Il “noi palestinesi” che si disgrega: uno sguardo al romanzo La tenda bianca di Liana Badr (di Giorgia Magnani)

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Dalla Fotogallery: il grido della terra, acrilico su tela, 2019 – Claudia Raza

 

Chiunque sia appassionato di letteratura palestinese, è abituato a una scrittura che denuncia soprattutto la brutale occupazione israeliana e che traccia i palestinesi come un unico popolo unito contro una situazione da loro ingiustamente subita. Tuttavia, cosa succede quando una scrittrice palestinese decide di rompere dall’interno quella totalità e quell’aurea di perfezione ideale che spesso si costruiscono attorno al popolo palestinese?

 

Liana Badr è una scrittrice e regista nata a Gerusalemme nel 1950 ma che già nel 1967, in seguito alla guerra dei Sei giorni, lascia la Palestina per emigrare in Giordania, in Libano e infine in Tunisia. Tuttavia, ritroverà la sua Palestina in seguito agli accordi di Oslo, quando è chiamata in patria per contribuire allo sviluppo culturale della nascente Entità palestinese, e si stabilisce a Ramallah, dove attualmente ancora risiede.

In realtà, Liana Badr con i suoi numerosi romanzi, racconti brevi, poesie, novelle, libri per bambini, saggi e documentari, non ha mai abbandonato la sua Palestina, fin dalla prima opera, il romanzo del 1979 Una bussola per i girasoli, che racconta in prima persona la vita di una giovane donna che lavora in un campo profughi palestinese ad Amman e a Beirut, una ragazza che, come un girasole, si muove continuamente alla ricerca di una luce e di una bussola che le indichi una strada da percorrere, sia per se stessa che per il suo popolo. Anche ne Le stelle di Gerico, il romanzo più famoso della scrittrice, pubblicato nel 1993 e tradotto in diverse lingue europee, la Palestina è la vera protagonista. L’opera nasce nella mente della scrittrice in seguito alla prima guerra del Golfo del 1990 – 1991, quando il suo sogno di ritornare in Palestina le sembrava oramai inesaudibile ed emerge così un’opera pervasa da una profonda nostalgia per il passato, nel tentativo di ricostruire tutti i ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza.

Ma l’opera considerata da diversi critici come il culmine del progetto letterario e creativo della scrittrice è La tenda bianca, romanzo del 2016, non ancora tradotto in nessuna lingua. Ambientato anch’esso in Palestina, a Ramallah, la città appare di fronte ai nostri occhi come sovrastata dalla nuvola dell’occupazione israeliana che distorce lo spazio vissuto dai palestinesi con i suoi insediamenti, i suoi posti di blocco, i suoi carri armati e i suoi muri. Sul modello di Mrs. Dalloway di James Joyce, la storia raccontata si svolge in un solo giorno, anche se non mancano flashback, monologhi interiori dei protagonisti e riflessioni personali della scrittrice stessa, che permettono di menzionare gli eventi più importanti della storia palestinese degli ultimi quarant’anni. Tuttavia, quel che rende il libro interessante è che le tappe più importanti percorse dal popolo palestinese diventano il mezzo per analizzare le drastiche trasformazioni sociali che ne sono derivate e che hanno condotto a quei problemi e a quelle divisioni sociali che i palestinesi si trovano quotidianamente a dover affrontare. Ha dichiarato Liana Badr in un’intervista:

 

“Non voglio nascondermi dietro un passato morto, né un presente illusorio, ma voglio discutere di ciò che accade nelle nostre vite, di ciò che arriva tra le notizie ma che rimane non detto. (…) Voglio mostrare l’immagine dello sfondo che l’occhio dell’obbiettivo non mostra. Scrivo di fenomeni che non ci piacciono, ma che sono diventati così comuni nelle nostre vite da essere qualcosa a cui nessuno presta attenzione se non occasionalmente”.

 

La comunità palestinese è così presentata questa volta non come un modello esemplare e senza colpe, unita e impegnata con tutte le sue forze nel suo nobile processo di lotta nazionale; al contrario, la scrittrice, attraverso il romanzo, tratta di tutti quei problemi e spaccature che affliggono da tempo la società palestinese per cui né l’autorità palestinese né i palestinesi stessi fanno nulla per cambiare. Si tratta di ombre di cui solitamente nessuno parla, celate per volontà dei più “sotto una grande tenda bianca” perché giudicate troppo scomode e troppo radicate da riuscire a estirpare.

