Sull’identità palestinese: una conversazione con Salman Rushdie – di Edward Said (trad. di Giorgio Canarutto)

RUSHDAR

Sull’identità palestinese: una conversazione con Salman Rushdie, di Edward Said[1]

 

Salman Rushdie: Lo scopo di questa serata è parlare del nuovo libro di Edward Said, After the Last Sky.[2] Prima vorrei presentarvi brevemente Edward—anche se, giudicando dal numero di persone che sono venute e non riescono ad entrare, sembrerebbe non essere necessario. Per quelli di noi che considerano il conflitto tra la descrizione orientale e quella occidentale del mondo sia come una lotta interna che esterna, Edward Said è stato per molti anni una voce molto importante. Professore di inglese e di letteratura comparata alla Columbia University e critico letterario (la sua opera comprende saggi su Joseph Conrad tra altri autori),  Edward si è sempre distinto per la sua capacità di leggere il mondo con uno sguardo tanto penetrante quanto quello che dedica ai testi letterari. Basti pensare alla grande trilogia che precede After the last sky. Nel primo volume, Orientalismo, ha analizzato l’affiliazione tra conoscenza e potere, discutendo come gli studiosi del periodo dei grandi Imperi hanno contribuito a creare un’immagine dell’Oriente offerta come giustificazione per l’ideologia suprematista dell’imperialismo. Questo primo volume è stato seguito da La questione palestinese, che descriveva il conflitto tra un mondo modellato principalmente da idee occidentali – quella del sionismo e più tardi quelle di Israele – e le realtà largamente “orientali” della Palestina araba. Poi ci fu Covering Islam, sottotitolato “Come i media e gli esperti determinano come vediamo il resto del mondo, in cui l’invenzione occidentale dell’Oriente è, per così dire, aggiornata attraverso una discussione delle risposte alla rinascita islamica.

After the Last Sky è un lavoro in collaborazione con Jean Mohr – un fotografo che potreste conoscere dalla ricerca di John Berger sui lavoratori immigrati in Europa, A seventh man. Il titolo riprende una poesia, The Earth Is Closing on Us del poeta nazionale della Palestina Mahmoud Darwish, e vorrei cominciare leggendo i seguenti versi:

 

La terra è stufa di noi

Ci respinge la terra
e ci costringe nell’ultimo varco
ci spogliamo dalle membra per poter passare.
Ci spreme la terra.
Magari fossimo il suo grano
per morire e
Rinascere.
Magari fosse madre nostra
Perché abbia pietà di noi.
Magari fossimo dipinti sulle rocce,
che il nostro sogno porterà,
come specchi.
Abbiamo visto i volti
Di chi verrà assassinato
Dall’ultimo di noi,
in difesa dell’anima!
Abbiamo pianto sulle feste
dei loro bambini.
Abbiamo visto i volti
di chi lancerà i nostri bambini
dalle finestre di questo ultimo spazio.
Specchi che la nostra stella appenderà!
Dove andremo dopo le ultime frontiere?
Dove voleranno le rondini dopo l’ultimo cielo?
E dove dormiranno gli alberi dopo l’ultimo
respiro d’aria?
Scriveremo i nostri nomi
Con vapore scarlatto,
interromperemo il canto,
perché lo completi la nostra carne lacerata.
Qui moriremo,
qui nell’ultimo passaggio,
qui o forse qui,
pianterà i suoi olivi il nostro sangue.

Traduzione italiana di Lucy Ladikoff

Dopo l’ultimo cielo non c’è più cielo. Dopo l’ultimo confine non c’è più terra. La prima parte del libro di Edward si chiama ‘Stati’. È una meditazione molto appassionata e toccante sugli spostamenti forzati, sugli sfollamenti, sulla condizione di essere senza terra, sull’esilio e l’identità. Egli chiede, per esempio, in che senso si può dire che i palestinesi esistono? Dice: ‘Noi esistiamo? Che prova abbiamo? Più ci allontaniamo dalla Palestina del nostro passato, più precario è il nostro status, più sconvolto il nostro essere, più intermittente è la nostra presenza. Quando siamo diventati un popolo? Quando abbiamo smesso di esserne uno? O siamo nel processo di diventarne uno? Cosa hanno a che fare questi grandi interrogativi con le relazioni interpersonali tra noi palestinesi e gli altri? Spesso chiudiamo le nostre lettere con espressioni come “Palestinian love” o “Palestinian kisses”. Esistono veramente cose quali l’intimità e gli abbracci palestinesi, o sono semplicemente intimità e abbracci – esperienze comuni a tutti – senza significato politico o specificità a una nazione o a un popolo?

 

Edward proviene, come dice lui stesso, da una “minoranza all’interno una minoranza” – una posizione per la quale provo empatia, provenendo anch’io da un gruppo di minoranza all’interno di un gruppo minoritario. È una specie di scatola cinese quella che lui descrive: “Io e la mia famiglia eravamo membri di un piccolo gruppo protestante all’interno di una minoranza molto più grande di cristiani di rito greco-ortodosso, all’interno di una maggioranza musulmana sunnita”. Poi passa a discutere la condizione dei palestinesi attraverso la mediazione di alcune recenti opere letterarie. Una di queste, definita erratamente un Tristram Shandy arabo nella quarta di copertina, è un meraviglioso racconto comico sulla vita segreta di un tale chiamato Saeed, The Ill-Fated Pessoptimist (In italiano Il pessottimista ndt). Un pessottimista, come si può vedere, è una persona con problemi riguardo alla propria interpretazione del mondo. Il Saeed del romanzo sostiene ogni sorta di cose, compreso, nel primo capitolo, di aver incontrato esseri provenienti dallo spazio: “Nella cosiddetta età dell’ignoranza precedente all’Islam, i nostri antenati usavano creare i loro dèi utilizzando datteri e  all’occorrenza se li mangiavano. Allora chi è più ignorante, caro signore, io o quelli che mangiavano i propri dèi?   È davvero possibile sostenere che sia meglio che le persone si mangino i propri dèi piuttosto che non essere mangiati da loro? Io risponderei, sì, ma i loro dei erano fatti di datteri”.

 

Un’idea di fondo di After the Last Sky riguarda il significato dell’esperienza palestinese relativamente alla forma delle opere d’arte realizzate da palestinesi. Dal punto di vista di Edward, la natura spezzata o discontinua dell’esperienza palestinese significa che le regole classiche che governano forma e struttura potrebbero non essere valide per quella determinata esperienza; piuttosto, è necessario lavorare attraverso una specie di caos o una forma instabile che esprima accuratamente la propria instabilità esistenziale. Edward poi procede a introdurre il tema –sviluppato successivamente nel libro – che la storia della Palestina ha trasformato “the insider”, cioè l’arabo palestinese, nell’estraneo, “l’outsider”. Il punto è illustrato da una fotografia di Nazareth scattata da una località  chiamata Upper Nazareth – un’area che non esisteva ai tempi della Palestina araba. Così la Palestina araba è osservata dal punto di vista di una nuova Palestina inventata, e l’esperienza dall’interno della vecchia Palestina è diventata l’esperienza dall’esterno nella fotografia. Eppure, i palestinesi sono rimasti.

