Critica e dialogo sulla scia del racconto “Lo spacciatore con tre nomi”, Reginaldo Cerolini e Giulio Mancino

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I due testi che seguono partono da riflessioni sul racconto  “Lo spacciatore con tre nomi” che trovate in questo numero della rivista, e  qui per comodità di consultazione.

CRITICA I

PREMESSA

La macchinista madre (Pina Piccolo) mi manda della Germania questo incipit narrativo, lungo racconto o inizio di romanzo, “Lo spacciatore con tre nomi”.. Lo elogia con sobrietà e mi accenna le peripezie mediatiche che lo hanno fatto giungere in redazione. Si tratta di un testo anonimo. Proprio così, anonimo!

Ora, io quando penso ad un’opera anonima mi accendo in fantasia e penso alla storia costellata di donne, uomini dimenticati della Storia costretti[1]a nascondersi nell’anonimato per condizioni sociali, razziali e di genere, etc. Eppure, anche così, dal profondo noumeno dell’anonimato, hanno lasciato traccia di sé, del proprio pensiero e della propria società.

Ora, quale sia il significato dell’anonimato nel 2020 mi sfugge; può darsi- fuori dalle logiche commerciali del ‘divismo anonimo’, recrudescenza dell’otium latino e, in senso lato, isolamento dell’artista-intellettuale o semplice intimità dell’io- che si tratti di una risposta etica contro l’ansia presenzialista dell’opinabile opinione su tutto e tutti e che quindi sia un messaggio isolato, distinto, degno per questo di menzione.[2]

Ho detto tutto? Quasi. Il contesto in cui leggo questo testo è quello di una comunità riabilitativa per le poli-dipendenze dove mi trovo da mesi per venire a patti con me stesso e con il mondo.

 

SINTESI

Il testo dell’Anonimo Romano (così lo chiamo per via della sua precisa conoscenza della Città Eterna), descrive dalle sfaccettate prospettive di quattro personaggi – La madre, Il figlio, L’amico, Lo spacciatore con tre nomi- nel contesto del Covid-19, il complesso rapporto fra italiani, classi sociali e migranti a partire da un principio di dipendenza giovanile, con relativo abuso di eroina, a Roma.

 

CRITICA

Si tratta indubbiamente di un testo originale, sia per scelta prospettica (ad esempio i diversi punti di vista), sia per la tecnica narrativa che in uno stile scorrevole unisce un lessico ‘romanesco’, ‘generazionale’, affastellato di turpiloquio gergale a una terminologia medica, toponomastica, geografica, antropologica e linguistica. Ovvero per addetti ai lavori.

L’uso  da parte dell’autore di un linguaggio pulp che in Italia ha una linea diretta con i romanzi, i racconti e le poesie di Saba-Pasolini-Tondelli, passando per “I Cannibali”[3], ha una dipendenza dal modello cinematografico – propriamente la sceneggiatura- di film e documentari che tirano in causa l’irriverente Claudio Caligari, da Amore tossico a Non essere cattivo, e film di altri registi come Gomorra, Suburra[4] con le omonime serie[5]. Non ultimo indirettamente si intravedono le influenze del modello Rap-Trap, dove la critica sociale vive proprio nell’uso voluttuoso della parola. Se vogliamo attenerci solo allo stile romano[6] partiamo dai Truce Clan, ai più recenti Gallagher e Traffik passando ovviamente per la Dark Polo Gang. Eppure, la dipendenza dal canone romano non risulta nel testo invasiva e tronfia come invece spesso accade nell’intellighenzia italiana dell’ultimo quarto di secolo.  Così tra “sti cazzi”, “a buffo”[7], “cagne”, “sputtanarlo”, “micro crepette”[8], trovano spazio termini come “asintomatico”, “toponimi”, “stigma sociale”, “dirimente”, “epiglottide”, “droplet”, insieme a sostantivi inglesi, africani ed a terminologia tecnica. L’equilibrio di queste parole di diverso registro è buono anche se imperfetto.

Interessante è la tecnica del dialogo diretto, senza virgolette, anche se la soluzione stilistica del trattino indebolisce l’immediatezza espressiva.