Ed ecco che, attraverso la figura della protagonista, una donna di nome Nashīd che lavora presso una ONG straniera che si occupa di migliorare in vari modi la vita delle donne palestinesi, Liana Badr denuncia la posizione di inferiorità della donna in una società palestinese ancora fortemente patriarcale e la sua lotta inascoltata per l’emancipazione.

 

“Noi palestinesi abbiamo ottenuto decine di occasioni d’oro e le abbiamo perse tutte, e perderemo molto, perché non vogliamo conoscere il valore della donna come essere umano libero e produttivo” (dal romanzo, pag. 108).

 

Una donna che, sostanzialmente, ha i soli compiti di procreare, crescere i figli, occuparsi della casa e soprattutto alimentare la famiglia, tanto da poter considerare la cucina come “l’unico luogo in cui mettere in luce i propri talenti e le proprie capacità(pag. 105). E così le donne, oltre a soffrire per un’oppressione proveniente dall’esterno, ossia l’occupazione israeliana, subiscono l’oppressione interna da parte di una società che si basa ancora su usi, costumi e tradizioni oggettivamente obsoleti. Urla la protagonista del romanzo:

 

“Non basta la persecuzione degli occupanti, ma dobbiamo sopportare anche la persecuzione delle nostre famiglie e della nostra gente! Noi donne siamo oppresse non solo dall’occupazione, ma anche dagli uomini…” (pag. 48-49).

 

La risposta della scrittrice a questa situazione è la presenza di personaggi femminili forti all’interno del romanzo: non solo Nashīd, ma anche Lamīs, Bīsān, Hajār e altri personaggi senza nome, sono tutte donne attive che, seppur ognuno a modo loro, rifiutano con forza il ruolo passivo imposto dalla società. Infine, non si risparmiano critiche nemmeno alle autorità palestinesi, accusate di aver messo da parte lo sviluppo di politiche relative all’uguaglianza di genere con la scusa della lotta per la liberazione nazionale, come se fosse impossibile che la liberazione della donna potesse procedere di pari passo con la liberazione della Palestina.

Le discriminazioni di genere portano inevitabilmente anche alla violenza nei confronti delle donne. La protagonista Nashīd per tutto il romanzo ha come obiettivo quello di salvare la vita ad Hajār, una ragazza che sa di essere presto vittima di un delitto d’onore, pratica ancora largamente diffusa nella società palestinese (così come lo sono le violenze sulle donne in generale), dove per “violazione dell’onore” s’intende oramai qualsiasi comportamento di una donna non approvato dai membri della famiglia, come ad esempio sfidare l’autorità maschile o addirittura assumersi la responsabilità della propria vita.

 

“Questo… un altro… un altro ancora… un lungo filo che non si ferma e che continua a generarsi dalle vittime delle cosiddette “questioni d’onore”, quelle per cui non vi né soluzione né àncora di speranza” (pag. 50).

 

In particolare, Liana Badr denuncia il fatto che un nascente Stato, obbligato a rispettare il diritto e le convenzioni internazionali, non sia ancora stato in grado di disciplinare, con la legge, il delitto d’onore, le molestie sessuali, lo stupro coniugale, problemi emarginati e ignorati per il bene della “causa generale” e per la costruzione di una comunità unita ad ogni costo. Emblematico è quel che ha dichiarato un giudice palestinese durante un’intervista: “ci sono questioni più importanti da discutere nell’attuale agenda palestinese che sollevare il problema dell’uccisione delle donne”.

 

Ma non vi sono solo donne tra i personaggi del romanzo; ‘Āṣī, il vicino di casa di Nashīd, è un ex fedayin ed ex giornalista rivoluzionario che ha vissuto per 25 anni in esilio, dedicando la sua vita ai combattimenti in Libano e in tanti altri paesi, nel tentativo di dare una patria al suo popolo. In seguito alla formazione dell’Autorità Nazionale Palestinese, non vede l’ora di realizzare il suo sogno di vivere in patria; tuttavia, qui si ritrova a dover ancora combattere, questa volta contro l’astio dei suoi fratelli palestinesi che non hanno mai abbandonato la Palestina e che temono che i rimpatriati portino via loro case, lavoro e diritti. Emerge così un’altra spaccatura che riguarda la società palestinese, quella tra residenti e rimpatriati.

