CÉSAR VALLEJO PROSATORE: UN ESTRATTO DA TUNGSTENO E NOTE DEL TRADUTTORE

César Vallejo _ Tungsteno _ Copertina

«Nel Perù di inizio Novecento, l’impresa statunitense Mining Society acquista le miniere di tungsteno della zona di Cuzco, creando un giro d’affari inconsueto per gli abitanti del luogo. Ma l’arrivo dei gringos equivale a un’invasione nelle terre ancestrali degli indigeni, e nelle loro vite. Ben presto il lavoro in miniera si trasforma in schiavitù. Il lettore non può restare indifferente all’esplicito atto di denuncia contenuto nel romanzo; è costretto a prendere una posizione, come fa l’agrimensore Leónidas Benites, uno dei protagonisti. Con un linguaggio diretto ed estremamente visuale, Vallejo intreccia una narrazione che è prima di tutto politica, ancora attuale a più di ottant’anni dalla sua prima pubblicazione: una riscoperta necessaria» (Sur#28, quarta di copertina).

Vi presentiamo un estratto dell’opera Tungsteno e in seguito una nota del tuo traduttore.

Dopo un po’, Graciela apparve all’angolo della strada, accompagnata da Cucho. I presenti nel bazar si nascosero. Soltanto José Marino si fece sulla soglia, cercando di dissimulare la sbornia.

«Entra», disse affettuosamente a Graciela. «Sto per partire. Entra. T’ho fatta chiamare perché sto per partire».

Lei replicò, timida: «Credevo che se ne sarebbe andato senza neppure un arrivederci».

All’improvviso, esplodendo in fragorose risate, tutti uscirono dai loro nascondigli e si pararono dinanzi a Graciela che, rossa in viso, sbalordita, arretrò verso il muro. Fu presto circondata: alcuni le stringevano la mano, altri le accarezzavano il mento. Marino le disse, sbellicandosi dalle risa: «Siediti, siediti. Sono tutti qui per salutarmi. Gli amici! I nostri padroni! Il nostro grande e amato commissario! Siediti! Cosa prendi…?».

La porta venne socchiusa e Cucho restò fuori in attesa, seduto sulla soglia e tenendo ancora il cavallo per la cavezza.

[…]

Graciela era già brilla. Il suo amante, Marino, le aveva dato da bere uno strano e misterioso liquore, preparato clandestinamente da lui stesso. Un solo bicchiere era bastato a ubriacarla. Il commissario, chiamato in disparte Marino, gli disse: «Formidabile! Formidabile! Lei è un portento. Ormai è più di là che di qua…».

«E pensare», osservò Marino, compiaciuto, «e pensare che le ho dato solo un po’ del mio liquido verde. Se avessi aumentato la dose, a quest’ora sarebbe completamente sbronza…».

Abbracciò Baldazari e aggiunse: «Lei merita tutto, commissario. Tutto. Molto più di un mio “intruglio”! Molto più di una donna! Io, per lei, darei la vita! Mi creda».

Graciela, sottosopra a causa dell’“intruglio” propinatole da Marino, cantava e piangeva senza ragione. Si alzava di scatto e prendeva a ballare da sola, fra gli applausi, le risa e le lusinghe dei presenti. Si era tolto lo scialle, e con in mano un bicchiere diceva, dondolandosi sulle gambe: «Sono una povera disgraziata! Don José! Venga! Chi è lei per me? Me lo dica, la prego! Io non sono che una miserabile…».

Urla e risate aumentavano. José Marino, a braccetto col commissario, disse allora a Graciela, come se parlasse a una cieca, e a voce alta perché tutti sentissero: «Vedi? Qui c’è il signor commissario, l’autorità, la persona più importante di Quivilca. E quelli sono i nostri padroni, Mister Taik e Mister Weiss. Li vedi, qui con noi?».

Graciela, gli occhi offuscati dall’alcol, si sforzò di distinguere il commissario.

«Sì. Lo vedo. Sì. Il signor commissario. Sì…».

«Bene. Il signor commissario si occuperà di te, durante la mia assenza. Capisci? Lui si prenderà cura di te. Farà le mie veci in tutto e per tutto…». Marino ammiccò a Baldazari e proseguì: «Dovrai obbedirgli come fai con me. Mi senti? Mi senti, Graciela…?».

