“Come What May” anteprima del primo capitolo – Ahmed Masoud

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Capitolo 1

 

“Ma a chi mai potrebbe importare? Ancora un altro morto, e allora?”

“Importa a me. È . . . era mio marito.”

Mi fissò come se si trovasse davanti una pazza, una donna indifesa che implorava un funzionario di crederle: un caso umano. Tuttavia lo sguardo dell’uomo era difficile da decifrare. Provava empatia? Disgusto? O semplicemente noia?

Nonostante fuori soffiasse un vento gelido, la sua pelle olivastra suggeriva un certo calore, e il maglione di lana a collo alto si allungava fino a incontrare la barba mezza grigia, una sorta di siepe incolta che spuntava dall’estremità delle basette e dei capelli ricci. Ecco un uomo che non dava molto peso al suo aspetto – forse celibe? I suoi piccoli occhi neri e penetranti gli conferivano un’espressione intensa. Indossava la pesante giacca blu dell’uniforme di polizia, un po’ impolverata. Non ero sicura se fosse caduto poco prima o semplicemente non l’avesse lavata da molto tempo. Qualcosa nella sua trasandatezza contribuiva un non so che alla sua forte presenza.

L’ufficio era quasi vuoto, a parte una lunga scrivania di metallo con un telefono quadrato e lo schermo nero di un computer Dell. I cavi pendevano verso il pavimento dove su un fianco era posizionato il disco rigido. Notai che la tastiera era bianca. Dietro, attaccata quasi alla scrivania, c’era una grande sedia da ufficio.

Nouman era seduto sul bordo dello scrittoio, accanto a una targhetta che diceva:

Sergente Nouman El Taweel

Capo delle Indagini Criminali

E, come suggeriva il suo cognome Taweel, era davvero un uomo alto.

“Mi dica signora Tanani, che cosa le fa pensare che suo marito sia stato ucciso?” chiese, girando la pagina del calendario da tavolo in modo che mostrasse la data corrente: martedì 22 dicembre 2016.

Da dove eravamo seduti nel commissariato di polizia di El Abbas di Gaza potevo sentire in lontananza i rumori della spiaggia.

“Non è che credo che sia stato ucciso. So che lo è stato. . . ora è morto”.

“Oh, sì, mi scusi. Volevo dire assassinato.”

Fissava un punto lontano come per evitare di svelare quello che aveva in mente – non voleva essere tradito dai suoi occhi. Continuò a tamburellare delicatamente e ripetutamente sulla scrivania con tre dita, ripetendo il gesto ogni volta che faceva una domanda, cosa che davvero disturbava la concentrazione. Seguii il suo sguardo verso un angolo del soffitto. Appesi alle pareti non c’erano immagini o versetti coranici incorniciati, come di solito accadeva negli uffici governativi di Hamas. C’era solo un ragno che penzolava dal davanzale e Nouman lo osservava intensamente, come per vedere se ce l’avrebbe fatta ad arrivare al pavimento. Ma qualcosa indusse il ragno a fermarsi: forse stava ascoltando la nostra conversazione e attendeva con impazienza la mia risposta. Avrei potuto giurare che mi guardasse con compassione.

Nouman aveva un aspetto tipicamente mediorientale: scuro di pelle, lineamenti molto ben definiti, zigomi alti, labbra spesse, capelli ricci -non gli mancava proprio niente. Con un telecomando in mano, mettendolo in pausa appena prima che aprisse bocca, lo si poteva scambiare per un mimo. Ma non era un attore, era una persona vera. A Gaza c’erano molti uomini che avevano un aspetto simile, eppure lui era un bell’uomo e aveva qualcosa di speciale.

Non c’era elettricità o riscaldamento in ufficio. Si sentiva fischiare il vento, tuttavia un sottilissimo raggio di sole era riuscito ad irrompere attraverso le grosse nuvole scure, conferendo un tocco di luminosità alla stanza buia. Il mio corpo tremava nonostante l’improvvisa comparsa del sole. Il soprabito nero che copriva la mia camicetta blu a maniche corte e i jeans non era abbastanza pesante.  Alla radio stamattina qualcuno aveva detto che il 2016 sarebbe stato il più freddo e il più caldo mai registrato. Abbiamo iniziato l’anno con piogge e inondazioni, e ora dicembre voleva concludere il tutto con temperature più gelide che mai onde garantire il rispetto delle statistiche. O forse era solo il modo in cui la natura spazzava via tutti i ricordi e il dolore di terribili guerre.