Altri punti sbavati possono incontrarsi nella descrizione dei personaggi dove, l’assenza di uno psicologismo in favore di un funzionalismo posizionale risponde direttamente ad un’istanza sociale di cui essi subiscono – con distinti gradi- una pressione dall’alto. Eppure, l’autore li priva non solo di una psicologia in senso lato, ma più propriamente di una interiorità. Non chiarisce infatti quanto ciò sia intenzionale o conseguenza di una critica scelta narrativa. Proprio qui notiamo i debiti -irrisolti- con il linguaggio della sceneggiatura, ad esso infatti si deve il tratteggio accennato dei personaggi[9] a  favore di una densità cinematografica (propriamente quel linguaggio, come mezzo e fine) che è però – nel cinema- compensata dalla regia e dall’interpretazione [10]. Per questo simili soluzioni, scelte e dipendenze risultano a tratti inesatte. Del resto, sceneggiatura e scrittura narrativa sono modelli distinti e non sempre mutuabili.

Tornando all’assenza di psicologismo nei personaggi, notiamo però nella madre dei tratti che rimandano ad una sorta di pensiero intimo piuttosto che ad una vera e propria psicologia. In lei si scorge l’intenzione emotiva di una riflessione interiore ma ciò avviene attraverso un appiattimento del personaggio incastrato in uno stereotipo sul genere.

Il rapporto tra i due amici desta molto interesse anche se sovente spiegato dall’autore anziché venir mostrato dai loro lapidari enunciati e dal loro agito. È impressionante l’assenza di spinta erotica ed emotiva -fosse anche solo rabbia[11]– nella loro condizione di giovani[12]. C’è un senso di autenticità criticabile ma assoluta ed originale dove l’apatia dimensionale[13], nel contesto del Covid-19, unita alla problematica della dipendenza, somiglia ad una morte civile.

Le simpatie dell’autore protendono dichiaratamente – troppo?!- verso Moussa, il protagonista assente alias Lo spacciatore con tre nomi. Per quanto paradossale, è in lui che germinano ancora gli attributi vitali, la volontà -fottuta!- di vivere e di ottenere la vita che sente di meritarsi.  La sua istintiva risposta alla violenza strutturale è fatta di intelligenza, umiltà, scaltrezza, rabbia funzionale[14] ed assenza di giudizio. Certo, c’è da chiedersi, come implicitamente fa l’autore, se la sua assenza di critica verso le conseguenze dei propri atti sia una resilienza in opposizione alla violenza percepita o un’impossibilità empatica ed emotiva- un indurimento- dato dallo stigma della migrazione e delle condizioni esistenziali da cui fugge per vivere.

In questo modo, attraverso l’eroina fumata, attraverso il giovanissimo spacciatore negro-migrante e le sue abilità, attraverso la chiusura dell’Italia, dell’Europa e del mondo per mezzo Coronavirus, attraverso Roma ed attraverso la dipendenza che inizia a mostrare i suoi tratti coercitivi, il racconto diviene un’efficace critica della società. Una critica originale e ben scritta.

Che sia l’inizio di un romanzo, in se stesso un racconto completo o probabilmente un racconto seriale[15]– anche se noi confessiamo apprezziamo la forma scorrevole ed asciutta con cui in redazione è arrivato- si tratta di un testo tempestivo, bello e – terribilmente- necessario.

 

Reginaldo Cerolini

 

DIALOGO II

di Reginaldo Cerolini e Giulio Mancino

PREMESSA

Ho deciso di fare leggere questo racconto all’amico romano Giulio e di aprire con lui un dialogo. Il punto –privilegiato- della nostra condizione si mostra esatto per superare i limiti di una critica. L’intento è di dare spazio al sentimento umano di chi, come noi due, caduto e ricaduto non perde la volontà di rialzarsi.

Della dipendenza non si parla mai abbastanza, per pudore sociale o più probabilmente per il rifiuto mosso da un terrorizzato inconscio collettivo.

Il quadro accurato dell’Anonimo Romano è uno spunto ideale da cui partire. Allora è bene parlare perché, può anche darsi che fra racconto, critica e dialogo, qualcuno possa fermarsi a pensare e così intravedere il proprio cammino di luce.

REGINALDO. Puoi presentarti?

