per trasmettere la cronaca e le notizie, supera con un fermo immagine il cortocircuito espressivo dell’orrore, che non sempre trova descrizione nelle parole. Purtroppo, spesso la società si ferma a una spettacolarizzazione dell’immagine come se si trattasse di un videogioco o di un film di successo. Come possiamo raccontare quello che sta accadendo in Ucraina?
Zarina Zabrisky: Grazie per questa domanda. Documentare la realtà evitando di fare del sensazionalismo è una sfida per qualunque giornalista di guerra. Quando si fotografano i cadaveri dei soldati russi lasciati sul campo, come si fa a evitare la crudezza dell’immagine? Quando si lavora in un luogo che è stato appena bombardato, come si fa a non trasmettere una rappresentazione drammatica? Spesso la scena assomiglia più a un film di guerra hollywoodiano che alla realtà. Non so la risposta, ma sto scoprendo che concentrarsi sui dettagli e sulle sfumature aiuta a catturare la complessità della vita durante la guerra. Le riprese epiche di città in fiamme possono indurre all’orrore, eppure un mezzo sorriso sul volto livido di una donna incinta salvata da sotto le macerie della sua casa dice di più. Così pure un’anziana signora che fa giardinaggio sullo sfondo del cielo annerito da un’esplosione. Un bambino con un vestito azzurro accanto a un carro armato russo arrugginito a Kyiv nel giorno dell’indipendenza ucraina. Gli occhi del sindaco di Odesa che guardano l’area di un edificio distrutto dove è stato ucciso un bambino, il giorno di Pasqua. Lo sbuffo di fumo di una sigaretta, durante l’esumazione di una fossa comune a Izium. Sono una scrittrice, prima di tutto, e per me è tutta una questione di come si racconta. La storia è: Il popolo ucraino combatte contro un aggressore brutale e sopravvive. Il loro coraggio è di una bellezza straziante.
C.B.: Qual è stata la sua prima esperienza con la fotografia?
Z.Z.: Quando ero bambina mio padre aveva una macchina fotografica analogica e mi ha insegnato a sviluppare le foto in bianco e nero nella camera oscura. Ricordo ancora l’odore e la magia. Era divertente, ma le foto non erano niente di speciale. Mio padre amava la fotografia e ho collezioni di diapositive dei suoi viaggi. Agli inizi, una decina di anni fa, scattavo foto con il cellulare perché volevo cogliere i dettagli della scena per poterla poi scrivere; però in seguito ho capito la ricchezza della storia non scritta racchiusa nella foto e ho iniziato ad apprezzarla molto, arrivando perfino ad amarla. Una volta, a Hong Kong, ho perso il mio cellulare e ho scritto un racconto cercando di ricreare a memoria le foto che avevo scattato, poi un artista ha illustrato quella storia… quindi per me l’immagine e le parole sono quasi una cosa sola. Ho anche lavorato molto con fotografi in qualità di modella e truccatrice e so che la vera fotografia professionale richiede molte conoscenze tecniche e attrezzature speciali. Il mio compagno è un fotografo professionista e sento parlare molto di luce, esposizione, obiettivi e post-produzione. Mi piacerebbe imparare tutto questo… forse.
C.B.: Può descrivere la sua serie fotografica?
Z.Z.: La mia serie fotografica ucraina è in realtà un blog di immagini. Cammino con la macchina fotografica pronta e scatto foto a destra e a manca durante la giornata. Ogni momento è prezioso, voglio conservare ogni scena per farla vedere a tutti. Ad esempio, vado a Privoz, il mercato più importante di Odesa, per comprare le mele: lì scatto foto di esposizioni colorate di albicocche secche e caramelle, pomodori giganti e torte gonfie, ritratti di signore con i ferri in mano che fanno calzini di lana, cerco di catturare l’immagine di un gatto orgoglioso che ha appena catturato un topo e tutto il mercato esulta… e poi la difesa aerea abbatte un drone kamikaze iraniano sopra la mia testa, così cerco di catturare quel momento, ma mi sfuggono le fiamme e il fumo e finisco con l’arco bianco che attraversa il cielo e un piccolo sbuffo d’aria. Oppure, cammino per Kharkiv al crepuscolo, fotografando le facciate distrutte, le decorazioni natalizie ancora appese a settembre e l’oscurità che avvolge il centro perché non c’è elettricità, cercando di capire come catturarla… È davvero il diario visivo di una giornalista che racconta la guerra.
C.B.: Come si riesce a penetrare l’immaginario collettivo?