“Sig. Taweel, non penso che Lei creda alla mia storia e non mi pare il caso di sprecare il mio tempo qui».

I suoi occhi mi seguirono mentre raccoglievo la mia roba, sollevavo il velo bianco allentato posato sulle mie spalle e lo stringevo sulla testa. Potevo quasi sentire il suo respiro mentre mi precipitavo fuori dalla porta.

Un altro incontro deludente: lasciare in fretta un altro ufficio e dirigersi verso un’altra strada fredda e vuota, un’altra goccia di speranza persa. Che senso aveva restare? non volevo subire ulteriori umiliazioni, sguardi sarcastici, domande stupide.

Non c’era molta gente in giro. Passò un carretto trainato da asino, con alla guida un ragazzino di una decina d’anni. Un gatto randagio saltò giù da un grosso bidone pieno di sacchetti di plastica. Girai a sinistra lasciandomi il commissariato alle spalle. Due guardie sedute fuori e avvolte in pesanti cappotti toccarono i loro Kalashnikov come se si stessero preparando a una battaglia. Sorrisi e dissi Assalam Aleikom, ridendo tra me e me della paranoia in cui vivevamo, di quanto quei due poveri stronzi fossero spaventati di una donna appena uscita dal commissariato.

Continuai a camminare su per la collina, fino al grande palazzo del Consiglio Legislativo Palestinese, il CLP, in cima al parco pubblico triangolare di El Rimal dove un tempo sorgeva la statua del Milite Ignoto. L’aria aveva un odore di pulito, con un sentore di agrumi proveniente da alcuni alberi piantati in mezzo del parco. Sul ciglio della strada un vecchio stava arrostendo patate americane. Accanto a lui un ragazzino alimentava il fuoco con dei ramoscelli, e la grande pentola sembrava appoggiata in un equilibrio molto precario su tre grosse pietre. Il fuoco e l’odore delle patate arrosto commiste all’aria profumata di agrumi mi davano conforto. Riportavano alla mente ricordi di giorni migliori: io e Ammar prima che ci sposassimo; le risate a crepapelle che ci facevamo per strada sotto lo sguardo vigile di vecchi in giacca e cravatta e di uomini conservatori in jellabiyas. Erano giorni felici, la sensazione che si prova durante una vacanza estiva, una pausa dalla frenetica programmazione della vita, la possibilità di staccare la spina completamente, svegliarsi da qualche parte in una spiaggia assolata e mangiare cibi esotici, incontrare persone nuove.  Gaza era così alla fine degli anni ’90; una città che si prendeva una pausa dalle guerre, una promessa che tutto andava o poteva andare bene.

Nel 1999 spesso ci capitava di saltare le lezioni all’Università di El Azhar e avviarci verso questa zona il più in fretta possibile. Una volta ai piedi del Milite Ignoto, facevamo qualche passo verso il cancello principale del palazzo del CLP e non perdevamo occasione di cercare con gli occhi quella pacchiana cupola dorata, strana replica della Moschea El Aqsa di Gerusalemme. Non appena avvistata, Ammar mi strizzava l’occhio poi contava fino a tre prima di dirigerci verso direzioni diverse. Lui prendeva sempre la strada a destra che portava all’ospedale El Shifa, oltre il Delice Coffee Shop, mentre io proseguivo dritto giù per la collina, oltre il commissariato di El Abbas e fino al Porto Nuovo. L’obiettivo del gioco era vedere chi avrebbe raggiunto per primo la spiaggia.

Ammar mi batteva sempre nella corsa anche se il suo percorso era molto più lungo. A quanto pare, non prendeva mai un taxi, e per quanto caldo facesse arrivava di solito senza una goccia di sudore sulla fronte larga. Ammar era l’uomo più gentile che una donna potesse desiderare. Era alto con capelli lunghi e lisci. Non aveva mai portato la barba e non era interessato a farsela crescere. I suoi grandi occhi castani brillavano sempre quando sorrideva, e in più aveva le fossette, quindi potete immaginare quanto fosse irresistibile. A differenza di tanti uomini palestinesi, non era peloso. Anzi, tutt’altro: non aveva quasi nessun pelo sul torace.