Graciela rispose, con voce stentata e socchiudendo gli occhi: «Sì… Va bene… Va bene…».

Poi vacillò, quasi fosse sul punto di svenire. Il tesoriere Machuca scoppiò in una risata omerica. José Marino gli fece segno di tacere e strizzò l’occhio a Baldazari, per intendere che quello era il momento buono. Gli altri, in coro, sussurravano a Baldazari: «Forza, commissario! La prenda adesso! Se la prenda!».

Il commissario, però, si limitava a ridere e a bere. Graciela, aggrappandosi al bancone per non cadere,

andò a sedersi e chiamò a gran voce:

«Don José! Venga vicino a me! Venga…!».

José Marino fece di nuovo cenno a Baldazari di avvicinarsi alla Rosada, ma quello, per tutta risposta, tracannò un altro bicchiere. Di lì a non molto, il commissario era ubriaco fradicio. Fece servire champagne, più volte ancora. Gli altri erano ugualmente ebbri e in uno stato di assoluta incoscienza. Rubio, urlando in modo sguaiato, discuteva di politica internazionale con Mister Taik, mentre il professor Zavala, Leónidas Benites e Mister Weiss si abbracciavano l’un l’altro. José Marino e il commissario Baldazari non smettevano di circuire Graciela. La Rosada, per un attimo, abbracciò Marino, ma questi si svincolò delicatamente dalla stretta, mettendo Baldazari al suo posto. La ragazza se ne accorse e spinse via il commissario.

«Bacia il signor commissario!», le ordinò allora Marino, stizzito.

«No!», ribatté Graciela con foga, come scuotendosi dal torpore.

«Lasci stare!», disse Baldazari a Marino.

Ma il reclutatore di peones, già su tutte le furie, insistette: «Bacia il signor commissario ti dico, Graciela!».

«No! Questo mai! Mai, don José!».

«Non lo baci? Non fai quello che ti ordino? Aspetta qui!», grugnì il commerciante e andò a preparare un altro dei suoi “intrugli”.

Al calar della notte, la porta venne serrata e il bazar piombò nelle tenebre. All’interno, tutti – tranne Benites, che si era addormentato – conobbero, uno dopo l’altro, il corpo di Graciela. Generosamente, sia José Marino sia Baldazari offrirono la ragazza ai loro amici. I primi a goderne furono naturalmente i padroni, Mister Taik e Mister Weiss. Gli altri si succedettero secondo la gerarchia sociale ed economica: il commissario Baldazari, il tesoriere Machuca, l’ingegner Rubio e il professor Zavala. José Marino – per discrezione, galanteria o garbo – fu l’ultimo. Lo fece nel mezzo di una sarabanda infernale. Nell’oscurità, la sua bocca emise parole, esclamazioni e grida di mostruosa abiezione. Un dialogo spaventoso: da Graciela, come unico segno di vita, veniva un respiro rauco e strozzato. José Marino proruppe, alla fine, in una macabra e laida risata…

Quando nel bazar le luci vennero riaccese, si videro bottiglie e bicchieri rotti sul bancone, champagne versato a terra, indumenti a brandelli un po’ dovunque, e volti disfatti e sudati. Macchie di sangue punteggiavano i colli e i polsini delle camicie. Marino portò una catinella d’acqua. Mentre tutti, in tondo, procedevano a lavarsi le mani, un colpo di revolver centrò il recipiente, facendolo volare sino al soffitto. Una risata scrosciò dalla bocca del commissario, autore dello sparo.

«Era per mettere alla prova i miei uomini!», disse Baldazari, riponendo la pistola. «Vedo, però, che avete tremato».

Leónidas Benites si ridestò.

«E Graciela?», chiese, sfregandosi gli occhi. «Se n’è già andata…?».

Nell’atto di pulire gli occhiali, Mister Taik disse:

«Signor Baldazari, bisogna svegliarla. Penso che debba tornare alla sua baracca, ormai. È notte».

«Sì, sì, sì», replicò il commissario, facendosi serio.

«Bisogna svegliarla. Ci pensi lei, Marino: è pur sempre il suo uomo!».

«Ah!», esclamò il commerciante. «Sarà difficile. Contro il mio “intruglio” non c’è altro rimedio che il sonno».

«Ad ogni modo», intervenne Rubio, «non si può lasciarla così, buttata sul pavimento… Non le pare, Mister Taik?».