 

Sarebbe più facile

pescare  pesci fritti nella via lattea

arare il mare

o insegnare all’alligatore a parlare

che farci partire.[3]

 

Nella seconda parte, “Interiors”, che elabora in profondità il tema dell’insider e dell’outsider, Edward scrive di un cambiamento nello status dei palestinesi che vivono all’interno della Palestina. Fino a non tanto tempo fa, generalmente nella comunità palestinese coloro che erano rimasti in quella terra venivano un po’ sminuiti, come se fossero contaminati dalla vicinanza con gli ebrei. Adesso, però, la situazione si è invertita: quelli che continuano a vivere lì in Palestina, mantenendo una cultura palestinese e obbligando il mondo a riconoscere la propria esistenza, hanno acquisito uno status superiore agli occhi degli altri palestinesi.

 

Questa esperienza di appartenenza alla palestinesità è presentata come una serie di codici che, anche se incomprensibili a chi ne è all’esterno, sono immediatamente comunicati dai palestinesi quando si incontrano. L’unico modo di dimostrare di esserne all’interno è precisamente attraverso l’espressione di tali codici. C’è un episodio molto divertente in cui Edward, attraverso un completo sconosciuto, riceve una lettera scritta da un uomo che si è creato l’identità palestinese di esperto di karate. “Che messaggio intendeva darmi?”  si chiede Edward. “Prima di tutto che egli era un palestinese dentro la palestinesità  in altre parole un ‘insider’, e avvalendosi dei buoni uffici di un ‘outsider’ empatico contattava me, un ‘insider’ che si trovava adesso fuori da Gerusalemme, nostra comune origine. Il fatto che mi scrivesse in inglese era sia segno della sua capacità di affrontare il mondo in cui vivevo io  sia segno che seguiva quello che io facevo. Era venuto il momento di dimostrare che gli Edward Said erano sorvegliati da esperti di karate. Il karate non rappresenta lo sviluppo personale ma solo l’atto ripetuto di essere un esperto di karate palestinese. Un palestinese – come se l’atto di ripetere impedisse a noi stessi e agli altri di evitarci o trascurarci del tutto.

 

Edward dà poi un certo numero di altri esempi di ripetizione di un comportamento al fine di farlo diventare un comportamento palestinese, quindi esistere tramite quella ripetizione. Sembra anche esserci una coazione  all’eccesso, illustrata nel libro in vari modi, sia tragici che comici. Uno dei problemi dell’essere palestinese è che l’idea all’interno di quella esperienza è regolarmente invasa dalle descrizioni di altre persone, dai tentativi di altre persone di controllare cosa significhi occupare quello spazio – sia che si tratti di arabi giordani che dichiarano che non c’è nessuna differenza tra un giordano e un palestinese, o gli israeliani che affermano che la terra non è Palestina ma Israele.

 

La terza parte di  After the Last Sky  intitolata “Emergere” e la quarta, “Passato e futuro”, passano da una scrittura appassionata ed emotiva – o sicuramente toccante a una discussione di quello che è o potrebbe essere, essere un palestinese. C’è anche un resoconto del potere a cui i palestinesi sono assoggettati, del modo in cui perfino i loro nomi sono stati alterati attraverso l’imposizione della traslitterazione ebraica. Come segno di resistenza, i palestinesi cercano di riaffermare la loro identità, tornando alle vecchie forme arabe: Abu Ammar, per esempio, invece di Yasser Arafat. In diverse occasioni il vero significato dei nomi è stato alterato. Ad esempio il più grande campo profughi in Libano, Ein el Hilwé, che è scritto con la lettera “h” all’inizio nella traslitterazione araba, è diventato Ein el Khilwé nella traslitterazione ebraica: un nome che originariamente  significa “dolce sorgente” viene trasformato in “sorgente in un posto vuoto”. Edward vede in questo un’allusione alle fosse comuni e ai campi regolarmente spianati e non sempre ricostruiti. “Registro anche il pensiero”, egli scrive, “che Israele abbia per davvero svuotato il campo con la sorgente palestinese”.

 

Il testo prosegue parlando di sionismo, tema affrontato nel testo precedente, “La questione palestinese. Spero che potremo tornarci dopo, ma dovremmo sottolineare la difficoltà del fare una qualsiasi critica del sionismo senza essere istantaneamente accusati di antisemitismo. Chiaramente è importante capire il sionismo come un processo storico, come esistente in un contesto e avente certe funzioni storiche. Un’idea ulteriore in queste ultime sezioni del libro è che, in Occidente, tutti abbiano cominciato a pensare all’esilio come ad uno stato soprattutto letterario e borghese. Gli esiliati sembrano aver scelto una situazione da ceto medio in cui si possano creare le condizioni per generare profondità di pensiero. Nel caso dei palestinesi, però, l’esilio è un fenomeno di massa: è la massa che è esiliata e non solo la borghesia.

 

Infine, Edward pone una serie di domande che si riducono a quella originale dell’esistenza palestinese: Cosa succede alle persone senza terra? Anche se si esiste nel mondo, cosa si conserva della propria identità? Cosa si abbandona? Trovo un passaggio particolarmente prezioso per come si connette a molte cose a cui ho pensato. “La nostra realtà più autentica “, egli scrive, “si esprime nel modo in cui passiamo da un luogo ad un altro. Siamo migranti e magari ibridi, ma non di qualsiasi particolare situazione in cui ci troviamo. Questa è la più profonda continuità delle nostre vite come nazione in esilio e costantemente in movimento. Said critica anche la grande concentrazione della causa palestinese sulla sua espressione militare, riferendosi ai pericoli della perdita culturale o della sua assenza.

 

Vorrei chiudere la mia presentazione  facendo una domanda. Alcuni di voi saranno al corrente del fatto che Edward ha ricevuto minacce alla sua sicurezza dalla Jewish Defense League negli USA, e penso che sia importante per noi considerare che essere un palestinese a New York – in molti aspetti il palestinese – non sia un destino tra i più semplici. Racconterò due storie, una tragica e una comica, e poi domanderò a Edward di raccontare come ci si sente a essere un palestinese a New York.

 

Quella comica riguarda mia sorella, a cui hanno spesso chiesto in California da dove venisse. Quando rispondeva “Pakistan” la più parte delle persone sembrava non avere idea di cosa significasse. Un americano ha ribattuto. “Ah, sì, Palestina!” e ha cominciato immediatamente a parlare dei suoi amici ebrei. È impossibile sovrastimare le conseguenze dell’ignoranza statunitense nella politica internazionale. La storia meno comica è che in gennaio, quando ero al congresso dell’associazione (internazionale degli scrittori) PEN la scrittrice Cynthia Ozick ha preso l’iniziativa di far circolare una petizione che descriveva il cancelliere austriaco Kreisky come antisemita. Come mai sarebbe stato un antisemita – quest’uomo, ebreo lui stesso, e che ha dato rifugio a decine, forse centinaia di migliaia di ebrei che lasciavano l’Unione Sovietica? Perché ha avuto una conversazione con Yasser Arafat. La cosa allarmante è che questa petizione, a prima vista abbastanza assurda, avrebbe dovuto essere presa sul serio dai partecipanti al congresso. C’è stato anche un momento in cui sono precipitato nell’ansia perché visto che sembrava che nessun altro avrebbe parlato di Palestina, avrei dovuto farlo io. Ma la difesa è arrivata proprio da Pierre Trudeau, che ha parlato in modo molto toccante della causa palestinese. Queste sono alcune delle cose che capitano a New York.
Edward, sotto i riflettori ora ci sei tu. La situazione sta migliorando o peggiorando? Che sensazione hai?

