Brezze sussurranti: La Biennale di Venezia, 2022. Parte 1: Mura loquaci – Maica Gugolati

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Non ho mai perso una Biennale d’Arte di Venezia in vita mia. Alla mia prima Biennale avevo un anno. Mia madre, artista e professoressa di scultura, ha sempre portato la sua famiglia a questo evento. Crescere a Verona, situata a 120 km da Venezia, ci ha reso relativamente più facile la sua visita. Andare alla biennale in famiglia è sempre stata un’esperienza intensa, faticosa, costosa ma imperdibile, un dovere intellettuale. Una famiglia media non poteva permettersi di pernottare a Venezia; quindi, facevamo tutto di corsa per riuscire a vedere il più possibile, anche se in un giorno solo. Si prendeva un treno delle 7 del mattino, arrivavamo verso le 9 camminando sotto il cocente sole estivo italiano che può raggiungere i 40°; si faceva una indigestione di arte, continuando a camminare e a camminare. Fisicamente esausti, mentalmente sopraffatti, alla fine trascinavo i miei minuscoli sandali per prendere l’ultimo treno delle 22, dormendo fino a casa.

 

Visitare la Biennale di Venezia è un patto, o direi un rito concordato tra me e mia madre. Nella prima foto riportata sotto, sono ai Giardini, 5 anni, seduta su una panchina a decodificare la mappa della Biennale con un abito Madras delle Antille fatto a mano da mia madre. Nella seconda foto, sono di nuovo ai Giardini, a 30 anni, seduta su una panchina, questa volta “eseguendo” sulla direzione di mia madre, la decodifica della mappa della Biennale nello stesso parco dei Giardini. Questa è stata l’ultima Biennale a cui ho partecipato con mia madre fisicamente. Nello stesso anno ha improvvisamente lasciato questo mondo per raggiungerne molti altri, come direbbe Appiah[1]. Mettere in scena questa foto è stato forse per lei un tentativo di rivisitare il passato, ma per me è una rappresentazione misteriosa di come la Biennale di Venezia mi permette di visitare il passato, il presente e il futuro contemporaneamente. La Biennale è diventata una mia “capsula del tempo e dello spazio” che funge da portale di molti mondi ed epoche. Collega ricordi, compagnie trans-temporali e anima domande le più disparate sulla pratica creativa.

 

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45 Biennale di Venezia, 1993 (29 anni fa): 1990, 44. La Biennale di Venezia. Giardini. Io, 5 anni, fotografata da mia madre (Marita Galazzini).

 

Indossavo un vestito giallo, mimetizzandomi nelle parti dello stesso colore della Mirror Room (Pumpkin) di Yayoi Kusama. Forse giocavo a nascondino con i miei genitori.

 

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51 Biennale di Venezia, 2005 (17 anni fa): 2015, 56. La Biennale di Venezia. Giardini. Io, 30 anni, fotografata da mia madre (Marita Galazzini)

 

L’odore delle bustine di tè dell’installazione Poetic Justice di Tania Bruguera ha creato su di me un effetto proustiano rovesciato. All’epoca non sapevo che sarei diventata dottore in antropologia dell’arte e della performance, specialista nella regione dei Caraibi.

 

59 Biennale di Venezia, 2022 (quasi 1 mese fa)

 

A differenza di altre biennali di Venezia, questa non è stata solo un evento che presentava padiglioni d’arte nazionali di quasi tutto il mondo. Questa volta, la Biennale, così come la città, è stata affetta dalle complessità e dalle difficoltà di questo periodo storico. Venezia era uno specchio liquido che rifletteva i paradossi economici in cui il paese e la città sono ora immersi. Con un anno di ritardo, la Biennale di Venezia ha aperto le sue strade medievali agli esperti d’arte internazionali. La città si stava ancora riprendendo da blocchi e restrizioni estremamente severi dovuti alla pandemia. È appena tornata al turismo di massa senza l’aiuto di ricchi investitori russi che in precedenza avevano mantenuto molti degli spazi elitari della città. Mentre Venezia mostrava il suo chiaroscuro di realtà, mi sono chiesta sulle questioni di visibilità e invisibilità, luci e ombre, all’interno del mondo dell’arte.

 

Camminando per le strade mi chiedevo; “Chi può permettersi di venire alla Biennale di Venezia?” (Questa domanda è stata condivisa anche da alcuni artisti e amici di altri continenti del mondo). Volare a Venezia prima dell’apertura generale per poter assistere ai suoi eventi dal vivo è stata un’impresa costosa. Sono riuscita a pernottare solo per miracolo (su un divano improvvisato). Altrimenti avrei dovuto scegliere tra poche opzioni rimaste: un letto da 100€ a notte in un ostello con altre 6 persone, oppure un Airbnb da 400€ a notte; Mestre, la prima città di terraferma, era già piena. La mia ultima opzione era viaggiare avanti e indietro ogni giorno tra Venezia e Verona (dove si trova ancora la casa della mia famiglia), 3 ore di viaggio.