«Oh, sì sì!», disse l’amministratore, fumando la pipa.

Leónidas Benites si avvicinò a Graciela, seguito dagli altri. La Rosada giaceva a terra, immobile, i capelli scarmigliati e la gonna in disordine, mezzo sollevata. La chiamarono, scrollandola con forza, ma quella non accennava a svegliarsi. Portarono una candela. Ripresero a chiamarla e a scuoterla. Niente. La ragazza rimase immobile. José Marino poggiò l’orecchio sul suo petto, mentre gli altri attendevano, in silenzio.

«Cazzo!», esclamò il commerciante, rialzandosi. «È morta!».

«Morta?», domandarono tutti, sbigottiti. «Non dica stupidaggini! Impossibile!».

«Sì», ribadì, con noncuranza, l’amante di Graciela. «È morta. Ci siamo divertiti, però».

A voce bassa e assumendo un tono severo, Mister Taik allora disse: «Bene. Acqua in bocca. Mi avete sentito? Neanche una parola! Adesso bisogna riportarla a casa e dire alle sorelle che ha avuto un malore, e che devono lasciarla riposare e dormire. Domani, quando la troveranno morta, tutto si aggiusterà…».

Gli altri assentirono, e così si fece.

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Il testo che segue è la trascrizione parziale della conferenza tenuta il 18 giugno 2016 a Roma, presso la libreria “Le Storie” (via Giulio Rocco 37/39), dal traduttore dell’opera, Francesco Verde.

Pubblicato non in Perù ma in Spagna, nel 1931, El tungsteno segna il passaggio del prosatore César Vallejo (il poeta, fra i maggiori del secolo scorso, non ha certo bisogno di presentazioni) dallo stile fortemente letterario di Fabla salvaje o dei racconti compresi in Escalas melografiadas (opere entrambe del 1923) a un realismo di aspra denuncia sociale e politica. Il titolo della collana cui viene destinato dall’editore madrileno ha già del programmatico: La novela proletaria, “Il romanzo proletario”.

[…]

Vi confluiscono senz’altro motivi autobiografici – Vallejo era vissuto nella sierra e aveva lavorato nelle minas di Quiruvilca: tolte due lettere, resta Quivilca – ma ciò che davvero lo connota e discosta dal romanzo indigenista, soltanto descrittivo della condizione di miseria e schiavitù dell’indio, è proprio l’impronta ideologica: evidentissima nel capitolo finale, il terzo, che per questo si legge quasi come un pamphlet, un libello propagandistico, da       agit-prop.

[…]

La maggiore consapevolezza politica induce Vallejo ad aggiungere i gringos, gli americani neo-conquistadores, alla triade tipica di sfruttatori presente nel romanzo indigenista (il prefetto, il sindaco, il parroco) e a prospettare – non esistendo ancora in Perù un consistente proletariato urbano – l’alleanza rivoluzionaria di indios e cholos. Servando Huanca, che nel terzo capitolo martella con queste idee l’esitante mezzo-borghese Benites, è appunto un cholo, un meticcio inurbato.

[…]

Il romanzo si articola dunque in tre capitoli, che non è azzardato definire anche “scene” o “quadri”, accogliendo il suggerimento dell’ottimo Fofi prefatore, in ragione di uno sviluppo similteatrale, di cui dà conferma, per esempio, il frequente ricorso al dialogato: capitoli autonomi all’apparenza (ciascuno potrebbe considerarsi racconto a sé stante) e invece tenuti insieme con notevole abilità narrativa, facendo agire i personaggi (tipi antropologico-sociali semplificati ad arte, in qualche caso fino alla macchietta) dentro la medesima cornice geografica, e seguendo di fase in fase l’evoluzione ideologica del carattere principale: Léonidas Benites, il solo in effetti a essere sempre in scena, dal primo all’ultimo atto.

Lo si sente all’inizio, tutto preso dall’incarico di agrimensore, biasimare apertamente i soras, ai suoi occhi null’altro che selvaggi, meritevoli di essere depredati – laddove lo spontaneo comunismo degli indios, la loro totale mancanza di calcolo economico vengono esaltati dal narratore, e contrapposti al feroce interesse capitalistico della Mining Society. Poi, cristiano fervente e un tanto nevropatico, lo si scopre escluso dalla comunità mineraria, emarginato dai suoi stessi compari e colleghi, con l’unico affetto d’una vecchia bizzoca, che forse gli ricorda la madre lontana e che, come una madre, l’assiste durante il delirio febbrile. Infine lo si ritrova, senza più lavoro, cacciato dalla Mining, a confabulare in una baracca con Servando Huanca.

