La farsa come specchio della politica borghese: MORTE ACCIDENTALE DI UN ANARCHICO – Pina Piccolo

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– Il Matto … Allora, come diceva Totò in una vecchia farsa, il questore in questura a quest’ora non c’era …

Questa battuta, pronunciata sardonicamente da Il Matto in Morte accidentale di un anarchico di Dario Fo, offre un microcosmo delle fonti del comico utilizzate dal drammaturgo. Sia che si tratti di un monologo polifonico della tipologia “giullarata” come, ad esempio Mistero buffo, sia che si tratti di una farsa, come Morte accidentale di un anarchico, Dario Fo esegue un sapiente dosaggio e miscelazione di forme diverse della tradizione comica popolare quali la farsa, il varietà, le tecniche di narrazione dei fabulatori orali, la beffa, tutte tecniche che si combinano per produrre un’opera teatrale votata alla demistificazione.

In questo articolo ci concentreremo sul trattamento innovativo della farsa tradizionale da parte di Fo, prendendo come spunto la sua opera Morte accidentale e collegando le soluzioni estetiche scelte dal drammaturgo al suo obiettivo politico di demistificazione del potere.

Partendo dal concetto che la forma del monologo polifonico è la migliore per veicolare la demistificazione del punto di vista, per Fo la farsa è lo strumento che meglio si presta alla rappresentazione e ‘ricreazione’ dei tempi e del ritmo della politica delle classi dirigenti contemporanee. Con i suoi ritmi accelerati, la sua inclinazione all’inganno come modus operandi, la sua libertà di movimento svincolata dalle esigenze di una logica rigorosa, la farsa è la struttura perfetta per mimare il dispiegarsi dell’odierna politica di repressione, delle alleanze borghesi, della rete di mistificazioni messa in campo da chi detiene il potere allo scopo di mantenere la propria legittimità. 

Una prima analisi dell’opera rivela la sua struttura a scatole cinesi collegate tra di loro e governate dalla dialettica tra inganno e scoperta/smascheramento. Racchiuso in tale struttura, il comico si scatena in vari modi: attraverso bruschi cambiamenti di punto di vista, i ribaltamenti carnevaleschi, la parodia, le fratture nella comunicazione dovute agli incroci consapevoli o meno tra i livelli e piani di inganno, le ‘botta e risposta’ basate sul risveglio di metafore sopite, le gag e così via. Paradossalmente, alla farsa, portabandiera della finzione teatrale, è affidato il compito di separare il vero dal falso.

La farsa: meccanismi e demistificazione

Il legame tra farsa e politica è stato evidenziato da Karl Marx ne Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte: Marx, riferendosi alle ripetizioni della storia, diceva che quando la storia si ripete due volte, la prima volta è tragedia, la seconda farsa. Fo inverte quest’ordine cronologico a due livelli di realtà: nella vita reale la politica borghese provoca la tragedia per gli oppressi (come nel caso dell’anarchico Pinelli), ma il palcoscenico deve ricrearla come farsa per demistificare il potere e suscitare nel pubblico la rabbia che porta all’azione politica. Infatti, per spiegare il suo trattamento grottesco di un evento tragico come la morte di Pinelli, Fo sostiene:

abbiamo preferito liberare lo spettatore dal timor panico del Potere, questo 007, questo gigante con i piedi di argilla…. Non vogliamo che lo spettatore vada a casa contento perché si è indignato abbastanza e si è liberato e ora è in pace con se stesso. Vogliamo capire con il pubblico cosa c’è sotto quella macchina, perché esiste, se ne abbiamo colpa noi, come si fa a combatterla. Vogliamo smontare a pezzi tutte le macchine del potere: verranno fuori costruzioni grottesche.[1]

Il potere definito come macchina si presta agevolmente ad essere rappresentato tramite la farsa, un genere teatrale che non nasconde affatto la propria natura di finzione con la pretesa di portare allo spettatore uno “spaccato di vita”, si tratta invece di un genere che proclama a gran voce la sua essenza di macchina teatrale. In quanto ‘costruzione’ essa può essere facilmente smontata, ed è quindi nella farsa che l’entusiasmo di Fo per la demistificazione trova lo strumento ideale.

Gli studi sulla farsa condotti da Bentley prima e da Jessica Milner-Davis in seguito, hanno sottolineato la dipendenza del genere dall’elemento meccanico, dagli automatismi, dalla ripetizione, dall’accumulo, dall’inversione e dalla simmetria. Secondo Milner-Davis, talmente prevedibile è la struttura di questa forma teatrale che si può facilmente delineare una tipologia del genere, classificandone le sottoforme in farse di umiliazione, farse di inganno, farse di inversione e così via.[2] Bentley sottolinea che le caratteristiche meccaniche della farsa inibiscono la funzione di critica sociale: il suo specchio distorto riflette un mondo “a immagine delle scimmie.” [3]

Questa obiezione è superata da Fo, che cerca il momento costruttivo non nella rappresentazione in sé, ma nel dibattito e nell’azione che essa riesce a suscitare. Per il drammaturgo, la farsa può essere un’arma di critica che prepara il terreno per l’azione politica.