GIULIO. Per me è un onore parlare con te. Sono un uomo di cinquant’anni, la mia vita è incominciata con una difficoltà iniziale. Ho avuto un problema di tossicodipendenza in età adolescenziale, da quel momento è stato per me sempre come un dovere rincorrere la vita, per realizzarmi, per ricercare affetto e un senso di famiglia.  A partire da quel problema ho sempre sentito la volontà di dover sopperire a quel vuoto procacciando, attraverso le mie idee e possibilità, una stabilità familiare dove mia moglie non dovesse fare doppi turni lavorativi e poter così restare accanto ai nostri figli, grazie al sostentamento del mio lavoro. Il fatto è che mi ritrovo qui in comunità, perché mi ritrovo in difficoltà non avendo – evidentemente-  risolto i miei problemi. Devo dire che non mi pento di quello che ho fatto perché ho lavorato, costruito e creduto. Purtroppo sono ricaduto dopo 27 anni e per questo incidente di percorso posso dire, ad oggi, di aver sviluppato una sensibilità più spiccata.

RC: Entrambi siamo qui, per quello che viene riconosciuto come un problema di dipendenza. Ognuno di noi qui in comunità ha la sua dipendenza, qual è la tua?

GM: La mia prima dipendenza è stata, dai quindici a diciotto anni, l’eroina. È stata interrotta, soprattutto, grazie alla presenza di mia madre e al sostegno della mia famiglia. Grazie a questo ho potuto ricominciare a vivere. Lei ha creduto fermamente che io ce la potessi fare e ha saputo guidarmi.

RC: Questo attraverso un percorso terapeutico?

GM: Sì.

RC: Qual è stato invece il processo che ti ha portato, dopo più di 25 anni, qui?

GM:  Ho avuto una ricaduta, tre anni fa, a 47 anni con la cocaina. La differenza è che allora ero stato, per così dire, forzato dai valori affettivi e familiari, mentre oggi in età adulta ho dovuto decidere io.

RC: Come assumevi la cocaina?

GM: Sempre per via endovenosa, perché a seguito del mio inizio con l’eroina sono affetto da agofilia.

RC: Veniamo all’argomento che ci ha dato lo spunto per il nostro dialogo o riflessione. Si tratta del testo, racconto o romanzo seriale che ci è stato mandato da Lamacchiansognante. Ti ho invitato, dopo averlo letto, a farne una critica, della quale mi ha colpito la tua acutezza, lo sguardo nel rilevare l’umanità descritta dall’autore e la centralità sociologica del fenomeno della migrazione, in particolar modo nella società romana che io conosco indirettamente e che tu invece come romano, avendo vissuto lì, conosci direttamente. Chiedendoti se ti sei ritrovato nelle descrizioni del racconto ti invito ad aprire il nostro dialogo, facendo anche tu domande a me, a partire proprio dalla tua critica e dal tuo pensiero.

GM: Sì, mi sono ritrovato nel testo. Ora, dal momento che ti ritengo, oltre che un amico, un professionista del settore, ti chiedo di riflettere con me sul modo in cui io ho vissuto. Ho passato la mia vita con la meta dell’arrivismo, come del resto la società impone, avendo obiettivi finalizzati a realizzazioni materiali. Tra l’altro, come dicevo prima, ho vissuto anche la fase di rivincita della mia vita come un dovere, un dovere continuo. Come consideri il fatto dell’anonimato, visto che, come dici nella tua critica, siamo invece tutti ossessionati dall’arrivismo? Ritieni che l’anonimato sia in questo senso un valore?

RC: Come ho scritto e penso, è per me un motivo di spunto, proprio perché credo che oggi, nella società, ci sia da una parte una eccessiva volontà di dire la propria opinione su tutto e tutti, dall’altra invece c’è un protagonismo intellettuale, quasi divistico, dove l’anonimato è una finzione funzionale in cui ci si nasconde perché crea interesse. Per quanto riguarda l’Anonimo Romano di questo racconto, io spero invece che l’esigenza dell’anonimato derivi da una forma di intimità, di pudore quando non proprio di innocente senso dell’arte. Di qualcuno che sa scindere la vita personale o biografica, dalla propria opera che offre al mondo. Ecco, nella veste di questa terza opzione, io lo trovo assolutamente un valore.