 

“Era come se trent’anni di sofferenza all’estero fossero diventati solo uno sguardo fugace a cui nessuno capitava di cogliere con un batter d’occhio (…). Tutti quelli che vivevano qui, dicevano che si sarebbe prospettato per loro un futuro d’oro, se non fosse stato per il ritorno di alcuni dei figli della loro stessa patria che avevano trascorso la loro vita nelle arene esterne della lotta. Nessuno qui sapeva che quelli che sarebbero ritornati erano stati spogliati della loro identità affinché si potesse assegnare loro il nome di “rimpatriati”!” (pag.208).

 

‘Āṣī, poi, si ritrova inaspettatamente deriso anche dalla nuova generazione di giovani palestinesi, con cui vi è una rottura totale:

 

“Alle sue spalle lo additavano come “il combattente”, con superficialità e scherno. Lo dicevano al lavoro e pensavano che lui non fosse a conoscenza di quello che dicevano. E lui che pensava che il suo primo compito sarebbe stato quello di formare ed educare la giovane generazione che avrebbe preso il timone!” (pag. 115).

 

Ecco che Liana Badr denuncia un’altra divisione che emerge nella società palestinese, tra i fedayin della vecchia generazione e i nuovi giovani palestinesi, nati già sotto occupazione e quindi rassegnati a questa situazione e cresciuti con la convinzione che la rabbia o la resistenza siano da considerare una forma di estremismo. Si sono ritrovati vittime sottomesse da una società che nel frattempo distrugge le loro libertà personali e di espressione e al massimo sentono di poter lottare con nuovi mezzi, quali i social media o l’arte del rap che, con il suo linguaggio della rabbia, smantella il linguaggio sacro delle vecchie generazioni.

In conclusione, quel che è interessante è come emerga nel romanzo di Liana Badr una società palestinese tutt’altro che unitaria e integra di fronte all’occupazione israeliana. Sicuramente l’occupazione è una delle cause di questa disunità, poiché non ha permesso alla società palestinese di formarsi e di maturare come tante altre società nel mondo hanno fatto, avendo interferito e continuando a farlo in ogni situazione e in ogni momento della vita di un palestinese, anche lì dove prima non osava entrare. Tuttavia, anche le autorità e i palestinesi stessi, secondo Liana Badr, non possono essere considerate esimi da colpe.

 

“La saggezza è stata smarrita da tutti e tutti hanno continuato a rimproverare i detentori di cariche, e i detentori di cariche hanno rimproverato coloro che erano più in alto di loro, e quelli più in alto di loro hanno incolpato coloro che erano più in alto di loro, ovviamente. Una vera tragedia! Non c’è alcuna saggezza in tutto ciò che sta accadendo, ma una distruzione continua di cui nessuno conosce il prezzo, come quando un uomo sull’orlo di un precipizio afferra una zattera pensando che lo salverà dalla potenza di gigantesche cascate” (pag.24).

 

Giorgia Magnani è docente di Lingua Araba presso la SSML della Fondazione Unicampus San Pellegrino e insegnante di Italiano L2 nei progetti di accoglienza per migranti richiedenti protezione internazionale e in alcuni istituti scolastici della provincia di Rimini. In seguito alla laurea in Lingue, Culture e Società dell’Asia e dell’Africa Mediterranea presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, ha conseguito la laurea magistrale in Lingua e Cultura Italiane per Stranieri presso l’Università Alma Mater Studiorum di Bologna con una tesi relativa alla letteratura araba e in particolare alla scrittrice palestinese Liana Badr. Ha anche trascorso un periodo di studio all’estero, in Giordania, dove si è specializzata nello studio dell’Arabo Standard.

foto Giorgia Magnani

Riguardo il macchinista

Sana Darghmouni

Sana Darghmouni, Dottore di ricerca in Letterature Comparate presso l'Università di Bologna, dove ha conseguito anche una laurea in lingue e letterature straniere. E' stata docente di lingua araba presso l'Università per Stranieri di Perugia ed è attualmente tutor didattico presso la scuola di Lingue e letterature, Traduzione e Interpretazione all'Università di Bologna.

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