TEATRO E MULTICULTURALISMO IN USA- Intervista a Robert Brustein

images-37

TEATRO E MULTICULTURALISMO IN USA

 

Robert Brustein, una delle voci più autorevoli e rappresentative che da anni riflettono sulla funzione del teatro negli Stati Uniti, recentemente è insorta contro il “mul­ticulturalismo” e ogni ulteriore condi­zionamento, da parte della politica, per rivendicare l’autonomia e l’indipenden­za del teatro secondo principi di qua­lità. Nel suo ultimo libro ‘Dumbocracy in America’ analizza il fenomeno del movimento multiculturale e i pericoli di abbassamento in qualità del livello tea­trale che ne derivano. Rischiando di essere tacciato di “conservatorismo , “elitismo” o peggio. Eppure il multicul­turalismo parte da un’istanza di pari dignità e affermazione delle varie istan­ze etniche che compongono la società americana. Perché ha sentito il biso­gno, come critico teatrale, di interveni­re sull’argomento?

 

In quanto critico, direttore artistico di una Compagnia teatrale e professore universitario, ho voluto analizzare questo movimento del multi- culturalismo perché mi tocca quotidianamente da vicino e mi ferisce. Perché è stato portato alla sua dimensione estrema negli ultimi anni. Questo concetto, peraltro strettamente legato all’idea di Politically Correct, ha influenzato in maniera consistente, in alcuni casi distorto, il modo di interpretare oggi la letteratura, il teatro, la società, la cultura, il nostro stesso passato. Ho pensato che dovevamo rientrare in possesso della ragione, esaminare il discorso con un po’ più di distacco e lucidità. Per fare questo, ho dovuto scrivere. Da tempo al sistema culturale americano si chiede soprattutto di farsi carico di gravi disfunzioni politiche e sociali; e ciò ha radicalmente alterato il modo con cui guardiamo le arti: A parte alcune significative eccezioni gran parte delle risorse private, a Maggior ragione se sono pubbliche (perché orientate da una continua e assillante necessità di raccolta del consenso) vengono convogliate, sot­to una crescente pressione populista, solo su quei progetti culturali che hanno un chiaro significato socio-politico. Prodigandosi in una sorta di dilagante filantropia coercitiva che deprime ogni autentico valore artistico. Accompa­gnando spesso il finanziamento con le istruzioni per l’uso sociale che se ne dovrà fare. E questo è francamente inaccettabile. Siamo arrivati ad episodi estremi per cui straordinari attori, dotati di vero talento, sono stati allontanati per essere sostituiti con una ridistribuzione politicamente corretta delle parti.”

 

Crede che le istanze del movimento multiculturale lascerà dei segni durevo­li e significativi nel panorama del tea­tro. americano?

“A dir la verità non sono in grado di prevedere. Posso solo dire che le idee e le motivazioni del multiculturalismo e di ciò che, in questo momento, si intende per Politically Correct si sono originate negli anni Sessanta. E a quanto pare ogni trenta anni la nostra società è attraversata da una sua fase di estremismo. Negli anni ’30 c’era il marxismo, negli anni ’60 il radicalismo dei giova­ni. Tutti e due i movimenti iniziarono come un tentativo importante e certa­mente necessario per mettere fine ad un male preciso della società moderna. Il marxismo degli anni ’30 in America era una reazione alle grandi diseguaglianze prodotte del sistema capitalista. Ma poi il movimento si è evoluto in una forma estremista e pericolosa quale lo Stali­nismo. Negli anni ’60, il grande movi­mento studentesco sorto nei campus cercava di porre fine a una guerra ingiusta e atroce, quella del Vietnam. Anche quel movimento successivamen­te è diventato estremo e violento. Negli anni ’90 abbiamo dato nomi nuovi al radicalismo degli anni ’60, ma diversa­mente dagli altri movimenti, questo si e insediato nelle istituzioni, soprattutto nelle università. È un movimento che si diffonde da dentro verso fuori. Si può quasi parlare di una sorta di ostracismo cieco ed ottuso. Certo ancora oggi la società ameri­cana appare ossessionata dal tema del­la “razza”.

 

Come può il teatro stimola­re una riflessione importante su questo argomento senza finire sotto una pres­sione politica strumentale?