Z.Z.: Probabilmente, tenendo presenti ed essendo sempre consapevoli degli archetipi. Vi faccio un esempio: una delle canzoni più popolari in Ucraina in questi giorni è la canzone della strega che maledice il nemico. È scritta come un canto, con ritornelli e motivetti popolari. È incredibilmente potente e ha una grande risonanza nell’ascoltatore a un livello profondo e subcosciente. “Perirete nelle nostre terre, morirete nelle nostre foreste… Nemico, ciò che la strega dice, così sarà”. Il ritratto di una giovane donna dagli occhi verdi in un rifugio per animali di Kharkiv, con un gatto nero salvato sulla spalla, ha una simile potenza, anche se forse non ce ne rendiamo conto.
E poi i colori e le forme delle immagini. Un limone su una tovaglia blu o un mare di girasoli dorati contro il cielo terso possono dire più che una bandiera ucraina. Bambini vestiti di giallo e blu che ballano al ritmo dell’orchestra militare. Guanti di gomma blu come mani tese accanto a una croce di legno e a una tomba vuota a Izium. Una cavalletta ferita appesa al vetro della finestra a Kharkiv. Citando dal mio saggio: “Tornata nella mia stanza, guardai fuori dalla finestra. Il cielo era rosso fuoco. La cupola dorata di una chiesa brillava. Dall’altra parte del vetro sedeva una cavalletta verde, grande, più simile a una locusta, con una sola zampa posteriore. Si aggrappava al vetro e io ho scattato due foto: in una ho ingrandito l’insetto, che era di dimensioni enormi e si era impadronito del cielo e dell’edificio alle sue spalle, un invasore. Nell’altra foto, ho cambiato la messa a fuoco ed era la città in tutta la sua barocca grandezza sovietica, con l’invasore ridotto, quasi invisibile, solo un insetto. Mi dispiaceva per la locusta rimasta sul vetro freddo”.
Nel link al saggio citato potete vedere come confluiscono le immagini e le foto: https://gregolear.substack.com/p/ukraine-dispatch-the-smell-of-izium
C.B.: Quello che fa è certamente eroico. Potrebbe parlarci di come vive e di come aiuta le persone?
Z.Z.: Apprezzo la sua gentilezza, ma non sono certo un eroe. Eroi sono gli uomini e le donne coraggiosi che combattono al fronte, vivono nelle trincee e muoiono per la loro libertà e quella del loro Paese. Provo riverenza nei loro confronti. Quando è iniziata la guerra volevo arruolarmi nella Legione Straniera, ma poi ho capito che sono più utile per raccontare e portare al mondo la verità su questa guerra. Cerco di aiutare il più possibile facendo arrivare le storie e le voci degli ucraini e facendo vedere al mondo le loro immagini. Per questo viaggio in Ucraina e documento quanto più possibile. Scrivo per diversi giornali, realizzo podcast e io e i miei colleghi ucraini abbiamo appena fondato un canale YouTube in lingua inglese per raccontare queste storie, nella speranza che le persone di tutto il mondo possano sostenere chi ha bisogno di aiuto. Ad esempio, il rifugio per animali di Kharkiv ha un disperato bisogno di aiuto o un’organizzazione di volontariato di Nova Ukraine consegna cibo e medicine alle aree appena liberate, dove la gente vive senza elettricità, acqua o Internet. Si spera che qualcuno nell’Unione Europea o negli Stati Uniti si commuova di fronte a queste storie per dare assistenza economica o per chiedere ai governi che hanno eletto di sostenere l’Ucraina.
C.B.: La fotografia presenta un rapporto complicato con la realtà. Può darci degli spunti su questo tema?
Z.Z: La macchina fotografica frappone una lente di vetro tra l’osservatore e l’osservato – e in questo senso può diventare una protezione. L’ho scritto nello stesso saggio citato prima, “Sasha è venuto e mi ha accompagnato a South Saltivka, il luogo che ha subito maggiore distruzione da parte dei russi, una visione apocalittica – grattacieli bruciati, incendiati, in rovina, una strada dopo l’altra, muri che crollavano, mettendo a nudo le stanze così com’erano – una scrivania, una lampada, una tenda di pizzo che si agitava al vento, una pianta morta. L’avevo già visto a Borodyanka a Kyiv e a Serhiivka a Odesa, ma non sono mai riuscita ad abituarmi. Tenere la macchina fotografica posizionata tra i miei occhi e quell’orribile spettacolo mi ha aiutato, come sempre.
Io registro per la storia. Io riporto quel che vedo. Vedo le cose ma non le vedo, anche se le vedo”.
Questa protezione si è rivelata necessaria nelle fosse comuni. A Izium, “Siamo entrati nella foresta. Ho visto persone che scavavano, portavano grandi sacchi neri, fumavano, camminavano. Era molto affollato e ho iniziato a sentire l’odore che si impossessava di me, rallentando tutto, spegnendo il mio cervello, come se il tempo non esistesse più. Camminavo, facevo foto e video, parlavo con altri giornalisti, eppure tutto era un film lento e strano, che di tanto in tanto s’inceppava, con tutti i fili del significato staccati…
Persone in tuta di plastica trasparente bianca e verde scavano la terra gialla sotto la pioggia. Metto la telecamera tra me e le buche nella sabbia. Scatto.
