Non importa perché piangeranno
Non importa perché piangeranno quando saremo morti,
non importa perché le donne rimarranno senza cavalli ed eroi,
poiché da ogni morte in una moltitudine di cose
appariranno ragazze nuove e più belle.
Non ci importa perché soffrendo come cani
raccolti in giardini siamo rimasti soli,
perché solo dopo di noi su barche a vela amare
arriveranno per nave ragazzi nuovi e più appassionati.
***
Ancora non ho mai avuto il mio bambino rubicondo,
e forse, se le ragazze pure me lo avessero dato,
avrei potuto presentire che vita è questa,
che a me arriva su un carro veloce e nero.
E non guarderei soltanto con gli occhi aperti
il mondo e il miracolo dei santi sporchi per le vie,
ma mi sarei difesa coraggiosamente con le spade,
se mi avessero torturato a lungo e con grande forza.
***
Il sole non è cosa perfetta, perché non può trasformarsi in un ragazzo,
né nel cucciolotto d’amore, che gioca nel cerchio dei cieli
e il fatto di non poter vivere senza di lui è solo un castigo delle lontananze
per l’altezza, per l’azzurro negli occhi, per il ponte sul fiume.
Andarsene e non tornare, è il più prezioso di tutti gli eventi
ma il sole neanche questo sa fare. Forse gli manca la follia umana.
Non può più essere neppure riparato, ma se qualcuno riuscisse a farlo
allora ricorderemmo sicuramente che gli manca ancora la morte umana.
Mentre si parte, nessuno si chiede per dove
Mentre si parte, nessuno si chiede per dove
ma poi si chiederanno, poi si chiederanno,
poi, poi,
quando le nostalgie saranno sbocciate dal senso inverso del fiore
che a nessuno permette di vederlo,
poi si chiederanno, sognando di ciò che è accaduto all’alba,
che cosa c’era nel crepuscolo, nell’anima che vive solitaria sulla finestra gialla,
sognando, dico, sognando così come io sogno
tra due sospiri malati e una insensatezza del mondo.
Sì, tutti quelli che se ne vanno, si chiederanno improvvisamente come me,
sì, dico, tutti, sognando lo splendore dell’ostia e dell’infanzia dalla fotografia,
e le piccole formiche che gridano dalla vetta di un grattacielo,
sognando i vulcani spenti, il chiaro di luna che inganna con la bramosia,
sognando dopo tutto il suo inganno che vaga tra le piogge,
dico, tutti, sognando una nave e una leggenda sul deserto,
tutti si chiederanno così come me,
non fidandosi più dei segreti del sorriso che si nasconde dietro l’altare,
non credendo più al dolore di una tomba scavata che a qualcuno torna,
non credendo, come non crediamo né io, né te,
sognando solo dolore,
che inizia il suicidio con simboli di tenerezza,
perché nessuno volle più cantare di lei,
ma è per questo che tutti dovranno chiedersi una volta,
chiedersi perché se ne sono andati, chiedersi come te, come me,
sognando su un marciapiede, un libro illustrato di una vecchia sera,
e la striscia verde di muffa sulle cosce e ancora non credendo,
come te, come me,
una volta tutti si chiederanno qualcosa di misterioso e per molto tempo.
La volpe del deserto
A Danilo Kiš
Un uomo dal temperamento speciale, magro, con la vita stretta,
i capelli arruffati come la vegetazione della foresta pluviale dicono che lo è
ha visto la volpe del deserto per le strade di Parigi. Dio,
ribatte il poeta, cosa fa quella creatura del deserto?
tra gente indegna della sua bellezza
e occhi ipnotizzanti che nascondono una malinconia che come
un coniglio in un cespuglio, come un serpente in una misteriosa cucciolata cadde e
piume di uccellini che vivono sul Sacro Monte,
tra i monaci consacrati. Lei, la volpe del deserto
anche nel sogno di quei santi non può essere felice.