 

Edward Said: Beh, io penso che stia peggiorando. Prima di tutto, a New York la maggioranza delle persone che si sentono fortemente legate alla Palestina e ai palestinesi non ne hanno avuto alcuna esperienza diretta. Pensano ai palestinesi  essenzialmente nei termini di quello che hanno visto in televisione: allarmi bomba, uccisioni e quello che il Segretario di Stato e altri chiamano terrorismo. Questo produce una reazione appassionata a cui mancano le fondamenta, così quando mi presentano a una persona che potrebbe aver sentito parlare di me, questi reagiscono in maniera strana come per dire “Magari non sei poi tanto male come potresti sembrare”. Il fatto che io parli inglese e, che lo faccia ragionevolmente bene, aumenta le complicazioni, e la maggioranza delle persone alla fine si concentra sul mio lavoro come professore di inglese fino alla fine della conversazione. Ma tu senti una nuova forma di violenza intorno a te che è il risultato degli eventi del 1982 [Ndt: la guerra in Libano]. A quell’epoca si è verificata un’importante rottura col passato, sia per le persone che hanno sostenuto Israele negli Stati Uniti, sia per persone come noi, per cui la distruzione di Beirut, la nostra Beirut, ha significato la distruzione di un’era. La maggior parte del tempo si può pure avere l’impressione di star conducendo una vita normale, ma ogni tanto si è portati a confrontarsi con una minaccia o con un’allusione a qualcosa profondamente sgradevole. Ti senti sempre in qualche modo escluso.

 

SR: C’è stato qualche cambiamento nelle tue possibilità di pubblicare o parlare della questione palestinese?

 

ES: In qualche misura. Questo è un tema su cui, come sai, in America c’è una frattura tra destra e sinistra, e ci sono ancora dei gruppi – poche persone come Chomsky o Alexander Cockburn – che hanno la volontà di sollevarla pubblicamente. Ma la maggioranza delle persone tende a pensare che è meglio lasciare la questione a gente che è fuori di testa. Ci sono meno spazi editoriali che danno ospitalità, e finisci col pubblicare per un pubblico di lettori più ristretto. Ironicamente, vieni anche preso per rappresentante di tutta la comunità palestinese, vieni trasformato in ‘token’, cioè vieni nominalmente integrato a titolo simbolico come rappresentante della comunità emarginata, così in qualsiasi momento avvenga un dirottamento o un incidente di questo genere, ricevo telefonate dai media che mi chiedono di venire e commentare. È un sentimento molto strano quello di essere visto come un rappresentante del terrorismo.

 

SR: Sì. Sembra che si presuma che tu debba esserne pienamente informato.

 

ES: Sei trattato come un diplomatico del terrorismo, con un posto al tavolo delle trattative. Ricordo un’occasione, però, quando ero stato invitato ad un dibattito televisivo con l’ambasciatore israeliano – penso che fosse stato a proposito dell’episodio dell’Achille Lauro. Non solo non si sarebbe seduto nella stessa stanza con me; ha voluto essere in un diverso edificio, così da non essere contaminato dalla mia presenza. L’intervistatore ha dichiarato al pubblico televisivo nazionale in diretta: “Sapete, il professor Said e l’ambasciatore Netanyahu rifiutano di parlarsi a vicenda, l’ambasciatore di Israele non parlerà con lui ed egli…” Ma allora io interrompendolo ho ribattuto: “No, no, io ho tutta la volontà di parlare con lui, ma lui no…” Il moderatore ha replicato: “Bene, mi correggo. Signor ambasciatore, perché non vuole parlare al professor Said?” “Perché lui vuole uccidermi.” Il moderatore senza battere ciglio si è limitato ad andare avanti discettando su come i palestinesi vogliono uccidere gli israeliani, e così di seguito. Una situazione completamente assurda.

 

Magari posso ricordare che in quell’occasione avevo portato con me mio figlio allo studio televisivo – un ragazzo molto attento, abbastanza differente da sua sorella che ha solo dodici anni e trova molto difficile gestire le sue origini o quello dei suoi genitori. Mio figlio ha molto interesse per tutta la questione; è venuto con me nel 1984, quando ho partecipato alla sessione del Consiglio Nazionale Palestinese in Giordania. Effettivamente, lui si sdoppia in due persone distinte: talvolta è solo Wadie Said, che parla con un normalissimo accento americano; altre volte è un palestinese che parla inglese, con un accento arabo abbastanza pronunciato, mi chiama Doktor e mi tratta con ironica venerazione.

 

SR: Adesso vorrei invertire la domanda. Com’è essere un palestinese di New York in Palestina?

 

ES: Qualche volta ho la strana sensazione di essere l’unico palestinese a New York – in parte perché non ci sono molti palestinesi in città, e in parte perché probabilmente anche questi pensano che io sia una specie di fenomeno da baraccone. C’è qualcosa di peculiare nel trovarmi lì, a New York, ed è strano che io persista nella pazza esistenza in quella città in cui nessuno si sente a casa, eccetto probabilmente solo me. Bisognerebbe ricordare che io non sono stato in Palestina da metà anni Sessanta, e dal 1982 non sono stato in molte parti del mondo arabo. Molti di noi in questa strana situazione stanno cominciando a formare un diverso tipo di comunità, che è basata non sul contatto quotidiano ma su telefonate a lunga distanza e altre attività che si svolgono sporadicamente. È un’esistenza marginale senza centro.

 

SR: Dici che non ti piace chiamarla diaspora palestinese. Perché?

 

ES: Suppongo che ci sia un senso in quella definizione, come mi ha scritto in una nota un uomo da Gerusalemme, “che noi siamo gli ebrei del mondo arabo”. Ma io penso che la nostra esperienza sia abbastanza differente e al di là di questi tentativi di tracciare paralleli. Magari le dimensioni [Ndt: della nostra diaspora] sono molto più modeste. In ogni caso che esista una patria di redenzione non corrisponde al mio modo di vedere le cose.

 

SR: Allora lascia che io ti ponga la tua stessa domanda. Voi esistete? E se sì, che prova ne avete? In che senso c’è una nazione palestinese?

 

ES: Prima di tutto, nel senso che molte persone hanno memorie e mostrano grande interesse nel guardare al passato per trovare i segni di una comunità coesa. Molti, anche – specialmente la generazione più giovane di studiosi – stanno cercando di scoprire elementi dell’esperienza politica e culturale palestinese che la delineino al di fuori del resto del mondo arabo. In secondo luogo, esiste la tradizione di fondare repliche di organizzazioni palestinesi in posti così lontani come l’Australia o il Sud America. È abbastanza degno di nota  che persone che vengono a vivere in luoghi come, diciamo, Youngstown, in Ohio – una città che non conosco, ma che potete immaginare come possa essere – possano rimanere aggiornati sugli ultimi avvenimenti a Beirut o sugli attuali disaccordi tra Fronte Popolare e Al Fatah e allo stesso tempo non sapere nemmeno il nome del sindaco di Youngstown o come venga eletto. Magari suppongono che venga messo lì da qualcuno invece che essere eletto. E infine potete vedere dalle fotografie di Jean Mohr che i palestinesi sono persone che si spostano molto, che portano sempre borse da un posto all’altro. Questo ci dà un ulteriore senso di identità come popolo. E lo diciamo a volume alto, abbastanza ripetutamente, e in maniera stridente, forti della consapevolezza che non sono stati capaci di liberarsi di noi. È una sensazione fantastica – chiamatela positiva o pessottimista –  quella dello svegliarsi la mattina e dire: “beh, non mi hanno fatto fuori.”