È così silenzioso che sento un becchino tossire. Quattro di loro rimuovono una croce di legno con il numero 412 scritto a matita e iniziano a spalare la terra. Lavorano all’unisono, in armonia, una macchina ben oliata. La sabbia gialla vola nell’aria. Presto uno degli scavatori salta dentro la tomba. Non riesco a vedere cosa stia facendo lì. Scatto.
Tutti e quattro tirano fuori un cadavere in un sacco di plastica nero, usando una lunga cintura di cuoio. Scatto.
Una donna con un impermeabile rosa trasparente solleva una mano rigida. Scatto. Metto il mio telefono tra me e il cadavere. Lo vedo ancora. Non sembrava vero, sembrava più un cadavere di plastica di un negozio di Halloween o di un film horror di Hollywood. Le orbite vuote, il colore impastato, come la sabbia, come la segatura. Sono miope e anche con gli occhiali non ci vedo bene, e sono contenta di non vederci. Scattare.
…
La donna in rosa continua a esaminare il corpo, metodicamente, come un robot. Qualcuno scrive quello che dice, o forse usa un dittafono.
Sento distintamente, in ucraino: “Maschio. Un calzino nero”.
Manca l’altro calzino. Non sono in grado di scattare la foto”.
La macchina fotografica usa la luce, gli angoli e la scienza per fissare il momento e conservarlo per l’eternità. In un certo senso, uccide e immortala il momento nel tempo e in un segmento di spazio. Il fotografo diventa il ricevitore: di luce, di significato, di vita e, in guerra, di morte. Tutto questo invoca un aspetto di giudizio morale, una componente etica. Che fare: devo mettere giù la macchina fotografica e correre ad aiutare? È etico cogliere il momento del lutto, il momento della perdita?
E poi c’è il primo piano: quando si ingrandisce l’immagine in post-produzione. Poi c’è il sentimento della scoperta: come in Blow Up di Michelangelo Antonioni. Si scopre qualcosa che non si sarebbe visto sul momento.
Roland Barthes ha scritto sulla fotografia e sul significato di una fotografia meglio di chiunque altro, credo. Dove finisce l’oggetto nella fotografia e inizia il soggetto? L’inspiegabile nella fotografia, il punctum, quel piccolo dettaglio che sfugge alle parole. È questo che rende la fotografia toccante e la rende un’arte.
Penso spesso a Lee Miller, musa di Man Ray, modella e fotografa surrealista che divenne corrispondente di guerra durante la Seconda Guerra Mondiale. Le sue fotografie mi hanno lasciato impressioni indimenticabili, più di qualsiasi altra immagine di guerra. Una tenda nella brezza, una stanza vuota, gli ufficiali nazisti morti e le loro famiglie, un suicidio di gruppo. Lee Miller, nuda, nel bagno di Hitler: lei e il suo compagno furono i primi a entrare nel suo appartamento e scattarono una serie di foto. È qui che le parole si fermano e la follia della guerra – e il punctum – prendono il sopravvento.
By U65945 – Own work, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=31304664
Zarina Zabrisky è una pluripremiata scrittrice ed attivista per i diritti umani, statunitense di origine russa, autrice dell’acclamato romanzo We, Monsters, numerose raccolte di racconti tra cui A Cute Tombstone, Iron, Explosion, e il libro di poesia e arte Green Lions realizzato in collaborazione con Simon Rogghe.
Camilla Boemio: Scrittrice d’arte, curatrice e teorica la cui pratica indaga l’estetica contemporanea; nel 2013 è stata curatrice associata di Portable Nation, il padiglione delle Maldive alla 55.° Esposizione Internazionale d’Arte La Biennale di Venezia, dal titolo
Il Palazzo Enciclopedico; nel 2016 è stata curatrice di Diminished Capacity, il primo padiglione della Nigeria alla XV Mostra Internazionale di Architettura, con il titolo Reporting from the Front; nello stesso anno ha partecipato a The Social(4th International Association for Visual Culture Biennial Conference) alla Boston University. Nel 2017, ha curato Delivering Obsolescence: Art Bank, Data Bank, Food Bank, un Progetto Speciale della 5th Odessa Biennale of Contemporary Art.
E’ membro della AICA (International Association of Arts Critics).
Boemio ha scritto e curato libri; ha contribuito con saggi e recensioni a varie pubblicazioni internazionali, scrive regolarmente per le riviste specializzate, e i siti web; ha tenuto parte a simposi, dibattiti e conferenze in musei e festival internazionali (dalla scheda dell’autrice in EXIBART).
Immagine di copertina: Foto di Zarina Zabrisky, dal blog di viaggio By Broken Roads: A Ukrainian Travelogue apparso nel sito PREVAIL, di Greg Olear.