GM: Un’umiltà poetica vera?!

RC: Esatto, una poetica umile. Volevo chiederti io invece se questo testo, in soldoni, ti è piaciuto e quali punti di criticità vedi in esso.

GM: Mi è piaciuto tantissimo. Mi è piaciuto perché mostra veramente per un ‘profano’, ossia per una persona sana che non ha avuto esperienze di droga, in modo figurativo la sintassi e la dinamica di tutto. Allo stesso modo lo trovo un po’ crudo. Per esempio la descrizione della relazione della madre con il figlio, sembra scontata. La relazione è scontata. Il figlio sembra scontato. Lei non sa neppure che il figlio è un tossicodipendente. Non ci sono emozioni.

Il rapporto tra i due amici, che sottolineo, è invece molto ben costruito, è un rapporto di comodo. In effetti poi, nella realtà della droga, diventa effettivamente così perché tutti i valori si perdono, la sostanza agisce e comanda! Però non si intravede nel racconto un’alternativa al finale negativo, ovvero quello dove uno possa smettere, migliorare. Insomma, prima la madre, poi i due amici, allora mi colpisce questa assenza di possibilità.

Lo spacciatore dai tre nomi è invece per me il personaggio più interessante perché è l’unico, io vedo, che combatte e vuole vivere. Vuole vivere per superare l’emarginazione, per superare le difficoltà sociali, e trova nello spaccio della droga la svolta, senza drogarsi. È l’unico personaggio positivo dietro alle quinte.

RC: Trovo molto interessante quello che dici. Io penso che questa durezza che viene, diciamo, cesellata dallo scrittore sia proprio la volontà di sottolineare un’assenza di valori come atto critico.

GM: Molto bello è come si vede la capitale, perché tanti forse non sanno che a Roma i quartieri sono etichette sociali. Parioli, Trionfale, Trastevere e il centro etc. Essere benestanti – avere i soldi – significa non appartenere al ‘popolino’. C’è quindi anche una differenziazione. Vieni visto con occhi diversi dalle persone che appartengono alle borgate più povere o anche dalle persone più ‘normali’. Quindi, come dice il testo, in un Liceo Artistico, o in istituti tecnici ci sono molte persone che vengono dalle borgate e quindi nascono questi contrasti. C’è per esempio la classificazione, spregiativa, che si usa a Roma come a dire “A ma che sei un pariolino!?”, sottintendendo che sei distante, che hai i soldi, i guanti di velluto e non conosci la vita.

RC: L’essere percepiti come benestanti è qualcosa di negativo?

GM: Sì, il ragazzetto giovane o l’adolescente la vivono come un’etichetta. Io ci sono passato personalmente. Pur non essendo un pariolino, ho seguito degli studi come i benestanti alle scuole orsoline, ho poi, cambiando quartiere e scuola, ho avuto un impatto con le scuole tecniche veramente allucinante che mi ha proprio devastato. Sono infatti cambiati i modelli sociali che avevo e il modo di intendere il funzionamento del mondo, perché io prima vivevo in un altro mondo.

RC: Il passato dell’agofilia che menzionavi era con l’uso dell’eroina, mentre recentemente, negli ultimi tre anni prima di venire qui in comunità, sei passato all’assunzione della cocaina. Questo però dopo 27 anni di libertà dalla droga. Come sei cambiato tu, come sono cambiate le droghe e perché sei cambiato?

GM: Questa è una bella domanda. Io sono spaventato da morire perché… Provo a descriverlo con una sintassi semplice e sbrigativa. Io sostengo che allora mi drogassi. Ciò ha significato andare a scippare per la mancanza della sostanza, c’era la bramosia, soffrivo, ma poi in qualsiasi modo riuscivo a trovarla. Sono stato anche due volte al carcere minorile. Oggi, levato il problema economico, perché mi sono messo da parte i soldi che mi hanno permesso la dipendenza dalla cocaina senza ricorrere ad espedienti, non trovo che la cocaina sia emarginante. La dipendenza sì, però non è emarginante perché prende trasversalmente tutte le fasce. Tu la puoi usare o agire in qualunque contesto. Io ci lavoravo, parlavo mentre consultavo l’avvocato, l’assumevo stando in compagnia della mia compagna. Si è trattato proprio di ‘uno sposalizio’. Quando mi drogavo, allora, con l’eroina ero un emarginato, perché il tossicodipendente dell’eroina è sempre stato un emarginato dal momento che la sua condizione è visibile e mostra la sua inabilità a fare qualsiasi cosa. Invece il rapporto più recente con la cocaina è cambiato, perché avendola scelta ci facevo tutto. Avendola ‘sposata’ mi ha tenuto per tre anni in catene, per questo è più difficile uscirne fuori.