 

SR: Per illustrare questo punto, che le cose potrebbero andare peggio, tu racconti la storia di una madre il cui figlio muore poco dopo essersi sposato. Mentre la moglie è ancora in lutto la suocera dice: “Grazie a Dio è successo così e non diversamente!” La moglie a quel punto replica piena di furia: “Come osi dire così? Come potrebbe esserci un modo peggiore?” Ma la suocera risponde: “Beh, lo sai, se fosse diventato vecchio e tu lo avessi lasciato per un altro uomo e lui poi fosse morto, sarebbe stato peggio. Così è meglio che muoia adesso.”

 

ES: Esattamente. Si immaginano sempre gli scenari peggiori.

 

SR: È molto difficile capire se questo sia pessimismo o ottimismo. È per questo che è chiamato pessottimismo. Vuoi dire qualcosa a proposito dei codici attraverso i quali i palestinesi esistono e si riconoscono gli uni con gli altri – e a proposito dell’idea di ripetizione ed eccesso come modalità di esistenza?

 

ES: Fammi raccontare un’altra storia che ti spiegherà cosa intendo. Un mio caro amico venne a casa mia e rimase a dormire. La mattina facemmo colazione, che comprendeva yogurt, formaggio con un’erba aromatica speciale, lo za’atar. Questa combinazione probabilmente esiste in tutto il mondo arabo e sicuramente in Palestina, Siria e Libano. Ma il mio amico disse: “Ecco, vedi. È segno di una casa palestinese averci lo za’atar.” Essendo egli un poeta, si mise a pontificare sulla cucina palestinese, che è generalmente molto simile alla cucina libanese e siriana, e alla fine della mattinata eravamo entrambi convinti di avere una cucina nazionale totalmente distinta.

 

SR: Quindi, poiché un palestinese decide di fare una cosa diventa il modo di fare palestinese?

 

ES: Sì, esattamente. Ma anche tra palestinesi ci sono delle parole chiave che definiscono da quale campo o gruppo provenga chi parla – vuoi dal Fronte Popolare, che crede nella completa liberazione della Palestina, o da Fatah, che crede in un accordo negoziato.  Ambo le parti utilizzeranno un diverso insieme di parole quando parlano di liberazione nazionale. Poi ci sono gli accenti regionali. È sicuramente una sensazione molto strana incontrare un bambino palestinese in Libano, nato in un qualche campo profughi e che non è mai stato in Palestina ma che ha un’inflessione di Haifa, o di Giaffa nel suo arabo libanese.

 

SR: Torniamo all’idea di eccesso. Tu parli di come tu ti senta obbligato a portare troppi bagagli dovunque tu vada. Ma più seriamente, ricordo un dialogo tra un guerrigliero palestinese fatto prigioniero e un presentatore israeliano in cui il guerrigliero sembra autoaccusarsi dei crimini più efferati mentre in effetti ridicolizza l’intero evento eccedendo nello scusarsi. Il presentatore è troppo immerso nella propria mentalità per capire quello che sta succedendo.

 

ES: Sì, era nel 1982 nel sud del Libano, quando Israele mandava spesso in onda guerriglieri catturati, come forma di guerra psicologica. Ma nel caso di cui stiamo parlando, non venne ingannato nessuno. In realtà, i palestinesi a Beirut fecero una registrazione su cassetta dell’intera trasmissione e la mandavano in onda la sera come intrattenimento. Lasciate che ve ne traduca una parte:

 

Presentatore israeliano: Il suo nome?

Palestinese catturato: Ahmed Abdul Hamid Abu Site

Israeliano: Come si chiama il suo movimento?

Palestinese: Il mio movimento si chiama Abu Leil [che significa Padre della Notte, che sembra avere un che di minaccioso]

Israeliano: Mi racconti, signor Abu Leil, a quale organizzazione terrorista appartiene?

Palestinese: Appartengo al Fronte Popolare di Liberazione… Intendo del Terrorismo in Palestina.

Israeliano: E quando è stato coinvolto nell’organizzazione terroristica?

Palestinese: Quando sono diventato consapevole del terrorismo.

Israeliano: Qual era la sua missione nel Sud del Libano?

Palestinese: La mia missione era il terrorismo: In altre parole, entravamo nei villaggi e terrorizzavamo tutti gli occupanti. E se c’erano donne e bambini in particolare, terrorizzavamo tutti, e quello che facevamo era terrorismo.

Israeliano: E praticava terrorismo per una causa o solo per soldi?

Palestinese: No, solo per soldi. Quale causa è questa comunque? Esiste ancora una causa? Ci siamo venduti tanto tempo fa.

Israeliano: Mi dica– da dove prendono i soldi le organizzazioni terroristiche?

Palestinese: Da chiunque ha soldi in più da dare per il terrorismo.

Israeliano: Qual è la sua opinione sul terrorista Arafat?

Palestinese: Giuro che lui è il più terrorista di tutti. È quello che ha venduto noi e la nostra causa. Tutta la sua vita è terrorismo. [Sicuramente per un palestinese, questo potrebbe significare che è il più impegnato di tutti, ma suona come se li avesse completamente venduti]

Israeliano: Qual è la sua opinione sul modo in cui si sono comportate le forze israeliane?

Palestinese: Sul mio onore, ringraziamo le forze di difesa israeliane per il buon trattamento di ogni terrorista.

Israeliano: Ha qualche consiglio da dare a altri terroristi che stanno ancora terrorizzando e attaccando l’IDF, (forze di difesa israeliane)?

Palestinese: Il mio consiglio è di consegnare le armi all’IDF. Quello che troveranno è il miglior trattamento possibile.

Israeliano: Alla fine, signor Terrorista, le farebbe piacere mandare un messaggio alla sua famiglia?

Palestinese: Vorrei rassicurare la mia famiglia e i miei amici che sono in buona salute. Vorrei anche ringraziare l’emittente del nemico per avermi lasciato parlare così.

Israeliano: Intende la Voice of Israel?

Palestinese: Sì, sì, signore. Grazie, signore. Sì certo, signore.

 

SR: E questo messaggio è andato in onda?

 

ES: Assolutamente sì. Veniva mandato in onda tutti i giorni, registrato a Beirut e ri-trasmesso ai guerriglieri. È una storia molto buffa e bella nel contempo.

 

SR: Parli anche di un articolo illustrato in un giornale di moda, sotto il titolo “L’alta moda del terrorista”, che sostiene che i palestinesi non sono realmente palestinesi perché si sono semplicemente appropriati dei costumi arabi e li hanno chiamati palestinesi.

 

ES: Lo facciamo tutto il tempo!

 

SR: L’articolo afferma anche che questo presunto abbigliamento caratteristico non sia quello della gente comune bensì quello della classe medio-alta. Facendo riferimento all’autrice dell’articolo, Sharon Churcher, tu scrivi: “Considerando la questione in un senso ampio…  si tratta di una persona che fa un lavoro da scribacchina su una rivista di moda da strapazzo.” Eppure, dici che bisogna andare proprio alle origini, a spiegare tutta la storia della Palestina in modo da smentire le bugie di Sharon Churcher e dimostrare che si tratta proprio un vestito popolare palestinese genuino. Non è che questa necessità di ritornare ripetutamente sulla stessa storia dopo un po’ ti logora?

 

ES: Sì, ti stanca, ma lo fai lo stesso.  È come cercare di trovare il momento magico quando tutto comincia, come nel tuo romanzo Midnight’s Children. Sai di quale mezzanotte parli, e quindi  ci ritorni sempre.  Ma è molto difficile farlo perché devi ricostruire tutto e superare molte domande sulla stampa quotidiana sul perché i palestinesi non stanno semplicemente dove sono e non la smettono di causare problemi. Questo ti costringe a lanciarti subito in tremende arringhe, mentre spieghi alle persone: “Mia madre è nata a Nazareth, mio padre è nato a Gerusalemme…” L’interessante è che sembra che non esista niente al mondo che possa dare sostegno alla storia: a meno che non la si continui a raccontare, non potrà che cadere e scomparire.