 

Essere presente per la pre-apertura mi ha permesso di interagire con specialisti del settore: giornalisti, critici, artisti, oltre che investitori. Questo è un momento in cui i ristoranti per turisti sono pieni. In altri periodi dell’anno questi stessi ristoranti non sono affatto affollati poiché sono praticamente una zona non frequentata da nativi italiani e veneziani a causa della disproporzione tra qualità e prezzo. Con queste circostanze l’interazione tra la gente del posto e i visitatori della Biennale non è molto fluida. Una mattina ho notato un anziano che portava a spasso il cane mentre passava davanti a un gruppo di artisti della Biennale che faceva uno spuntino in un bar all’aperto vicino ai Giardini, e mi sono chiesta: “Il signore è curioso di queste persone?” Non credo.  “Gli artisti si domandano di lui?” Non credo nemmeno.

 

Sono tornata per l’inaugurazione la domenica successiva e le calle e le calette di Venezia hanno cambiato identità. È ritornata come quando ero bambina: una Biennale frequentata da “gente comune” (il pubblico in generale). A volte queste persone non riuscivano a dare un senso a ciò che stavano vedendo, ma si mettevano comunque in fila per entrare nei padiglioni. Questi possono essere padiglioni di paesi la cui esistenza potrebbe non essere di conoscenza generale. Vedere queste persone a volte sorridere, altre volte confuse, mi ha ricordato il film di Alberto Sordi “Le Vacanze Intelligenti”; una commedia del 1978 che svela le discrepanze tra gli ambienti sociali e le istituzioni culturali in Italia.

 

VIDEO

https://www.youtube.com/watch?v=OfsJAgaY62E

 

A questo punto mi sono chiesta: “Chi sono le persone a cui si rivolgono queste opere d’arte? Chi potrebbe essere influenzato da queste opere, perché? e come?” Penso che dovremo aspettare con pazienza e osservare gli effetti che La Biennale avrà in connessione con gli altri eventi artistici internazionali in Europa di quest’anno.

 

Immergendosi nelle “acque” della Biennale, questo evento mostra quello che l’artista Christopher Cozier definisce [2] come un “momento post-Okwui” in cui opere di donne, persone non binarie e Nere, ri-immaginano vite, trasformano corpi, e mostrano criticamente che le cosmologie sono plurali. A mio avviso, questo evento va oltre la base sur-reale del tema principale della Biennale. Attraverso la visibilità si tratta dell’invisibilità in un ossimoro di esperienze. La Biennale attraversa i mondi dell’arte, storie di persone che sono state rese storicamente invisibili.

 

Per me l’evento ha offerto tre assi centrali: una critica dei sistemi dominanti, una comunicazione sensoriale e un modus operandi di connessione come un “ponte”.

 

Le strade medievali veneziane, storicamente create per resistere agli invasori, presentano con questa Biennale opere d’arte che mettono in discussione realtà e conoscenze secolarizzate. Questa Biennale ci mostra che le identità plurali sono sempre esistite, ma sono sottomesse a modalità sistematiche di oppressione. La maggior parte dei padiglioni ha cercato di affrontare le complessità della decolonalità [3], non solo come discorso, ma come pratica, art-ivismo per delle rappresentazioni sovranazionali.

 

Mi sono sentita sopraffatta dalla Biennale, non solo per le sue dimensioni, ma perché richiedeva un impegno con ciascuna delle opere d’arte. Ogni opera necessita una conoscenza di base delle questioni sociali molto specifiche. A volte mi sono sentita infuriata, motivata, ispirata, ma anche senza speranza per il mondo. Le opere d’arte richiedono un coinvolgimento intellettuale ed empatico che chiaramente due giorni di regolare biglietto combinato non consentono. In questo scenario, la dimensione dell’evento funziona come quasi controproducente per raggiungere una relazione emotiva con le opere d’arte. Ho sentito la necessità di avere più tempo, più spazio per digerirle. Come in un banchetto artistico con il desiderio bulimico di averne sempre di più, il pubblico è obbligato ad imparare a bilanciare simpatia ed empatia.

 

Nel prossimo articolo condividerò con voi la mia esperienza su alcuni specifici padiglioni. Il Padiglione della Diaspora, che ha mostrato performance e installazioni per i tre giorni precedenti l’inaugurazione generale. Questo padiglione è in sintonia con le realtà plurali diasporiche ed è critico nei confronti del capitale economico della Biennale. Parlerò anche dei padiglioni della Scozia, della Gran Bretagna e degli Stati Uniti che hanno scelto le donne nere di origine caraibica per rappresentare le loro nazioni.

 

Traduzione italiana a cura dell’autrice, Maica Gugolati, pubblicato originariamente in inglese in AICA Caraïbe du Sud:

 

 

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Maica Gugolati è ricercatrice presso l’Istituto dei mondi Africani, alla Scuola degli Alti Studi in Scienze Sociali EHESS, Parigi, Francia e curatrice indipendente. Si è specializzata in antropologia della performance, dei festival e dell’arte, e focalizza i suoi progetti in collaborazione con la produzione artistica e culturale dei paesi del “Majority World” e la sua diaspora. Basa le sue ricerche sul pensiero decoloniale e postcoloniale, queer studies e dis-able studies. È anche una fotografa e artista, co-editore del blog di ricerca Decolonial Dialogues (Regno Unito), della rivista African Diaspora, ed è curatrice all’associazione internazionale Aica, Caraibi del Sud.

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

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