RC: Ti stupisce nel racconto la modalità narrata dell’eroina fumata, ciò in relazione al fatto che mi avevi detto di non conoscere prima di averlo letto, questo uso. Legata a questa prima domanda ti chiedo se ti innervosisce il fatto che i protagonisti arrivino alle droghe senza nessuna consapevolezza, tanto da non accorgersi neppure che stanno diventando dipendenti dalle droghe.

GM: Bellissima questa domanda. Ho incominciato così, proprio come quel ragazzo che va all’artistico, io ho iniziato prima con un forte impatto sociale. Questa è la mia storia. Vedevo gli altri, più grandi, che ne facevano uso come fichi! La mia curiosità mi ha portato lì, curiosità intesa come un equilibrio con loro, prendendoli come punti di riferimento ed esempi.

RC: Cosa mi dici invece, rispetto al diverso uso e consumo delle droghe?

GM: Mi ha stupito. Io dopo più di vent’anni ho ripreso subito l’eroina, ma non era più quella di trent’’anni fa. Infatti negli anni ottanta, come dice il nome stesso, il significato dell’eroina era “stare vicino agli eroi”, perché era la droga del piacere e così ti portava in paradiso. Anche se esternamente potevi sembrare o eri effettivamente “obbrobrioso”. Riutilizzandola dopo trent’anni, invece, ha sortito solo l’effetto di farti chiudere gli occhi, mentre allora il tuo sentire veniva anestetizzato. Oggi non ha più quella forza, le droghe ti fanno sì, chiudere gli occhi, ma continui a sentire le frustrazioni, i sensi di colpa.

RC: Una volta la distribuzione delle droghe, in Italia, avveniva con differenze autoctone tra nord, centro e sud. Oggi invece, fatta eccezione per la gestione del mercato degli stupefacenti della Ndrangheta, detta la “Calabrese”, è di provenienza straniera quindi venduta e trattata da arabi, albanesi e romeni con una forte distinzione tra Milano e Roma per quanto riguarda i soggetti africani che la distribuiscono. Questo emerge anche nel racconto che abbiamo letto. Com’era ai tuoi tempi?

GM: Un tempo i neri o africani come venditori non esistevano. C’era la vendita in buste di carta, senza cellofan, nient’altro, e gli stranieri non la spacciavano. Adesso è cambiato il contesto, allora non esisteva infatti il problema della dipendenza dalla cocaina come astinenza o necessità di metadone e non si ghettizzavano quelli che l’assumevano, non esistevano neppure comunità per questi soggetti ma solo per chi si faceva di eroina. Ora il business è cambiato, ci sono gli africani che vendono l’eroina con le palline in bocca. A Roma questo tipo di vendita si identifica proprio con lo spacciatore nero o africano, non so in altre parti.

RC: A Milano i migranti africani che spacciano sono più conosciuti per lo smercio della cocaina, che tra l’altro ha anche la fama di essere di bassa qualità, è quindi rivolta ad un pubblico di consumatori che hanno meno possibilità economiche. Questo in linea generale[16].

GM: A Roma è il contrario, caro mio, perché se hai 20 euro puoi farti con l’eroina, ossia la tua dose ti copre tutto il giorno, finché non diventi dipendente, ma con 20 euro sei a posto, mentre se rapportiamo l’euro alla vecchia lira di una volta ci volevano come minimo 50, 60 euro.

Ti volevo poi chiedere, partendo dal fatto che per me la dipendenza è già un dramma alla luce delle mie due ricadute, che cosa ne pensi del finale così drammatico del racconto, dove i due giovani periscono per mano dello spacciatore? Tra l’altro oggi come oggi si muore a Roma per un regolamento di conti per storie di droga, oppure perché muori di overdose, ma una scena così drammatica come descritta dall’Anonimo Romano ha una crudezza che non vedo ben legata al contesto reale della dipendenza.