 

SR: Hanno bisogno di sentirselo dire continuamente.

 

ES: Esattamente. Le altre narrazioni hanno una sorta di permanenza o esistenza istituzionale e bisogna solo provare a smontarle.

 

SR: Questa è una cosa che tu critichi dall’interno della “palestinesità”: la mancanza di un qualsiasi serio sforzo di istituzionalizzare la storia, di darci un’esistenza oggettiva.

 

ES: Questo è vero.  È interessante che fino proprio al ’48, gran parte degli scritti di palestinesi esprimevano la paura di essere sul punto di perdere la loro terra. Le loro descrizioni di città e di altri posti in Palestina sembravano essere una supplica davanti a un tribunale. Dopo la dispersione dei palestinesi però, c’è stato un curioso periodo di silenzio fino a che una nuova letteratura palestinese ha cominciato a svilupparsi negli anni ’50, e soprattutto negli anni ’60. Data la dimensione di questo risultato, è strano che nessuna narrazione della storia palestinese sia mai stata istituzionalizzata in un capolavoro definitivo. Sembra che non ci sia mai abbastanza tempo, e si ha sempre l’impressione che il proprio nemico– in questo caso gli israeliani – stiano tentando di portarsi via gli archivi. L’immagine più grave per me del 1982 è stata quella degli israeliani che spedivano gli archivi del Centro di Ricerca Palestinese di Beirut a Tel Aviv.

 

SR: Nel contesto della letteratura piuttosto che della storia, tu sostieni che l’inadeguatezza della narrativa è dovuta alla discontinuità dell’esistenza palestinese. Ciò è connesso ai problemi inerenti alla scrittura storiografica?

 

ES: Sì. Ci sono molti tipi differenti di esperienza palestinese, che non possono essere raccolti in un’unica narrazione. Uno allora dovrebbe scrivere storie parallele delle comunità in Libano, nei Territori Occupati e così via. Questo è il problema centrale. È quasi impossibile immaginare una singola narrazione: dovrebbe essere del tipo della folle storia che viene fuori in Midnight’s Children, con tutti quei fili che vanno e vengono, intrecciandosi dentro e fuori.

 

SR: Sì, in effetti è pieno di bugie! Hai parlato del romanzo che ha un protagonista tuo omonimo, The Pessoptimist [Ndt: La vita segreta di Said, il pessottimista; l’omonimia è tra Edward Said e  Saeed il protagonista del libro di Habibi], come un primo tentativo di scrivere in una forma che sembra essere senza forma, e che nei fatti rispecchia l’instabilità della situazione. Potresti dire qualcosa di più su di questo?

 

ES: È un punto di vista abbastanza eccentrico, forse. Io non sono uno studioso di letteratura palestinese e certamente non di quella araba in generale. Ma sono affascinato dall’impressione che ha fatto su di tutti, per esempio, il romanzo di Kanafani Men in the Sun, la cui trama esemplifica l’incertezza: non si sa se si stia parlando del passato o del presente. Una delle sue storie intitolata, mi sembra, “The Return to Haifa”, segue una famiglia espulsa nel 1948 e trasferitasi a Ramallah. Molto più tardi tornano a visitare la loro casa di Haifa, e a incontrare nuovamente il loro figlio che, in preda al panico, avevano accidentalmente lasciato lì e che era stato adottato da una famiglia israeliana. In tutto il romanzo c’è un potente senso di movimento temporale senza fine, in cui passato, presente e futuro si intersecano senza un centro fisso.

 

SR: Forse adesso potremmo parlare della lunga discussione in After the Last Sky riguardo alla carenza di voci delle donne palestinesi. Tu scrivi: “E ancora, riconosco in questo un problema fondamentale – l’assenza cruciale delle donne. Con poche eccezioni, le donne sembrano aver svolto poco più del ruolo del trattino, connettore, transizione, mero incidente. A meno a che non siamo capaci a percepire nella nostra vita le affermazioni che le donne fanno – concrete, attente, compassionevoli, immensamente intense, stranamente invulnerabili – non comprenderemo mai pienamente la nostra esperienza di esproprio. L’esempio principale che allora dai è il film The Fertile Memory, del giovane regista Michel Kleifi, che tratta l’esperienza di due donne palestinesi.

 

ES: Sì. Il film mi ha fatto un’impressione molto forte. Una delle scene che mi ha colpito di più ruota attorno alla donna più anziana, che è in realtà la zia di Kleifi. Possiede un terreno con un immobile a Nazareth in cui vive una famiglia ebrea da molti anni, ma un giorno arrivano sua figlia e il genero con la notizia che adesso la famiglia vuole comprare l’atto di proprietà. Lei mette in chiaro di non essere interessata. “Ma cosa intendi?” continuano ad insistere. “Ci stanno vivendo, è la loro terra. Vogliono solo rendere le cose più facili per te dandoti il denaro in cambio dei diritti.” “No, non lo farò” risponde l’anziana.  È una posizione totalmente irrazionale, e Kleifi registra l’espressione di caparbietà, quasi di trascendente stupidità, sulla sua faccia. “Non ho la terra adesso,” lei spiega. “Ma chissà cosa succederà? Noi eravamo qui per primi. Poi sono arrivati gli ebrei e altri arriveranno dopo di loro. Io possiedo la terra e io morirò, ma resterà lì malgrado l’andirivieni delle persone.” Allora la portano a vedere la sua terra per la prima volta – le era stata lasciata dal marito, che andò in Libano nel 1948 e vi morì. Kleifi riprende la straordinaria esperienza del camminare sulla terra che è sua ma non possiede, procedendo delicatamente e girando in tondo ripetutamente. Poi improvvisamente la sua espressione cambia quando capisce a fondo  l’assurdità e se ne va. La scena rappresenta per me la persistenza della presenza della donna nella vita palestinese – e, allo stesso tempo, il mancato riconoscimento riservato a tale presenza. C’è una forte traccia misogina nella società araba: una specie di paura e avversione a fianco del rispetto e dell’ammirazione per la donna. Ricordo un’altra occasione in cui stavo guardando insieme ad un amico una fotografia di una donna palestinese abbastanza grassa ed eccezionale, ma felice, le braccia conserte sul petto. L’amico sintetizzò tutta l’ambivalenza con questo commento: “Ecco la donna palestinese, in tutta la sua forza …e la sua bruttezza.” La fotografia di questa donna, nello scatto di Jean Mohr, sembra dire qualcosa che non siamo riusciti a esprimere. Quell’esperienza è una, che io, come uomo, in questo caos palestinese, sto cominciando a cercare di articolare.

 

SR: In After the Last Sky affermi che, essendo vissuto all’interno della cultura occidentale per tanto tempo, sei in grado di capire più di un qualsiasi non ebreo qual è la forza del sionismo per il popolo ebraico. Lo descrivi anche come un programma di acquisizione lento e costante,  più efficiente e competente di qualsiasi cosa che i palestinesi siano riusciti a contrapporgli. Il problema è che ogni tentativo di critica al sionismo si confronta, soprattutto al mondo d’oggi, con l’accusa che si tratti di antisemitismo mascherato. Replicando di non essere antisemiti bensì antisionisti sempre, o spesso, si viene accolti con “Oh sì, certo, quel codice lo conosciamo.” Ciò che hai fatto in questo libro e in The Question of Palestine è di offrire una utilisima critica, emotivamente neutra, del sionismo come fenomeno storico.  Magari potresti dire qualche parola a questo proposito.

