I° Sezione: Richiami, amuleti
Anche le parole sono richiami, non definiscono
niente, chiamano qualcosa perché resti con noi. E
quello che possiamo fare è chiamare le cose invo-
carle perché vengano a noi con i loro racconti:
chiamarle perché non diventino tanto estranee da
partire ognuna per conto suo in una direzione di-
versa del cosmo, lasciandoci qui incapaci di rico-
noscere una traccia per orientarci.
Gianni Celati, Verso la foce
Come dire questo sacro sottile nelle cose. I rovi smorti in capo all’aia che questo sole benedice come un’ostia sciolta nella bocca o il pastore che dorme sui greppi e non sa di questo mondo, il capo delle pecore piegato tra gli sterpi a costruire intorno al sonno una difesa contro il tetto del capanno che si sfalda e lascia nella terra sepolti i segreti della zappa o del concime, mentre l’amianto residuo della casa aspetta un altro nido, un becco di ghiandaia che porti un altro seme o la grazia dei marciumi e della polvere a coprire tutto il male del passato.
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Se dico casa, non avrai riparo. Se dico pane.
Se dico grano tu lieviti e ti spalanchi nel mio nome.
Siamo nati. “Alberi case colli per l’inganno consueto”.
Se dico àncora, mi abissi. Siamo nati.
Gettati in un nome verso un nome.
Se dico tetto mi scoperchi, se dico cielo
mi nevichi e mi scardini dal corpo.
Con la grazia dei vulcani. In quello
stare delle cose illuminate per sé stesse.
Se dico sillaba, fonemi si sparpagliano
e poi il gelo li ricuce, li spoglia
e fa nuda la parola, esposta
e divina come un barbaro in esilio.
Adesso. Se lo dico, già è passato.
Siamo nati. Gettati in un nome verso un nome.
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Il tuo passato è il presente
di qualcuno, vie di fuga,
vie d’accesso, bisognava rompere
il cerchio, spezzare la corda
e far piangere i bimbi nel tiro alla fune,
allora contare chi resta seduto
chi prova a rimettersi in piedi
chi fa un nodo e vuole che il gioco
riparta, bisognava trovare l’equazione
distorta, l’inganno che dura,
bisognava trovare nel cerchio quel niente
che disfa le cose, quel vento che quando si corre
ti snocciola dietro tutti gli addii,
ti illude che dopo troverai solo il bene.
II° Sezione: Nostalgia del grembo
In greco “ritorno” si dice nòstos. Álgos significa
“sofferenza”.
La nostalgia è dunque la sofferenza provocata dal
desiderio inappagato di ritornare.
Milan Kundera, L’ignoranza
Lentamente, posare le cetre a raccogliere globuli di un canto
propiziatorio al posto nostro, accecarsi con un abbaglio di
cenere mentre scorre la clessidra – ci guarda il dissiparci, la
gioia sulla lapide, farsi chiudere gli occhi da mani stanche di
calibrare la bilancia dell’incostanza, il peso della noia è ghi-
gliottina sospesa, la lama non incide: misura. Sperare, spera-
re, alzarsi, andare da una stanza all’altra, cercare. Qualcosa.
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Dicono che ci passerà, questa pigrizia viscerale,
il male è ovattato nella stanza, non sentiamo aria respirare
nemmeno da una mosca, dicono che il seme disperso ha causato
nascite improvvise, lì fuori, la finestra ha favorito il passaggio
dei cromosomi, abbiamo bevuto tutto il nettare dai seni sospesi
di Madre-Noia, dicono che non resta altro se non piangere,
spingere fuori la gioia dalle zampe – come un animale –
e dargli un nome, sentirla urlare.
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E se fossimo solo un’ipotesi di volo,
un’istruzione leggera all’apertura
delle ali, se fossimo solo
il capovolgimento, la conversione
di un altrove in cui vive
la nostra parte divisa,
e se un giorno ci ricongiungeremo
con la coincidenza esatta
della felicità, e se allora forse
sogno e realtà
arrivassero finalmente
a coincidere, e se questa fosse solo
una possibilità da spartire
con l’altro, da scambiare
come in un patto?
E se riuscissimo a non rifletterci
più, se riuscissimo a valicare
il limite dello specchio,
del cielo, della porta, riusciremmo
a ritrovarci ancora interi,
veri come una volta?
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Sezione III: I morti sono i tarli della neve
I morti continuano a porsi
le stesse domande dei vivi:
rimangono i corsi e i ricorsi
del vivere identici sulle
due rive. In che luce cadranno
tornati alle cellule.
Gabriele Galloni, In che luce cadranno
Penso ai morti del paese a cui non pensa
più nessuno. Gli ingrigiti fiori finti, i fiori secchi,
il gelo che fa tana nelle tombe scoperchiate.
Quanto resta. Cosa resta in una foto
di tutto il mappamondo di un umano.
Una scritta, una data, qualche oggetto.
Cosa resta. Penso a tutti i trapassati
che non lasciano una scia. Benedico
i loro nomi, percepisco il loro sonno
come un ago, la mia notte
nella cruna della loro.
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Un giorno sarò terra concimata, solco da irrigare. Le mani
avranno forma di scodella. E la pelle becchime per gli uccelli.
Un giorno avrò dimora dove tutte le dimore hanno dimora.
Il sangue sarà linfa per le querce, ossigeno degli olmi. Un
giorno sarò vivo e sarò morto. L’anca sarà vaso per le rose. La
lingua tappeto per i vermi. Un giorno sarò terra concimata.
Sarò scheggia e sarò tarlo. Nella mente di chi vive. Sarò vivo
e sarò morto. Un giorno sarò pieno e sarò vuoto. Avrò cura
di ogni petalo marcito. Sarò terra concimata. Petrolio sulla
neve. I capelli stesi al sole cresceranno a dismisura. Sarà spiga
ogni singolo capello. Un giorno sarò pane e sarò lievito e fa-
rina. Un giorno sarò terra concimata. I miei organi ortaggi a
maturare. I miei anni le stagioni.
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A G.
Quanto siamo transitori. Da un buio
verso un altro, piccoli graffi di luce.
Ferite che brillano, schegge nell’aria.
Braccati, con le fiaccole spente
dal vento. Piccole scie. Di una parola
soltanto, dilla adesso, adesso che hai
un altro nome. Benedetto il tuo bacio,
benedetto il tuo fuoco, benedetti gli astri
del corpo, benedetto il grano nel capo,
benedette le mani, le braci negli occhi,
benedetto il tuo passo di neve, benedetto
ogni singolo soffio, ogni gioia che arde,
benedetto ogni sguardo lasciato, benedetta
ogni ora negli anni a venire, benedetto
il nome che hai ora, benedetto sia
tutto il creato celeste in cui voli,
benedetto il tuo amore che è sparso
nel cosmo, benedetta ogni fibra leggera,
ogni spina, ogni graffio, ogni fiamma
riaccesa, splendore di quarzo, miracolo
d’acqua, benedetto ogni seme gettato,
benedetti i germogli, il miracolo, il dono
di esserci stata.
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Biografia:
Lorenzo Pataro (Castrovillari, 1998) ha pubblicato la raccolta di poesie Bruciare la sete (Controluna, 2018). Sue poesie sono state pubblicate su riviste e blog come Atelier, Interno Poesia, Poesia del nostro tempo, Clandestino, il sarto di Ulm – bimestrale di poesia, sul sito ufficiale di poesia della Rai (Poesia, di Luigia Sorrentino), sul quotidiano La Repubblica. Ha vinto i premi “Ossi di sep