RC: Può darsi che sia una necessità narrativa, per dare senso ed importanza ai due piani, alle due classi sociali ed ai due diversi punti di vista: quello dei due amici e dello spacciatore. Abbiamo quindi il piano borghese che viene portato alla riflessione solo mediante lo shock di fatti drammatici, perché come vediamo è indifferente e freddo alla problematica esistenziale di migranti e stranieri, mentre dall’altra parte, invece, il venire al mondo, in contatto, tramite un impatto con qualcosa di molto grosso, e quindi quel doversi drammaticamente difendere, diventa narrativamente un vedere che segna uno stacco radicale. Il protagonista infatti da quel momento non potrà più essere solo scaltro, furbo e un non consumatore. La sua vita cambia. Da qui forse l’idea dell’autore di continuare in futuro il racconto.

GM: Forse nasce da qui, quindi, ciò che adesso potrebbe sembrarmi, nella forma di racconto, un finale crudo, uno sviluppo nella forma di un romanzo.

RC: So che hai avuto una compagna con due figli adolescenti, com’è la tua visione del mondo dei giovani rispetto alle droghe, rispetto ai migranti e all’Italia che sta cambiando?

GM: I giovani hanno un rapporto quasi immediato con le droghe. L’uso della cocaina è legato anche a chi non ha il problema della dipendenza, perché adesso il problema è proprio la cocaina, nella capitale, insieme alla ludopatia.

RC: Invece rispetto ai migranti ed alla questione dei cambiamenti sociali nel Paese?

GM: Per ciò che so anche dai giornali, i giovani prendono di petto i migranti per menarli, ci sono poi episodi di dichiarato razzismo fine a se stesso, che vengono anche filmati. Questo è il segno di un’intolleranza molto forte.

RC: O di schietto razzismo.

GM: Sì. Soprattutto dai giovani.

RC: Forse perché sono loro i primi a percepire sensibilmente la violenza strutturale. Io però volevo chiudere questo nostro dialogo chiedendoti che cosa significa essere in una comunità, come quella per tossicodipendenti in cui ci troviamo in questo 2020, con la speranza di farcela ma sicuramente privi della risposta, ossia che valore ha poter riflettere, grazie a questo racconto, su come questa dipendenza sia incominciata?

GM: È una bella domanda. Mi fa riflettere su quello che si chiama ricominciare che però, mi dispiace, non voglio offendere nessuno, se non ci si passa sopra, della parola ricominciare non si capisce bene il significato. Si tratta della ridiscussione di tutto, andando a vedere le insufficienze che ci sono state, non tanto verso gli altri ma verso noi stessi. E prima di fare ciò ti poni l’obbligo di saperti vedere di fronte al tuo specchio, il che è molto difficile.

Mi piacerebbe però rivolgere a te la stessa domanda che mi hai fatto.

RC: Io spero di trovare una verità che valga la pena di essere vissuta, nella pienezza e nell’apertura al mondo. Spero anche che qualsiasi forma di dipendenza si trasformi in libertà, che questa libertà possa davvero rendermi un uomo intimamente completo e aperto agli altri esseri umani.

GM: Allora ci cerchiamo insieme un credo che ci possa appagare per tutta la vita e che debba essere sempre sfamato!

RC: Grazie.

GM: Grazie a te.

 


 

 

 

Note di Critica 

[1] Annovero, fra le possibilità che inducono all’anonimato, anche la semplice scelta.

[2] Lo scritto, curiosamente, cerca attraverso Lamacchinasognante uno spazio di esistenza, un pubblico, implicitamente una critica ed un consenso. Non rimanda -al momento- all’esigenza di una pubblicazione cartacea. Questo fatto è oltremodo contemporaneo e caratteristico, suscitando domande rilevanti sull’estinzione dell’egemonia delle Pubblicazioni tramite grandi case editrici e sull’estinzione del ‘rituale di critica’.