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A ben leggere, la semplificazione, la resa caricaturale dei personaggi devono giudicarsi non difetti, ma espedienti del tutto funzionali all’idea narrativa del Tungsteno. Vallejo se ne serve sapientemente, per ridurre la complessità morale e psicologica del personaggio rappresentato ai tratti generici, ma distintivi, della classe d’appartenenza: l’agrimensore Benites, i commercianti Marino, il fabbro Huanca interessano come exempla, paradigmi sociali, non come individui, e quindi come: intellettuale fallito, ex facchini arricchitisi, proletario rivoluzionario.

I fratelli Marino in particolare sono, con ogni evidenza, dei grotteschi prototipi. Salariati senza coscienza di classe, giunti chissà come a metter su una florida impresa commerciale, esprimono al massimo grado i peggiori vizi del loro nuovo status piccolo-borghese: scaltrezza, ipocrisia, avidità. Il più sordido, il più repellente dei due, José, è anche – insieme con Benites – figura di raccordo tra il primo e il secondo capitolo: colpevole tanto dello stupro collettivo di Graciela, ordito nel suo bazar a Quivilca, quanto della sottomissione carnale di Laura in casa di Mateo, a Colca. Laura la campesina, condivisa sessualmente dai fratelli Marino, anzi proprietà della Marino Hermanos, sembra essere del resto personaggio ad hoc, grazie al quale Vallejo riesce a giustapporre le psicologie malate di José e Mateo, allo scopo di rimarcarne, sia pure un poco in caricatura, le specifiche abiezioni: tali da metterli, una volta sbrigati gli affari, l’uno contro l’altro.

[…]

Gli episodi clou del romanzo – efferati al punto da imporre a Vallejo una scrittura iperbolica e al contempo crudamente oggettiva, senza più accentuazioni comiche o satiriche – sono quello del già ricordato stupro di gruppo, che causa la morte di Graciela Rosada, e quello dell’arresto a Guacapongo dei due yanaconas Braulio Conchucos e Isidoro Yépez, con la loro marcia forzata fino alla sottoprefettura di Colca, dove li attende un campionario di turpi biografie (il sottoprefetto, il sindaco, il giudice, il cacicco), in seduta per valutarne l’idoneità al servizio militare. La morte di Conchucos durante l’interrogatorio scatena poi la rivolta popolare, capeggiata dal fabbro Huanca e brutalmente repressa dai gendarmi.

[…]

La violenza carnale sulla giovane chola Graciela evoca subito, come chiara metafora, la violenza imperialistica perpetrata ai danni del Perù e dell’intero Sudamerica; non foss’altro perché i violentatori sono gli stessi: dirigenti d’impresa yankee e loro autoctoni leccapiedi. «Yo soy todo de los yanquis!», urla ubriaco, a un certo punto del romanzo, il sindaco di Colca: «Io devo tutto agli yankees!».

Chi non prende parte allo stupro nel bazar di Marino è lui, Léonidas Benites, giustamente raffrenato dalla sua morale cristiana, addotta però non molte pagine prima a giustificazione o santificazione del sopruso affaristico, del successo individuale anche a scapito del prossimo. In altre parole: il devoto al Sacro Cuore di Gesù non sfugge alla nuova, dominante ideologia borghese e si dimostra (se non in atto, almeno nei pensieri) anch’egli un profittatore, anch’egli un violentatore, non così diverso da Marino e parroquianos.

[…]

Qualche altra considerazione merita l’idioma del Tungsteno: volutamente medio (forse in polemica con certe vacue sperimentazioni modernistiche) e spesso imitativo del parlato, con opportuni, dosati peruvianismi. Escludendo, tuttavia, la parte del primo capitolo in cui si narra l’incubo di Benites, tanto linguisticamente peculiare, tanto estranea al resto del romanzo, da far pensare a un’interpolazione: quel che di fatto è, provenendo da un testo, Sabiduría, apparso quattro anni prima in Amauta, la rivista di José Carlos Mariátegui. Vallejo ne sfronda il lessico, ne asciuga la sintassi, vi introduce soras e Mister Taik e lo trasforma in una specie di divagazione stilistica – probabilmente non necessaria, ma tollerabile – all’interno del Tungsteno, cioè di un disegno narrativo concepito per coniugare letteratura e “pegno” sociale, ricorrendo di nuovo a Fofi.