 

È una domanda importante. Il tea­tro purtroppo viene sempre più spesso usato da certi gruppi di minoranza estremi che, per motivi propagandisti­ci, finiscono col semplificare discorsi complessi. Oggi siamo entrati in fase di politica incentrata sul tema dell’i­dentità. Tutti sentono il bisogno incoercibile di affermare le proprie ori­gini etniche o la propria razza. Siamo diventati gli Americani-Africani, gli Americani-Lesbiche, gli Americani-Ebrei, gli Americani-Irlandesi, e via di seguito. Se ne può fare una lista inter­minabile, che rasenta il grottesco. Mi pare che questo paese funzionasse meglio quando eravamo semplicemente tutti Americani, senza distinguere fra gruppi etnici o razze. Purtroppo, in passato, la nostra è stata una storia di grande discriminazione e politica razzi­sta del genere più grave. Tale storia ha dato origine ad una specie di senso di colpa universalizzato. Quindi, quando la reazione al razzismo assume aspetti e sí manifesta in modi estremi. Produce il teatro del “vittimismo” e del “colpevolismo” più superficiale. Io mi oppongo anche ad alta voce a questo genere di teatro e spero che faccia altrettanto il pubblico americano.”

Quando lei dice “produrre un gran­de teatro”, cosa intende?

 

“Si può definire grande teatro solo rispetto a grandi artisti. Sono loro a produrre il grande teatro. È difficile sapere che cosa diventa grande in teatro, ma credo di poterlo riconoscere quando lo vedo. In America lo vedo in O’Neill, in Italia in Pirandello e Dario Fo, in Francia in Molière, in Russia in Cecov, in Inghilterra in Shakespeare. Certo, questi sono solo i più grandi. Producono un grande teatro anche per­ché trattano grandi temi; temi da cui non sono stato escluso semplicemente perché non faccio parte di. un determi­nato paese o classe sociale. Trattano temi universali, che certamente prevedono anche la storia di un paese e testi­moniano l’esistenza dei conflitti fra le classi sociali. È. un teatro di inclusione. Martin Luther King sognava una società basata sull’inclusione. Non sul separatismo. Ha capito che il “problema nero” era soprattutto un “problema americano”. Adesso assistiamo ad un enorme movimento interamente dedito alla separazione. Molte minoranze america­ne chiedono una maggiore inclusione ed integrazione nella società e, allo stesso tempo, fanno di tutto per dare enfasi alle differenze. Immaginano di esistere solo grazie alle differenze. Oltre a produrre una visione limitata, riduttiva di sé stessi, è il loro un vero e proprio paradosso. Un paradosso che non può esistere che in America, paese dei paradossi per antonomasia. L’ironia è che il movimento multiculturalista finisce con l’auspicare un ritorno all’e­poca della segregazione quando c’erano fontanelle e ristoranti solo per neri. Oggi le Università offrono, con orgo­glio, agli studenti residence multicultu­rali. Non è la stessa cosa?

 

Ha menzionato i grandi autori di teatro. E i registi?

 

“Ci sono anche degli straordinari registi. Andrei Serban, per esempio, che, purtroppo, oggi lavora quasi esclusiva­mente in Europa, con regia per opere liriche. Robert Wilson è un visionario che ammiro molto. Bob McGrath, che questa stagione farà una regia di The Cabinet of Dr. Caligari all’American Repertory Theatre, è un regista brillante e creati­vo. Per quanto mi riguar­da i grandi registi sono coloro che sono in grado di utilizzare la magia e gli strumenti del palcosceni­co per creare effetti coin­volgenti e emozionanti. Anche se non solo loro la matrice dell’idea, quella spetta all’autore, sono quelli che riescono ad esprimere le grandi idee teatralmente. Il teatro americano, oggi, produce ancora nuove idee, fermenti e punti di vista, come fu per tutti gli anni ’60 e ’70 o corre semplicemente il rischio di riprodurre, in forma appena aggiornata i temi che aveva esplorato in quegli anni. Certo nuove idee vengono proposte anche oggi. Il dramma di Tony Kushner, Angels in America spinge il teatro in avanti. David Mamet è un altro autore di teatro che va contro corrente, mette un forte dubbio su tutto ciò che regge il con­cetto del Politically Correct. Ci vuole un certo coraggio.