Ora, se da una parte l’autonomia mediatica sembra dare spazio all’auto-promozione ed all’autonomia espressiva, insieme agli oneri di un impegno che è strenuamente personale, tale libertà si canalizza nelle possibilità, nelle competenze, nei mezzi e nei limiti dell’efficienza mediatica. L’efficienza mediatica, ovvero l’uso del medium di autopromozione e diffusione, non necessariamente ha relazioni con il contenuto di quanto si esprime e con la qualità. Assistiamo così ad un’autonomia che premia il protagonismo e l’efficacia mediatica più che il contenuto ed il valore: ancora una volta il protagonismo ed il presenzialismo.  Se invece vogliamo tenere validi i criteri di contenuto e qualità formali a cui si possono aggiungere i criteri di potenza espressiva, impatto civili etc., la relazione ‘casa editrice’ o ‘ente diffusore’ (come è il caso dell’opera internazionale di selezione e diffusione della Lamacchinasognante) passa attraverso un atto di critica e quindi di selezione. Là dove i critici non sono solo meri appassionati o blasonati soggetti ‘certificati’ ma attori civili e sociali carichi di esperienza, impegno, informazione e cultura (si suppone). Se si prescinde da questo rapporto con l’altro e in senso lato con l’Arte, l’atto di filtraggio o selezione si ridurrà invece ad un’espressività sensoriale, umorale ed emotiva di tipo soggettivo.

Altra analogia curiosa è come la dimensione mediatica difficilmente permette agli autori che si mettono in gioco, come ai critici – in via di estinzione- che danno credito al loro lavoro, di fare della propria competenza e passione una professione. In questi termini e per queste condizioni, per molti, internet non è né più né meno che un Eldorado, un’utopia, quando non una vera e propria violenza strutturale o di settore.

[3] Mi riferisco al movimento letterario italiano legato all’antologia di Daniele Brolli Gioventù Cannibale, del 1996, movimento caratterizzato da un linguaggio pulp – crudo e realista di chiara influenza cinematografica, più precisamente tarantiniana dal film Pulp Fiction.

[4] Nel caso di Suburra, l’origine è l’omonimo romanzo di Carlo Bonini e Giancarlo De Cataldo dove è interessante notare la relazione tra cinema e letteratura, come mostra il Premio-Ostiglia Arnoldo Mondadori che ha premiato film e libro nel 2016. Sono divenuti poi una serie. Gomorra ha origine dal ‘romanzo-cronaca’ del 2008 di Roberto Saviano, diventato –ridondantemente? – a sua volta film e poi serie ed è stato il punto di riferimento per il film L’immortale. È importante notare la relazione e la dipendenza tra cronaca, narrativa, cinematografia e serialità televisiva. A tale riflessione non deve mancare la rilevanza commerciale oltre che il consenso di lettori e pubblico.

[5] Il successo seriale sottolinea come sia la tematica che il modo in cui viene trattata soggiace ad una glamourizzazione della cronaca quotidiana con dipendenza dal modello americano, precisamente, come abbiamo già detto, di Quentin Tarantino.

[6] Si noterà nello svilupparsi del testo l’ingerenza e la ridondanza capitolina. Tratti peculiari di questa Roma sono l’ossidazione delle classi agiate di ‘romani originari’ o di chi civilmente ed istituzionalmente mantiene questi tratti e la presunzione di privilegi in opposizione con il fenomeno della migrazione e del multiculturalismo. Una certa romanità politica, sociale, mediatica, ma anche – curiosamente- di periferiche borgate, che sembra rispondere a questo cambio di paradigma umano con un pregiudizio classista o con un più schietto razzismo. Il testo sottolinea con eleganza questa tensione urbana.

[7] Debiti, indebitandosi.

[8] Piccole sottrazioni di eroina dalle palline dove essa viene avvolta. Si noti che questa tecnica multi-stratificata di droga, con carta igienica o carta morbida, e in seguito con il cellofan, è una tradizione tipicamente di provenienza africana, o dei “cavalllini” (corrieri) di origine africana. Il fenomeno nel ‘sottobosco della dipendenza’ è talmente noto che si distingue questo tipo di droga dalla qualità -spesso bassa per via di eccessivi tagli-, dalla quantità (l’avvolgimento che crea le palline attorno alla sostanza aumenta di molto il volume ed il peso specifico di quanto si acquista) e dall’imballaggio, da altre di stampo Nord-Africano (Arabi) e Est-Europeo (Albanesi, Rumeni) quando non dalla provenienza nostra detta propriamente ‘Calabrese’. A Roma come a Milano il fenomeno delle palline è di stampo africano, anche se nella capitale la specializzazione di spaccio è nell’eroina, mentre a Milano la specializzazione africana delle palline ha un mercato legato più alla cocaina.