 

SR: Secondo me, la questione del sionismo è il punto nodale del giudizio politico contemporaneo. Molte persone che sono contente di attaccare l’apartheid o l’intervento USA in America Centrale non sono pronte a parlare di sionismo e di quello che ha fatto ai palestinesi. Essere vittima delle vittime presenta difficoltà abbastanza inusuali. Perché se provi a fare i conti con la vittima classica di tutti i tempi – l’ebreo e il suo movimento – allora dipingere se stessi come vittime dell’ebreo diventa una commedia degna di uno dei tuoi romanzi. Ma adesso c’è una nuova dimensione, come possiamo vedere dall’ondata di libri e articoli in cui qualsiasi tipo di critica a Israele viene trattata come un ombrello per l’antisemitismo. Particolarmente negli Stati Uniti, se dici qualsiasi cosa, in quanto arabo di cultura musulmana, sei visto come sostenitore del classico antisemitismo europeo o occidentale. È diventato quindi assolutamente necessario concentrarsi sulla storia e sul contesto particolari del sionismo nel discutere cosa esso rappresenta per i palestinesi.

 

SR: Il problema, allora, e far vedere alla gente il sionismo come qualsiasi altro fenomeno storico, come nasce da determinate origini e poi in che direzione va. Pensi che il sionismo abbia cambiato la sua natura negli ultimi anni, a parte il fatto che è diventato oggetto di critiche?

 

ES: Ciò che mi sta a cuore è la misura in cui le persone non siano fisse in atteggiamenti di divergenza e ostilità reciproca. Ho incontrato molti ebrei negli ultimi dieci anni che sono molto interessati ad una sorta di scambio, e gli eventi degli anni sessanta hanno creato una comunità significativa di ebrei che non si sentono a loro agio con i principi assoluti del sionismo. L’idea di attraversamento, o del passare da un’identità ad un’altra, è estremamente importante per me, che sono –come tutti siamo – una sorta di ibrido.

 

SR: Vorrei farti un paio di domande più personali prima di aprire il dibattito con il pubblico. Tu sostieni che essere palestinese significa fondamentalmente provenire da una cultura musulmana, eppure tu non sei musulmano. Credi che questo costituisca un problema? Ci sono stati attriti  storici a questo riguardo?

 

ES: Tutto quello che posso dire è di non avere esperienza diretta di tali attriti. La mia sensazione è che la nostra situazione come palestinesi sia molto differente da quella del Libano, dove conflitti tra sunniti, sciiti, maroniti, ortodossi e così via sono stati  avvertiti storicamente con maggiore forza. Una delle virtù dell’essere palestinese è che ti insegna a percepire la tua particolarità in un modo nuovo, non solo come problema ma anche come una sorta di dono. Sia nel mondo arabo che altrove, la società di massa del ventesimo secolo  ha impiegato tale potenza nel  distruggere l’identità che vale la pena mantenere viva questa specificità.

 

SR: Tu scrivi: “La stragrande maggioranza del nostro popolo è stufa delle disgrazie che ci hanno colpito, in parte per colpa nostra, in parte per colpa di chi ci espropria, in parte perché la nostra causa  è dotata di una sua specifica inefficacia,  cioè non è in grado né di mobilitare sufficientemente i nostri amici né di sconfiggere i nostri nemici. D’altro canto, non ho mai incontrato un palestinese così stanco di essere palestinese da rinunciare del tutto”

 

ES: Che bel modo di riassumere la cosa!

 

SR: Questo mi porta all’ultimo punto sul tuo libro After the Last Sky, che a differenza dai tuoi primi tre libri centrati sulla disputa tra le culture orientali e quelle occidentali, è molto di più focalizzato su di una disputa interna o dialettica al cuore della “palestinesità”. Dopo un periodo di estroversione, tu suggerisci, molti palestinesi stanno sperimentando un certo ripiegamento verso l’interno. Perché è così? Qual è stata la tua esperienza personale?

 

ES: Beh, molto ha a che fare con la disillusione. La maggior parte delle persone della mia generazione – e non posso veramente parlare al posto di altri – è cresciuta in un’atmosfera di sconforto. Ma poi alla fine degli anni sessanta e all’inizio dei settanta, mentre sorgeva un nuovo movimento dalle ceneri vi è stata la fusione tra un intenso entusiasmo e il fascino del romanticismo.  Sul piano materiale questa novità ha ottenuto molto poco: nessuna terra è stata liberata in quel periodo. In più l’entusiasmo della resistenza palestinese (come veniva chiamata in quel periodo) era costituito da un’atmosfera abbastanza pesante, facente parte del nazionalismo arabo – e in un modo ironico e straordinario – del boom petrolifero arabo. Adesso tutto questo comincia a crollare davanti ai nostri occhi, facendo strada ad un senso di disillusione come pure all’interrogarsi se sia mai stato proficuo e su come si avanti da qui. È per esprimere questo stato d’animo che ho scritto After The Last Sky. Le fotografie sono state un importante strumento per dimostrare che non stiamo parlando solo della nostra disillusione personale, ermetica. Perché i palestinesi sono diventati una specie di merce o bene pubblico, utile, per esempio, a spiegare il fenomeno del terrorismo. Mi sono ritrovato a scrivere dal punto di vista di qualcuno che alla fine è riuscito a collegare la parte di sé che era professore di inglese e la parte che viveva, nel suo piccolo, la vita della Palestina. Per fortuna Jean Mohr ha raccolto un grande archivio di fotografie dal tempo in cui lavorava per la Croce Rossa nel 1949. Ci siamo incontrati in una strana circostanza: lui stava mettendo insieme delle immagini e io stavo lavorando come consulente delle Nazioni Unite. Visto che non ci lasciavano scrivere quello che volevamo, ci siamo detti: “Scriviamo un libro e facciamolo a modo nostro.” Ciò ha rappresentato un impegno molto personale da entrambe le parti.

 

SR: La fotografia sulla copertina è effettivamente abbastanza straordinaria – un uomo con una specie di ragnatela sulla lente destra dei suoi occhiali. Come dire, è stato accecato da una pallottola in un occhio, ma ha imparato a conviverci. Continua a indossare gli occhiali…e continua a sorridere.

 

ES: Jean mi ha raccontato che l’uomo stava andando a trovare suo figlio, che era stato condannato all’ergastolo.

 

SR: Adesso vorrei aprire il dibattito al pubblico. Chi vuole fare la prima domanda?

 

Prima voce: Se e quando lei è invitato a parlare a un pubblico ebraico, cosa gli dice riguardo al futuro degli ebrei in Palestina?