Ci sedevamo su una grossa pietra a El Mina El Jadeeda a guardare le onde che si infrangevano contro il porto incompiuto, discutendo delle lezioni che ci eravamo persi, facendo scommesse su quali versi di Shakespeare il professore avrebbe pronunciato male.

***

Eravamo entrambi studenti del secondo anno della facoltà di inglese dell’Università El Azhar di Gaza City, nata come istituzione affiliata alla Moschea del Cairo, ma diventata nel tempo laica e sostenuta da Fatah, all’epoca il partito al governo dell’Autorità Palestinese.

In un certo senso era esilarante studiare Shakespeare a Gaza, come se non avessimo già abbastanza tragedie qui, o i problemi dei re e delle regine d’Europa fossero più importanti dei nostri. Forse se il grande scrittore fosse nato qui avrebbe scritto commedie completamente diverse. Forse almeno Otello avrebbe avuto un aspetto fisico leggermente diverso e non sarebbe stato definito ‘Moro bestiale’. Se solo Shakespeare avesse incontrato il mio Ammar, avrebbe scritto di quanto siano gentili i “mori”.

Il grande scrittore era comunque molto famoso in Palestina grazie agli infiniti adattamenti in arabo egiziano per il teatro e lo schermo. Ironia della sorte, non avrei mai pensato di trovarmi io stessa nel ruolo del principe Amleto, a guardare il fantasma di mio marito assassinato e a cercare giustizia. La mia idea era che queste storie esistessero solo sulla carta, non nella vita reale, e certamente non a Gaza.

All’università studiavamo l’Enrico V, testo che aveva introdotto in alcuni di noi la speranza che un giorno avremmo avuto un leader in grado di condurre una minoranza alla vittoria, consentire ai deboli di diventare più forti, ridare fiducia a coloro che avevano perso ogni speranza. Un leader che ci facesse sorridere, che ci guardasse negli occhi e gridasse: “Ancora una volta, alla breccia, cari amici, tornate alla breccia, oppure chiudete il varco coi nostri caduti palestinesi!” Ma invece arrivò Yasser Arafat portando con sé il suo entourage: una banda di fratelli corrotti.

Il Romanticismo inglese ci trasportava verso una terra lontana, uno spazio fantastico che poteva esistere solo nella nostra mente. Cercavamo di immaginare le cose di cui parlavano: le brughiere, i laghi, i tramonti, gli alberi e i narcisi. Ma ogni volta che ci avvicinavamo a capire come vivevano e a cosa pensavano, l’esplosione di un missile israeliano nelle vicinanze distruggeva la nostra immaginazione – letteralmente. Tuttavia, continuavamo a ridere dell’orsetto da compagnia di Byron a Oxford, imparavamo a memoria le parole di Wordsworth arrivando perfino ad emozionarci alla sua menzione della Palestina in una delle sue poesie. Ma il guaio con i Romantici era che vedevano il mondo solo attraverso i loro occhi. La loro era una visione del mondo dell’alta borghesia e significava che non dovevano preoccuparsi di cose che invece erano essenziali per noi. Non dovevano preoccuparsi di procurarsi il cibo o della sicurezza, non sapevano cosa significasse svegliarsi la mattina e doversi dar da fare per non morire di fame prima ancora di pensare ai sentimenti dell’amata’.

Odiavamo Robinson Crusoe, il romanzo con quel quel coglione coloniale come protagonista ci toccava un po’ troppo da vicino. Non potevamo tollerare la propaganda imperialista che emanava, quindi organizzammo proteste davanti all’ufficio del Presidente di facoltà, il professor Marwan. Poi incontrammo il Rettore dell’università e rivendicammo la rimozione del libro dal corso universitario. Eravamo solo in cinque a guidare le proteste, ma sentivamo di avere la responsabilità intellettuale ed etica di manifestare contro tutto ciò che era in conflitto con i nostri diritti umani. Chiedemmo loro come mai l’università non ci insegnasse invece la letteratura scritta dai suprematisti bianchi che perorava i benefici della schiavitù. La domanda li fece vergognare e il presidente ordinò immediatamente la rimozione del romanzo dal corso della facoltà di inglese.  Fu una vittoria, e festeggiammo andando all’ufficio del British Council di Gaza per lamentarci che il romanzo fosse in bella vista sugli scaffali della loro biblioteca. Il mese successivo il libro venne rimosso.