[9] Eccezione fatta per Lo spacciatore con tre nomi. Torneremo a breve a trattare la peculiarità di questo personaggio.

[10] Per quanto pedante, sottolineo come un linguaggio, un registro ed un modello debbano rispondere ad un’esigenza tecnica in grado, potenzialmente, di esprimere meglio il messaggio dell’autore.

[11] Il figlio è in grado di esprimerla solo contro La madre, di cui dice enfaticamente: “Madre fallita, mi fai schifo, vattene!”

[12] A rigore, o per verità scientifica, dovrebbe essere questa invece l’età in cui questi tratti si mostrano con maggiore istintività e propulsione.

[13] Nuovo modello di rappresentazione della giovinezza, opposto a quelli del ‘furore-sadomasochista’ della cronaca quotidiana e della ‘perniciosità sessuale’ sempre della cronaca quotidiana. Questo modello dell’apatia, tramite schermo, unito a quello della spinta erotica, è ben rappresentato dall’interesse e fenomeno di BelloFigo che, come ebbi a dire, rappresenta una sintesi interessante e critica della nuova italianità. Qui poi il modello si presta bene come contrasto con il fenomeno del razzismo e del pregiudizio sociale, dato quest’ultimo dalla presunzione di autarchia e legittimazione al dominio altrui.

[14] Bisognerebbe riflettere sull’attribuzione di rabbia ed istintività a negri e stranieri.

[15] Ritorna anche qui la dipendenza dal modello cinematografico.

[16] In realtà oggi il fenomeno dello spaccio di droga, nelle città così come nei paesi, è talmente di larga portata e fatto da micro strutture di smercio, che si trovano prezzi bassissimi, di 20, 10 uro per allettare anche consumatori di preadolescenti.

 

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Giulio Mancino: Nato nel ‘70 a Roma, frequenta le scuole Orsoline e poi le scuole Tecniche. A quindici anni inizia la dipendenza con l’eroina che si concluderà a diciotto facendo un percorso comunitario. Si diploma in scienze infermieristiche avendo grande successo nella professione di infermiere. Il problema della dipendenza si ripresenta a 47 anni con la cocaina. Tre lunghi anni bui, poi la decisione di un nuovo percorso comunitario mette in crisi i suoi modelli e la sua stessa vita. Si riscopre appassionato falegname-artigiano, cuoco e trova la sua voce di poeta partecipando al concorso nazionale Diario di un tempo sospeso ben speso dove colpisce la sensibilità degli organizzatori. Recentemente ha maturato la convinzione di voler fare il volontario-professionista in Africa, o nelle ‘sue afriche’, come ama dire. Per questo ha iniziato a studiare inglese.

 

 

 

 

 

Immagine di copertina: Foto a cura di Alberto Guadagno.

Riguardo il macchinista

Reginaldo Cerolini

Nato in Brasile 1981, Reginaldo Cerolini si trasferisce in Italia (con famiglia italiana) divenendo ‘italico’. Laureato in Antropologia (tesi sull’antropologia razzista italiana), Specializzazione in Antropologia delle Religioni (Cristianesimo e Spiritismo,Vipassena). Ha collaborato per le riviste Luce e Ombra, Religoni e Società, Il Foglio (AiBi), Sagarana, El Ghibli . Fondatore dell’Associazione culturale Bolognese Beija Flor, e Regista dei documentari Una voce da Bologna (2010) e Gregorio delle Moline. Master in Sceneggiatura alla New York Film Academy e produttore teatrale presso il National Black Theatre. Fondatore della CineQuartiere Società di Produzione Cinematografica e Teatrale di cui è (udite, udite) direttore artistico. Ha fatto il traduttore, il lettore per case editrice, il cameriere, scritto un libro comico con pseudonimo, l’aiuto cuoco, conferenziere, il commesso e viaggiato in Africa, Asia, Americhe ed Europa.

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