 

ES: Mio Dio – che domanda potente è questa! Per me è molto difficile parlare del futuro di un altro popolo, che si sente di essere, in gran parte, molto diverso dagli arabi palestinesi. Ma l’esperienza palestinese, con tutta la sua inefficacia e perfino a volte la sua miseria, è una lotta per raggiungere una modalità di coesistenza. Nell’ultima generazione si è creato un grosso patto tra israeliani e palestinesi basato sulla paura. Lasciate che vi racconti una storia per dimostrarlo. Circa tre mesi fa ero ad una conferenza della Società Internazionale per la Psicologia Politica. Non so esattamente cosa ci facessi, ma sembrava che stessimo sperimentando come israeliani e palestinesi potrebbero parlarsi. Nella seconda parte di una discussione tra sei israeliani e sei palestinesi il tema era:” Quali sono gli ostacoli psicologici alla pace?” Ero affascinato dal fatto che gli israeliani – in netto contrasto con i palestinesi – io stesso compreso – erano apparsi fino a quel momento molto rilassati e spassionati dal punto di vista accademico. Era come se possedere la terra gli consentisse di essere responsabili di tutto, e quindi di assumere un’aria distaccata. Alla fine però, quando il moderatore ha domandato cosa vedessero come ostacoli alla pace, uno di loro mi ha quasi scioccato con la sua risposta, “Abbiamo paura dei palestinesi.” Non riuscivo a capirlo. Ecco uno studioso serio, strettamente legato al governo e all’esercito israeliano, che stava dicendo,”Abbiamo più paura dell’OLP che di tutti gli eserciti arabi.” Questa fissazione sui palestinesi e sull’OLP in particolare – una minoranza svantaggiata nel nostro stesso paese – aveva senso solo nei termini di un legame particolare che stiamo cominciando a comprendere solo adesso. Ma dicendo, “Abbiamo più paura dell’OLP che di tutti gli eserciti arabi”, stava facendo una dichiarazione, credo, su come lui vedeva il futuro.

 

Seconda voce: Vorrei proseguire chiedendole della natura del discorso sionista, che sembra essere diventato completamente istituzionalizzato in modo da escludere il discorso palestinese ogni volta che questo viene sollevato. Visto che la paura di un altro olocausto continua a sostenere questo blocco, come possiamo mai istituzionalizzare il discorso palestinese? E se non si possono cambiare le cose all’interno del discorso, non si possono cambiare nella realtà.

 

ES: È una domanda molto interessante e complicata, ma mi limiterò a fare due osservazioni. Oggi penso che molte persone – malgrado le fantasie selvagge di Meir Kahane – capiscano che non potrà veramente esserci un’opzione militare contro i palestinesi. Anche la guerra più catastrofica, la guerra come era stata probabilmente intesa nel 1982, non otterrà l’obliterazione del popolo palestinese. Da parte palestinese, a prescindere dalla retorica occasionale e dagli sfoghi emotivi, esiste una consapevolezza parallela  che gli ebrei non possono essere semplicemente rimandati in Europa o in qualsiasi altro luogo. Quindi, una peculiarità della situazione attuale è la grande attenzione dedicata al discorso o al campo della cultura e dell’ideologia, e su quali siano delle possibilità che si possa acquisire qualche risultato. D’altro canto, dobbiamo riconoscere che il potere militare e l’effettivo possesso di terreni sono forze reali nel mondo in cui viviamo. Il problema è come usare questa dimensione emotiva o dell’immaginazione per cambiare queste realtà. Bisognerà  sicuramente mobilitare il cinema, vari mezzi di associazione irregolari o non convenzionali e le organizzazioni politiche, perché altrimenti non vedo altro che una prospettiva piuttosto cupa per il futuro. Se lo stallo avrà mai fine, dobbiamo pensare in termini di un nuovo inizio di qualche tipo.

 

Terza voce: Il problema che io trovo è che quando qualcuno dice qualcosa a proposito della questione palestinese, ben presto si capisce che non ne sanno assolutamente niente e devi raccontargli tutte le storie che abbiamo sentito prima. Questo può essere molto frustrante, e non si sa mai da dove iniziare. Ha sviluppato un sistema con il quale si possa rispondere in maniera semplice?

 

ES: Purtroppo non esiste nessun sistema. Una volta avevo un parente che aveva un cartoncino su cui erano stampati due messaggi: su un lato, “La sua storia è molto commovente. La ringrazio, ma non posso dare un contributo”; sull’altro lato, “Ecco la storia e se vuoi sapere tutto…” Ma in realtà ogni sfida che vi si presenta richiede una narrazione nuova e differente della storia. L’esperienza più frustrante è il tipo di scambio che ho avuto con Cynthia Ozick sette o otto anni fa. In un numero speciale della rivista New Leader dedicato a Jimmy Carter e gli ebrei, la scrittrice aveva sostenuto essenzialmente che l’interesse di Carter verso i palestinesi dimostrava che lui era antisemita. Nel corso degli articoli aveva asserito qualcosa del tipo “Edward Said, per esempio, che professa di insegnare inglese alla Columbia University ed è membro di questo e quest’altro è regolarmente pagato per andare a Beirut per progettare l’uccisione di bambini israeliani innocenti.” Di solito non rispondo a tali assurdità, ma qualcuno portò queste accuse alla mia attenzione e mi sedetti e scrissi quello che pensavo essere una risposta intelligente. Mi sono concentrato sulla mia storia personale: Che la mia famiglia viveva a Beirut, che i miei viaggi non sono mai pagati, che vado lì per trovare la mia famiglia, e così di seguito. Una serie di smentite del racconto, se vuole. Su questa cosa lei scrisse una lettera dicendo: “Ah, così lui si paga il viaggio per andare a Beirut…!” Vede la scala del problema.

 

Quarta voce: Nel suo pensiero riguardo il cuore della questione palestinese, vede una competizione tra due storie, una che trova voce, ha un luogo e una realtà nella sua espressione, e una che è negata, o frammentata o difficile da localizzare? Stiamo parlando di due storie che confliggono, con Realpolitik e il dispiegamento di forze come unica soluzione?  O c’è anche una dimensione morale, una questione di giustizia che è rilevante in materia? E se sì, come può essere espressa? Come si può intervenire sugli eventi?

 

ES: Sono fortemente convinto che esista giustizia ed ingiustizia. La maggior parte dei sionisti dichiarati o impegnati trovano molto difficile rispondere a questo livello e generalmente non dice niente a tale proposito. Riguardo al dove stia la giustizia, non credo che la faccenda possa essere semplicemente liquidata chiedendo: ”Vorresti che lo facessero a te?” L’altro modo di esprimerlo sarebbe dire: “Se tu non vedi la giustizia e l’ingiustizia, allora stai da una parte o dall’altra.” Uno dei grandi problemi dell’esperienza palestinese è precisamente che la sua giustizia e la sua verità non sono state riconosciute come tali. In quella conferenza di cui parlavo prima uno dei palestinesi ha improvvisamente detto agli israeliani: “Guardate, quello che sembrate non capire è che malgrado io sia di Haifa, e la mia famiglia l’abbia lasciata nel 1948, non rivoglio veramente la mia casa. Ve lo posso dire. Ma quello che io voglio da voi è un segno che voi mi avete fatto un torto.” C’era parecchia confusione, ma in modo curioso, tutti avevamo bisogno di un riconoscimento, forse perfino un atto di espiazione. Diversamente da altri che hanno subito l’esperienza coloniale, i palestinesi non sentono principalmente di essere stati sfruttati bensì di essere stati esclusi, che gli è stato negato il diritto di avere una propria storia. Quando senti in continuazione: “Beh, chi siete, comunque?”, devi continuare ad asserire il fatto di avere una storia, quantunque la cosa possa non apparire interessante in un mondo tanto sofisticato come il nostro. Prendete quel libro stupefacente di Joan Peters che è uscito un paio di anni fa. La sua argomentazione principale era: “Per cominciare, non erano lì; sono arrivati soltanto perché c’erano insediamenti in Palestina nel 1946 e nel 1948. Quando hanno dovuto andarsene non erano dei profughi, sono tutti tornati da dove erano venuti.” Non è solo la verità storica che è stata costantemente negata, ma proprio la stessa esistenza della ferita, il fatto stesso dell’ingiustizia.