Nel secondo anno poi leggemmo le opere di Charles Dickens e improvvisamente ci rendemmo conto che, nonostante le varie difficoltà, ne era valsa la pena. Cioè valeva la pena seguire un corso di laurea in letteratura inglese e pagare tutte quelle costose tasse d’iscrizione. Uno come Dickens avrebbe potuto benissimo vivere a Gaza e infatti il suo Oliver Twist ci spezzò il cuore mentre Hard Times ce lo sciolse.

Nel 2000 ebbe inizio la Seconda Intifada, ma questo a noi non importava, eravamo persi in un mondo diverso. Non ci importava che, così a caso, per le strade venissero eretti posti di blocco. Non ci importava che per la prima volta nella Striscia gli israeliani utilizzassero elicotteri per bombardarci. Non ci importava che un numero spropositato di nostri amici fossero stati uccisi. Non ci importava che gli occupanti iniziassero a sparare dagli F16; che scemassero le speranze di pace; che il confine fosse chiuso; che l’elettricità scarseggiasse; che le invasioni militari fossero diventate la norma; che ogni volta che salutavamo la famiglia ci sembrava potesse essere l’ultima. Tutte queste cose non avevano importanza perché avevamo un mondo tutto nostro fatto di libri completamente diverso da tutto ciò che ci circondava, e nonostante i momenti difficili che affioravano nelle opere di di Dickens restavamo incantati perdendoci nel fascino di una macchina a vapore o di un circo.

A volte disegnavamo quello che vedevamo nella nostra fantasia. Eravamo impegnati a leggere brano dopo brano di opere geniali dei secoli precedenti per poter infine arrivare al Novecento e leggere TS Eliot.  Stavamo seduti in aule crivellate da fori di proiettile facendo finta che i bombardamenti all’esterno altro non fossero che i fuochi d’artificio sparati all’interno di un circo.

***

Molto spesso, quando io e Ammar andavamo a sederci in riva al mare, smettevamo di ridere e – senza attirare troppo l’attenzione  –  spostavamo con discrezione le chiappe per avvicinarci l’uno all’altro. Eravamo così vicini che le nostre cosce si toccavano. Poi le nostre mani si fondevano in un’unica mano, e per tutto il tempo distoglievamo lo sguardo l’una dall’altro, occupati a scrutare le vicinanze per vedere se qualcuno se ne fosse accorto, continuando però a fingere che stessimo solo ammirando il panorama.  Con grande delicatezza ci accarezzavamo le mani continuando a fissare lo scintillio del Mar Mediterraneo che si stendeva davanti a noi, con le sue dolci onde e le navi da guerra israeliane poi non così gentili. Galleggiavano sull’orizzonte dove l’acqua toccava il cielo, in attesa di sparare a qualsiasi pescatore avesse osato oltrepassare il limite delle sei miglia marittime.

Una volta stanchi di fissare il panorama, guardavamo a destra scrutando la ciminiera simile a quella della terra di Mordor di Tolkien che esalava un denso fumo bianco dall’altra parte della recinzione nel porto di Asqalan, in quello che viene chiamato Israele. Non è che fosse poi tanto divertente guardare il fumo andare alla deriva in piccole nuvole verso il mare, ma a quel punto la nostra eccitazione era tale da non vedere nient’altro davanti a noi. Due persone innamorate, circondate da cannoniere, torri di avvistamento e occhi conservatori appostati a scrutare e che trovavano il nostro contatto fisico molto più offensivo delle stesse navi militari israeliane.

Sulla via del ritorno il nostro gioco consisteva nel registrare mentalmente fino a che punto riuscivamo ancora a sentire il suono delle onde mentre ci inoltravamo per Gaza City. Una volta continuammo a sentirle fino al palazzo del comune vicino a El Saraya, dopo aver oltrepassato El Rimal Park, superato la famosa gelateria di Kazem, all’incrocio principale tra Omar El Mukhtar e El Jalaa Street. Spesso Ammar giurava di sentire ancora il rumore della spiaggia sovrastare i rumori della strada: gli asini che ragliavano, i clacson che strombazzavano, le grida degli ambulanti, nonché il meraviglioso profumo di falafel fritti che mascherava le scoregge puzzolenti degli asini che trainavano il carico dei carri. Quando mi girai a guardarlo, stava ridendo, tenendo in mano una conchiglia che poi mi lanciò.