Il poeta, follemente innamorato del suo sguardo fisso,
crede, ma anche questo è dubbio, che lo farà
nel Giardino del Bestiarium, invece, trova le tue ragioni
un’esistenza minacciata, un motivo per conservare la propria memoria
e la malinconia del deserto.
L’uomo vivente sa troppo poco di tale malinconia.
così è durato fino alla fine della sua vita
che non è altro che un’illusione, e lo farà anche la Volpe
in quel periodo, come tutti gli abitanti del Bestiarium,
solo vivere in un’illusione. Su questo, Dio è determinato
a estendere la loro vita al limite.
L’illusione è la loro eternità e la più permanente
durata della vita come sospettato da coloro che
stregati o preoccupati dalla crudeltà del tempo
sono impegnati nella preghiera, nella metafisica e nell’arte…
Nota e traduzione dal croato: Božidar Stanišić
Marija Čudina, poetessa e scrittrice croata e jugoslava (Lovinac, 21. XI. 1937 – Belgrado, 25. IX. 1986). Ha studiato lingue jugoslave e lettere presso la Facoltà di Filosofia di Zagabria. Ha lavorato come giornalista nel quotidiano Slobodna Dalmacija. Avendo sposato il pittore avanguardista serbo Leonid Šejka nel 1961, si è trasferita a Belgrado ed è diventata membro del gruppo artistico Mediala, di cui l’anima era proprio il suo marito. Nelle sue prime raccolte (Le ragazze surreali, 1959, e Fuliggine e doratura, 1963) la critica ha notato la sua tendenza verso un simbolismo trascendentale, particolari soluzioni sintattiche e una ferrea disciplina del linguaggio. Nel libro I vulcani paralleli (1982), che comprende le precedenti raccolte di poesie Il deserto (1966) e La tigre (1971), è vicina alla natura onirica della pittura di Šejka. Nel romanzo breve Amsterdam (1975), e soprattutto nel saggio L’anima selvaggia (1986), presenta una visione della civiltà alienata. I suoi romanzi Il coltello della luna piena (1989) e Le sventure (2005), l’opera Leonid Šejka: libro per osservare (2005) e Poesie (2005) sono stati pubblicati postumi. In un saggio sulla poetessa, Danilo Kiš scrive: “Nessuno sarà in grado di compilare una biografia di Marija Čudina basata sulle sue poesie. In esse non riesci a seguire il destino privato del poeta; Čudina non ha un destino privato.” Comunque, nel suo scritto poetico-saggistico L’oggettivazione, la poetessa si è implicitamente autodefinita: ”Un uomo dall’anima selvaggia è un malinconico incline alle euforie improvvise e bollenti, alla follia immaginaria, alla predestinazione di destino, alla fantasticheria del suicidio, al vizio fantasmagorico, alla perfezione (solo nei sogni); ama la solitudine, i segni grafici, i caratteri gotici antichi, le iniziali e i geroglifici, gli specchi dalla lucentezza torbida, i pozzi, i vulcani paralleli ai mari-oceani tempestosi, il disco lunare, le frecce, le tigri. È bizzoso. Solitario…” Le sue poesie sinora sono tradotte in inglese, polacco, olandese, ungherese e romeno.
Božidar Stanišić, nato a Visoko (Bosnia, 1956), è laureato in letterature degli slavi meridionali a Sarajevo. Insegna fino al 1992, quando fugge dalla guerra civile rifiutandosi di indossare qualunque tipo di divisa. Arriva in Italia e, aiutato dal Centro Ernesto Balducci, trova la residenza a Zugliano (Udine), dove con la famiglia vive tuttora. Dal 1993, quando è pubblicata la sua opera I buchi neri di Sarajevo (MGS press), poi uscita per i tipi di Bottega Errante, pubblica con regolarità libri di racconti, raccolte di poesie e recentemente romanzi (La giraffa in sala d’attesa, Bottega Errante 2019).