 

Per rispondere alla sua domanda, non credo che si tratti solo una questione di due storie che si contrappongono. L’intera essenza è che, nonostante tutte le sofferenze degli ebrei in Europa, quella storia è stata intenzionalmente trasportata in Palestina, tramite un esproprio consapevole, uno sfollamento e un trasferimento di un’altra popolazione. Si potrebbe dire che questo era inevitabile, che non c’era un’altra soluzione, ma anche allora parecchie persone nella comunità ebraica la videro come un’ingiustizia. La visione classica, e dal mio punto di vista, liberale, di uno scontro tra due diritti, non fa molto per affrontare la situazione. Questo perché c’è alla base una irriducibile ingiustizia, veramente profonda per la quale la parte ferita ha bisogno di ricevere riconoscimento istituzionale. Forse potrei ricordare in questo contesto il libro di Edward Thompson, padre di E.P. Thompson, The Other Side of the Medal, pubblicato nel 1926. Parlando dell’India, descrive le differenti versioni della storia che si sono sviluppate in India e in Gran Bretagna: l’Ammutinamento del 1857, per esempio, è stato un esempio di giusta ribellione per una parte e lo scoppio di orribili efferatezze dall’altra. Verso la fine di questo piccolo libro Thompson scrive quasi di passaggio: “Quello che serve adesso agli inglesi è un atto di espiazione per quello che abbiamo fatto.” Questo mi ha colpito come un’idea profonda, che si applica in altri contesti dove la parte che detiene il potere ha vietato certe cose alla parte che ne è privo, o ha relativamente meno potere.

 

Quinta voce: Concesso che ci sia una sensazione di ingiustizia, secondo lei è più o meno ampiamente riconosciuto tra gli ebrei che in passato? Può darsi che le cose siano diverse in America o nell’Occidente, ma in Israele stesso la tendenza sembra essere nella direzione opposta. Sempre meno persone sono disposte a dare il giusto riconoscimento al senso del torto subito.

 

ES: Lei potrebbe benissimo avere ragione, però io posso solo giudicare da quello che leggo e sento della situazione in Israele. D’altra parte, negli ultimi anni sono emerse un certo numero di persone che mi stupiscono per la loro schiettezza, e se questo sia il segno di una tendenza in diminuzione o in declino dovrebbe dare una certa base di incoraggiamento. Probabilmente il nocciolo della questione è il sostegno senza precedenti che gli Stati Uniti elargiscono a Israele – l’equivalente morale di un assegno in bianco per fare quello che vuole. Quando un altro paese riceve assistenza è sempre per uno scopo particolare –  per esempio l’acquisto di grano – e alla fine i beneficiari devono mostrare tutte le ricevute del caso. Ma nel caso di Israele viene semplicemente catalogato come “supporto di bilancio” all’economia in generale. Thomas Dine, capo dell’American-Israel Public Affairs Committee, (AIPAC), ha recentemente tenuto una conferenza all’assemblea annuale in cui ha detto più o meno che la sua è oggi la più potente lobby negli Stati Uniti. Per un nonnulla, può portare l’intero Congresso a votare ancora più sostegno per Israele. Si è pure vantato: “ È l’unico paese in cui l’assistenza non è legata ad elementi specifici”. Questo fa calare una nuvola su tutta la questione palestinese. Ma potreste restare stupiti dagli ultimi segni di cambiamento, espressi nei sondaggi di opinione e in altri modi. Quando si fa appello alle persone in un modo semplice e diretto, sono spesso capaci di vedere sotto la superficie. Non sono un politologo, né ho visioni di una soluzione semplice, ma è necessario registrare i cambiamenti quando avvengono sulla lunga strada che indubbiamente è davanti a noi.

 

Sesta voce: Negli Stati Uniti, sembra che l’invasione del Libano nel 1982 abbia dato alla stampa più libertà di quella che aveva prima di scrivere delle attività del governo israeliano. Ma negli ultimi quattro anni la porta si è nuovamente chiusa. Come lo spiega?

 

ES: Lo vedo come una specie di compenso per controbilanciare le cose molto brutte che erano state momentaneamente rivelate alla televisione riguardo a Israele e all’invasione del Libano. Già nell’anno accademico 1982-83 c’era una specie di baraccone itinerante, messo in piedi da una delle grandi organizzazioni ebraiche, che andava da campus a campus proiettando un film intitolato NBC versus the Jews – un tentativo di provare, sulla base delle riprese dell’estate del 1982, quanto la NBC stravolgesse le notizie per mostrare gli ebrei nella peggior luce possibile. A questo  cannoneggiamento iniziale è seguita la ripetizione di vecchi riferimenti alla tradizione giudaico-cristiana sempre più contrapposta al fondamentalismo islamico, al terrorismo e così di seguito. La mia impressione è che fuggissero a gambe levate per la paura e dovessero sbattere la porta dietro di sé in fretta e furia. Zuckerman, proprietario dell’ Atlantic Monthly, una volta liberale, e di US News and World Report, definì la linea da seguire in modo tipico, anche se insolitamente trasparente, dicendo, “Non voglio una parola di critica a Israele in nessuna delle mie pubblicazioni.” Eppure nessuna repressione di questo tipo può esaurire tutte le possibilità. Adesso è più facile per molti di noi andare in giro a  tenere conferenze – possiamo essere minacciati della perdita di arti o anche delle nostre vite, ma c’è un pubblico interessato.

 

Sesta (settima) voce: Quali sono le lezioni apprese dall’esperienza del 1976-1982, quando i palestinesi governavano virtualmente la parte occidentale di Beirut e il Libano meridionale, solo per essere mandati via nel modo in cui è avvenuto? Qual è la prossima fase dopo il fallimento di questo episodio di nazionalismo palestinese che è nato dopo il disastro del ‘67 ed è finito col disastro dell‘82?

 

ES: Non so veramente la risposta alla sua domanda.  Si sta producendo sicuramente un processo di frammentazione, come posso vedere negli Stati Uniti dove organizzazioni e associazioni palestinesi stanno cominciando a sgretolarsi.  Per molti versi questo si rispecchia anche nella persona dello stesso Yasser Arafat, una figura tragica e affascinante, paradossale e straordinariamente complessa. I media occidentali lo dipingono  come diretto autore di stragi, quel tipo di persona a cui si potrebbe chiedere, “Come ci si sente dopo aver ucciso cinquemila persone innocenti prima di colazione questa mattina?” Ma è una figura molto ricca, e la sua capacità di sopravvivenza è in qualche modo centrale all’esperienza palestinese. Continua ad andare avanti e ancora avanti – di nuovo la ripetizione! – con una notevole persistenza nell’obiettivo politico.  È vero che ha fatto qualche piccola alleanza con la Giordania, ma non ha mai funzionato e comunque non lo ha mai distolto dalla coerenza del  suo obiettivo che i palestinesi devono essere rappresentati ovunque e devono essere autorizzati a rappresentare se stessi. Per molti intellettuali palestinesi e la generazione più giovane, ciò che succede ad Arafat è un indice molto importante di quello che capiterà al resto di noi.

 

 

[1] Edward Said, On Palestinian Identity: A Conversation with Salman Rushdie, NLR I/160, November–December 1986. Print and electronic versions. Per gentile concessione della New Left Review, che la concede una tantum e in maniera non esclusiva. Traduzione italiana di Giorgio Canarutto.

[2] After The Last Sky, Faber and Faber, Londra 1986. La discussione qui riportata ha avuto luogo all’Istituto per le arti contemporanee a Londra nel 1986.

[3] Dalla poesia “The Twenty Impossibles”, di Tawfiq Zayyad.

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

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