 

Nel suo libro, parla dell’icona del male. Che cosa significa e che cosa rappresenta esattamente questa icona?

 

La storia dimostra che il Nazionali­smo, ogni nazionalismo, richiede un nemico esterno contro cui poter esprimere la sua aggressività. E anche come mezzo per mostrare la propria purezza e perfe­zione. Negli anni ’80 Ronald Reagan chiamò l’Unione Sovietica “L’Impero del Male”. Ci ha fatto sentire, qui in America, molto virtuosi, eravamo in opposizione a qualcosa di maligno. Ora, l’Unione Sovietica si è disintegrata, lasciandoci senza nemico, senza quell’icona del male che fa sentir buoni anche i peggiori. Oggi, i politici di destra hanno trovato all’inter­no del nostro paese “il male”: nei nostri artisti e intellettuali. E non solo i politici. Le donne sono contro gli uomini, gli ete­rosessuali contro gli omosessuali, ecc.; ognuno prima si identifica nella piccola cerchia e poi si dispone ferocemente ad essere contro tutti gli altri. Ma non sono veri conflitti.”

 

Franco Fortini scrisse una volta: non esistono vittime innocenti.

 

“Sì Ibsen esprime un’idea molto simile. La persona che sempre incolpa qual­cun altro, non è del tutto privo di colpa. Gli eroi di Ibsen devono assumere in par­te la responsabilità per ciò che gli è capi­tato. Il conflitto viene sempre rappresen­tato in tutta la sua complessità. Ciò che mi preoccupa di più è il modo conformista con cui oggi si fa il teatro. Manca l’approccio individualisti­co. È difficile trovare dei cervelli vera­mente indipendenti. Questo mi spaventa. Il teatro richiede coraggio e oggi manca il coraggio. Il coraggio di scioccare il pub­blico, offrire qualcosa di diverso e auten­ticamente inquietante, di dire la verità. Ciò che manca nel nostro teatro è la capa­cità di dire la verità.

 

 Che speranza per il futuro americano?

 

La speranza può venire solo dai gio­vani; che i loro cervelli non siano stati corrotti interamente dall’insegnamento che ricevono. L’insegnamento nelle scuole medie e superiori, nonché l’Università, qui è davvero povero. Alcuni corsi sono assurdi. Gli studenti sono quelli che soffrono di più a causa di questo movimento del ‘politically correct’. Spero solo che maturino convinzioni auto­nome e uno spirito di ribellione capace di resistere a questa influenza negativa. Cioè, che siano in grado di sviluppare una corazza anti-cazzate’. Nessuno ha più il coraggio o la con­fidenza di protestare. Questo senso di colpa non produce un grande teatro.”

 

Questa intervista è  già apparsa sulla rivista Sipario, che ringraziamo vivamente.

Riguardo il macchinista

Walter Valeri

Walter Valeri poeta, scrittore e drammaturgo è stato assistente del premio Nobel Dario Fo e Franca Rame dal 1980 al 1995. Ha fondato il Cantiere Internazionale Teatro Giovani di Forlì nel 1999. Successivamente ha diretto il festival internazionale di poesia Il Porto dei Poeti a Cesenatico nel 2008 e L’Orecchio di Dioniso a Forli' nel 2016. Ha tradotto vari testi di poesia, prosa e teatro. Opere recenti Ora settima (terza edizione, Il Ponte Vecchio, 2014) Biting The Sun ( Boston Haiku Society, 2014), Haiku: Il mio nome/My name (qudu edizioni, 2015) Parodie del buio (Il Ponte Vecchio, 2017) Arlecchino e il profumo dei soldi (Il Ponte Vecchio, 2018) Il Dario Furioso (Il Ponte Vecchio, 2020). Collabora alle riviste internazionali Teatri delle diversità, Sipario, lamacchinasognante.com Dal 2020 dirige i progetti speciali del Museo Internazionale della Maschera “Amleto e Donato Sartori”. È membro della direzione del prestigioso Poets’ Theatre di Cambridge (USA).

Pagina archivio del macchinista