A differenza di Bentley, Fo sostiene che l’elemento di distorsione appartiene più alla realtà che alle idiosincrasie del genere. Nell’epoca in cui il capitalismo è arrivato alla sua fase di decadenza, quella dell’imperialismo, la storia con la “S” maiuscola ha perso ogni pretesa di maestosa dignità e decoro che caratterizza la tragedia;  si muove e si evolve invece a ritmo poco dignitoso, rigido e a scatti, cioè con l’andamento disarticolato della farsa. A differenza del periodo descritto da Marx, nell’epoca attuale non ci sono Napoleoni a conferire una dimensione tragica alla politica borghese. Ci troviamo al cospetto del Questore di Morte accidentale, del Fanfani de Il Fanfani rapito e dell’Agnelli di Clacson, trombette e pernacchi, tutti personaggi che si prestano meravigliosamente alla farsa.

Inoltre, il paradigma meccanico, dettato dall’automatismo, che governa la farsa può essere applicato anche a coloro che nella vita reale fanno parte della macchina dello Stato. La personalità individuale, la creatività e la lealtà possono di quando in quando creare interferenze nel buon funzionamento dello Stato, ma in ultima analisi sono le esigenze di coloro che hanno creato il meccanismo a guidare o sacrificare il singolo burocrate o politico. Fo ricrea questa situazione in modo davvero efficace nella farsa Clacson, trombette e pernacchi (1981). Nella scena del rapimento di Moro e della decisione dello Stato di sacrificare una figura politica importante e fedele, Fo evidenzia con un “voltafaccia” come la situazione sarebbe stata diversa se fosse stato rapito Agnelli (il padrone dello Stato). In tal caso, i rigidi meccanismi dello Stato sarebbero andati in tilt e sarebbero state indubbiamente adottate misure più “flessibili”.

Quindi per Fo il genere minore e trascurato della farsa diventa lo specchio più adatto, che riflette, senza distorsione, il comportamento delle cerchie che detengono il potere: come loro non si fa scrupolo di camuffare e ingannare, come loro crea e segue macchine ingovernabili e automatismi.

L’anarchico: Atto I

Seguendo la prescrizione di Brecht di cantare i tempi bui quando i tempi sono tali, nel dicembre 1970 Dario Fo mise in scena la prima di Morte accidentale di un anarchico [4] (comunemente abbreviato L’anarchico). Gli eventi che ispirarono il testo di Fo, pur avendo un esito tragico, non erano meno farseschi della farsa stessa. Quasi esattamente un anno prima, il 12 dicembre 1969, un giovane ferroviere, Giuseppe Pinelli, membro di un circolo anarchico, morì precipitando “accidentalmente” dalla finestra del quarto piano della questura di Milano. Era stato arrestato tre giorni prima durante una retata su scala nazionale organizzata dalla polizia contro persone di  sinistra a seguito dell’attentato alla Banca Nazionale dell’Agricoltura di Milano. La bomba aveva provocato sedici morti e ottantotto feriti e le autorità ritenevano la sinistra e l’ala anarchica in particolare responsabili dell’atto. Così a migliaia di persone fermate per essere interrogate furono negate cauzione e assistenza legale, molte furono interrogate brutalmente e detenute ben oltre il limite di legge. Pinelli era tra questi, ma a differenza degli altri perse la vita in circostanze oscure.

La versione ufficiale della polizia sull'”incidente”, come pure quella dei principali organi della stampa, lo definirono un suicidio, una tacita ammissione di colpa da parte di Pinelli. Nonostante la dura repressione e i nuovi tentativi di insabbiamento e depistaggi vari, nel giro di un anno la sinistra, e in particolare la sua ala rivoluzionaria, riuscì a screditare la versione della polizia sulla morte dell’anarchico. Essa indicò i neofascisti come autori degli attentati e collegò il tutto a una strategia impiegata dalle forze di destra all’interno del governo e dell’esercito, la strategia della tensione. [5] 

L’anarchico non si presenta come una ricostruzione documentaria di questi eventi. Infatti, la struttura della trama attinge a piene mani da altri precedenti teatrali, in particolare da L’ispettore generale di Gogol. Da quell’opera Fo riprende la situazione di preoccupazione creata in una burocrazia colpevole dall’arrivo di un ispettore, ma a differenza di Gogol utilizza i meccanismi dell’inganno e della scoperta/smascheramento ai fini della controinformazione . Infatti, questa volta i rapporti di polizia autentici, con tutte le loro incongruenze e lacune, servono come base per il movimento della farsa. I personaggi della polizia sono modellati su autentici poliziotti e commissari coinvolti nei tentativi di insabbiamento del caso, tra i quali Luigi Calabresi nelle vesti del commissario Sportivo, mentre il personaggio della giornalista ricorda molto da vicino Camilla Cederna, la cronista che indagò sull’affare Pinelli per L’Espresso.