[…]

È vecchia, ma non priva d’interesse, la discussione se si tratti o no di un romanzo “a tesi”, modellato su una concezione prestabilita, adeguato a una normativa extraletteraria che, inevitabilmente, gli sottrae qualità estetica.

Io credo che El tungsteno rientri nella categoria, ma che comunque – schematico “per scelta”, per rispondere cioè alle esigenze rivoluzionarie del Perù di quegli anni – si conservi in una dimensione coerentemente letteraria.

Vallejo lo chiama anche novela-reportaje, romanzo-reportage, volendo significarne la distanza dal cosiddetto psicologismo, dal romanzo psicologico, i cui personaggi, e l’autore con essi, ininterrottamente riflettono su esperienze e sentimenti personali.

[…]

In poco più di cento pagine, El tungsteno condensa situazione sociale prerivoluzionaria e ritratti personali, ammettendo finanche l’esistenza di una residua, incorrotta umanità in due dei “cattivi” oligarchi del Cuzco: il liberale e conciliante medico Riaño e il pusillanime, ma in buona fede, Léonidas Benites.

E se non può definirsi un capolavoro – Fontamara del nostro Silone, al quale Fofi lo associa, gli è di sicuro superiore – tuttavia riproduce un mondo reale, che si esprime con le sue proprie voci, e in cui sono i nudi fatti raccontati, non le sottese idee politiche dell’autore, a reclamare il cambiamento.

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CÉSAR VALLEJO

Nato il 16 marzo del 1893 a Santiago de Chuco, villaggio andino della regione di La Libertad, lasciò il Perù nel 1923 e visse a Parigi, da esule volontario, il resto della sua vita – salvo che negli anni 1930-32 e 1937, trascorsi nella Spagna repubblicana. Nel 1928, nel 1929 e nel 1931 fu in Russia (la terza volta invitato a partecipare al Congresso internazionale degli scrittori solidali con l’Unione Sovietica). Morì il 15 aprile 1938. Opere principali: le raccolte poetiche Los heraldos negros (1919), Trilce (1922) e Poemas humanos (1939); i racconti Fabla salvaje (1923), Paco Yunque (1931) e quelli compresi nella raccolta Escalas melografiadas (1923); El tungsteno (1931), suo unico romanzo.

Riguardo il macchinista

Lucia Cupertino

LUCIA CUPERTINO (1986, Polignano a Mare). Scrittrice, antropologa culturale e traduttrice. Laureata in Antropologia culturale ed etnologia (Università di Bologna), ha conseguito un Master in Antropologia delle Americhe (Università Complutense di Madrid) con tesi sulla traduzione di fonti letterarie nahuatl. Vive da tempo tra America latina e Italia, con soggiorni più brevi in Australia, Germania e Spagna, legati a progetti di ricerca, educativi e di agroecologia. Scrive in italiano e spagnolo e ha pubblicato: Mar di Tasman (Isola, Bologna, 2014); Non ha tetto la mia casa - No tiene techo mi casa (Casa de poesía, San José, 2016, in italiano e spagnolo, Premio comunitarismo di Versante Ripido); il libro-origami Cinco poemas de Lucia Cupertino (Los ablucionistas, Città del Messico, 2017). Suoi lavori poetici e di narrativa sono apparsi in riviste e antologie italiane e internazionali. Parte della sua opera è stata tradotta in inglese, cinese, spagnolo, bengali e albanese. È curatrice di 43 poeti per Ayotzinapa. Voci per il Messico e i suoi desaparecidos (Arcoiris, Salerno, 2016, menzione critica nel Premio di traduzione letteraria Lilec – Università di Bologna); Muovimenti. Segnali da un mondo viandante (Terre d’Ulivi, Lecce, 2016) e Canodromo di Bárbara Belloc (Fili d’Aquilone, Roma, 2018). Membro della giuria del Premio Trilce 2018, Sydney, in collaborazione con l’Instituto Cervantes. Cofondatrice della web di scritture dal mondo www.lamacchinasognante.com, con la quale promuove iniziative letterarie e culturali in Italia e all’estero.

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