“Vedi, non sto mentendo!”  e iniziò a corrermi davanti quasi come se fossi io a volerlo inseguire e picchiare. Amavo quell’uomo: era il mio mondo. Un mondo diverso che sembrava lontano dalla Palestina forse un centinaio di anni luce. Non era un uomo ordinario. Tutto di lui mi trasportava da qualche altra parte, lontano da questa prigione, lontano dalla distruzione.

Era un sognatore. La vita per lui era solo un grande sogno dal quale non avrebbe mai voluto risvegliarsi, il che lo rendeva quasi ignaro del dolore e della tristezza che lo circondavano.

“Quindi non hai mai lanciato una pietra in vita tua? Nemmeno un sassolino contro una jeep israeliana? Nemmeno uno?” Una volta glielo chiesi mentre gli accarezzavo la mano, allungando la punta delle dita per solleticargli il palmo.

“No,” replicò in tono pacato senza voler offrire alcuna spiegazione: ecco, fine della storia. Non c’era bisogno di motivarlo, non voleva lanciare pietre o partecipare a nessuna delle attività della Prima Intifada.

“È vero che voi del quartiere di Rimal raccogliete le pietre con un fazzoletto prima di lanciarle contro i soldati e gridare “Oh, voi cattivoni, quanto siete brutti!”, gli chiesi una volta, ma per tutta risposta lui scoppiò a ridere.

“Non lo so, non l’ho mai visto. Ma è vero che noi gente di Rimal City siamo un po’ più gentili di voi gente di Jabalia Camp”. Rise di gusto, mentre io gli solleticavo la pancia per essere stato così scortese. C’era qualcosa nella sua risata che mi dava conforto: era innocente, lunga, profonda. Un uomo capace di tale risata era una persona di cui fidarsi e che bisognava sapersi tenere per tutta la vita. Ecco davanti a me un uomo che non aveva mai lanciato un sasso in vita sua. Non avrei mai pensato di poter essere attratta da un essere umano così gentile.

A casa mia, i miei fratelli erano sempre lì a vantarsi dei loro muscoli, e quando eravamo bambini mi raccontavano innumerevoli storie su come facevano piovere sassi sulle jeep militari israeliane. Per loro la resistenza era sacra. Nella mia famiglia non c’era modo di evitare di parlarne.

***

Mentre uscivo dal commissariato di polizia di El Abbas in quel freddo giorno del 22 dicembre 2016, mi ricordai della gioia che provavamo quando andavamo a vedere il grande albero di Natale ergersi in tutta la sua altezza nel mezzo del parco pubblico di El Rimal. Era il governo della Norvegia a donarlo. Ogni anno, due settimane prima di Natale, l’albero veniva decorato con bellissime palline lucenti e scatole vuote avvolte in carta da regalo. C’era sempre un cartello che diceva “Un regalo al popolo palestinese dal governo della Norvegia”. Per certi versi quell’albero era la nostra connessione con il mondo esterno, ci rendeva parte di esso.

Ma dal 2007, quando Hamas prese il controllo di Gaza e Israele aveva imposto un pesante assedio alla Striscia, l’albero non fu più inviato. Forse i norvegesi sapevano che nemmeno Babbo Natale o Dio avrebbero potuto sfondare l’assedio israeliano, quindi si risparmiarono i soldi e l’imbarazzo.

*  * *

Oggi invece stavo tornando a casa da sola, senza alberi da guardare e senza Ammar a cui aggrapparmi. Mi sentivo la testa pesante, pensando a chi avrebbe potuto ucciderlo. Perché qualcuno avrebbe voluto farlo fuori? Erano trascorsi due anni e cinque mesi, ma sembrava solo ieri che Ammar era uscito di casa senza più tornarci.

Il profumo delle patate americane mi solleticava l’appetito. Toccandomi lo stomaco superai la Banca della Palestina e presi la seconda a destra, seguendo la strada su per un’altra piccola collina fino a raggiungere Talatini Street. Girai a sinistra camminando fino all’Università Islamica di Gaza e al quartier generale delle Nazioni Unite dove Ammar lavorava come traduttore. Ma appena prima di raggiungere il portone d’ingresso del nostro edificio, un’auto della polizia si fermò a lato della strada. Il signor Nouman scese e fece cenno all’autista di andarsene.

“Prego, Zahra, avrebbe un attimo per parlare?”

 

Traduzione dall’inglese di Pina Piccolo.

 

Immagine di copertina: Opera grafica di Mubeen Kishany

 

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

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