Il Matto, una versione moderna del Matto della tradizione, che è stato certificato pazzo dalle istituzioni dello Stato, è la forza dinamica che scatena la commedia. Come la maggior parte dei protagonisti di Fo, Il Matto è un misto tra il Furfante e il Jolly, un personaggio che usa le qualità dell’astuzia e del candore a seconda delle necessità per raggiungere l’obiettivo della demistificazione. Il continuo passaggio da una tipologia all’altra provoca disorientamento in chi cerca di mistificare. Il Matto gode di una libertà sfrenata nell’organizzare situazioni e colpi di scena, nello stringere e spostare alleanze con gli altri personaggi, nel trasformare il proprio personaggio per interpretare vari settori dello Stato.

La commedia inizia in questura, nell’ufficio dell’ispettore di polizia Bertozzo, che sta interrogando un indiziato accusato di essersi spacciato per psichiatra. Questa prima situazione è la più ampia e comprensiva delle scatole cinesi, quella che dà origine all’ilarità dell’ultima parte del secondo atto. Nel riferire a Bertozzo dettagli sul suo istrionismo, cioè sulla sua mania di impersonare personaggi diversi, Il Matto ricorre a procedure tipiche del realismo grottesco. [6] Come nei cataloghi e nelle serie originate dalla cultura carnevalesca, l’altamente eterogeneo si trova in posizione contigua quando Il Matto dice di aver impersonato un capitano dei bersaglieri, un ingegnere navale, un chirurgo e un vescovo.

Tuttavia, il suo sogno più grande rimane quello di interpretare il giudice. Gran parte della prima scena prepara il terreno per la figura del giudice che avrà un ruolo di primo piano in tutta la farsa. Nella sua descrizione dei giudici, Il Matto compie uno dei primi atti di demistificazione, cambiando il punto di vista. Dopo aver messo a confronto gli effetti deleteri della vecchiaia sull’operaio, sul cassiere di banca, sul minatore, tutti licenziati per cattiva salute o scarsa produttività, Il Matto descrive il giudice, l’unica persona a cui l’età conferisce la virtù della saggezza salomonica:

Vedi dei vecchietti di cartone tutti impaludati: cordoni, mantellini di ermellino a tubo con le righe d’oro che sembrano tante comparse del Fornaretto di Venezia, traballanti, con delle facce da tappi della val Gardena. .. con due paia d’occhiali legati con le catenelle, che se no li perdono… non si ricordano mai dove li hanno appoggiati. Ebbene ‘sti personaggi, hanno il potere di distruggere o salvare uno come e quando vogliono…. (144)

Qui la demistificazione si compie attraverso la degradazione: i paramenti anacronistici, volti a incutere soggezione verso le istituzioni della giustizia e a indicarne la continuità con il passato, sono degradati al rango di costumi indossati da comparse in una produzione amatoriale di una commedia minore, la fisionomia stessa della saggezza è paragonata al volto di un ubriacone di una valle poco gloriosa. La vecchiaia nei suoi difetti è messa in evidenza da due paia di occhiali tenuti da una catenella, ma qualsiasi moto di tenerezza  eventualmente evocato da una figura nonnesca è prontamente esorcizzata dall’accenno al fatto che “‘sti personaggi” (di nuovo un riferimento all’inganno del palcoscenico) sono responsabili della vita e della morte delle persone.

Il giudice compare nuovamente  in chiusura di scena, questa volta in una dimensione prevalentemente mimica. Congedato da un irascibile Bertozzo, Il Matto torna a reclamare le sue carte ma trova l’ufficio vuoto. Fruga in giro, smaltisce mandati e denunce, trova le deposizioni della polizia sul caso Pinelli e sta per andarsene quando, con precisione farsesca, squilla il telefono. Il Matto alza la cornetta e spinto dai suggerimenti del suo interlocutore afferma di essere un certo ispettore Anghiari di Roma. Dal commissario Sportivo, che gli telefona dall’ufficio in cui Pinelli è stato interrogato, apprende che il governo sta inviando un giudice istruttore per esaminare il caso dell’anarchico. Il Matto-Anghiari fa leva sui timori dell’Ispettore Sportivo dicendogli di conoscere il giudice del riesame, un antifascista, un ‘pugile’ della giustizia che aveva trascorso dieci anni confinato ai tempi di Mussolini. Dopo aver riattaccato, un entusiasta Matto si esercita a provare varianti diverse di contegno consono a un giudice “democratico”, che potrebbe incutere terrore nei cuori della polizia.

La seconda scena si apre utilizzando frammenti di inganno incrociati. Al telefono, Il Matto aveva ascoltato le provocazioni del commissario Sportivo che suggeriva che sia lui (Anghiari) che il suo collega Bertozzo non vedevano l’ora di vedere gli effetti nefasti che il giudice del riesame avrebbe avuto sulla sua carriera e su quella del suo capo, il Capo della Polizia che in passato era stato una guardia in una delle carceri di Mussolini. Il commissario  Sportivo si vendica dando un occhio nero al candido Bertozzo e poi, massaggiandosi il pugno, torna nel suo ufficio dove l’attende una figura misteriosa e severa, vestita di scuro che si interroga sull’origine di quell’azione meccanica: un tic, un segno di ipocrisia, un accenno di insicurezza, un senso di colpa? Infastidito dalla maleducazione dell’intruso, l’Ispettore Sportivo batte il pugno sul tavolo, suscitando la seguente reazione da parte de Il Matto.

MATTO: Impulsivo! Ecco la controprova! Dica la verità, non è un tic… lei ha dato un pugno a qualcuno non più di un quarto d’ora fa, confessi! (149)

Imitando i metodi polizieschi di interrogatorio e deduzione, Il Matto si basa su una breccia tra i livelli di inganno. Se nel precedente giro di inganni aveva incastrato il commissario Sportivo per colpire Bertozzo, ora al secondo giro, con la sua aura di esperto, cerca di impressionare il primo, approfittando del fatto che il commissario non conosce la sua identità dal primo giro. Presentandosi come giudice istruttore e chiedendo la piena collaborazione del commissario e del capo della polizia, cerca di aumentare l’ansia delle autorità colpevoli. Sempre utilizzando le stesse tecniche, Il Matto chiede se la polizia sapesse del suo arrivo. Il commissario nega e Il Matto gli fa notare la sua vena pulsante, un tic che opportunamente (in un genere che ama la meccanica) funge da macchina della verità e da ulteriore minaccia al tentativo di insabbiamento della polizia.

Questa seconda scatola di inganni verte principalmente sulle effettive versioni rese dalla polizia sulla morte di Pinelli. Il Matto disorienta i due poliziotti fingendosi alternativamente interessato a smascherare l’insabbiamento o a corroborare la loro storia. La demistificazione è ottenuta con mezzi diversi che vanno dai rovesciamenti carnevaleschi alle esplosioni di logica alla maniera del buon soldato Sc’vèik, metodi usati dal Matto per ripagarli con la loro stessa moneta. Secondo la prima versione dei fatti, l’anarchico sarebbe caduto in una crisi depressiva causata dalla prospettiva di perdere il lavoro e la reputazione. La polizia, usando uno dei suoi soliti trucchi per estorcere una confessione, aveva infatti sostenuto che il suo compagno e amico di Roma, l’anarchico Valpreda, aveva confessato di aver piazzato le bombe e quindi per lui non c’era scampo.

Il Matto, facendo leva sulla corda del giudice scrupoloso, prepara la beffa dicendo ai poliziotti che il governo aveva deciso di usarli come capro espiatorio per sedare un’opinione pubblica furiosa e scandalizzata dall’ovvio errore giudiziario rappresentato dalla morte di Pinelli. Di fronte alla prospettiva di perdere a loro volta il lavoro e la reputazione, come vittime della Ragion di Stato e come burattini intercambiabili di un meccanismo superiore, i due sono sconsolati. Ma come dimostra Il Matto, non basta la depressione psicologica per saltare dalla finestra del quarto piano. Infatti, mentre Il Matto li trascina con forza verso la finestra esortandoli a gettarsi e spingendoli, devono ammettere che è necessaria una forza esterna per compiere il salto.

Il più spettacolare dei rovesciamenti, tuttavia, si verifica quando il giudice, ormai giocando la carta della collaborazione, finge di aiutare i poliziotti a trovare una versione organica (una frecciatina alla fraseologia politica italiana), una versione plausibile degli eventi. Poiché secondo la seconda versione erano trascorse quattro ore tra l’annuncio della polizia della confessione di Valpreda e il salto, Il Matto riempie le quattro ore con i tentativi della polizia di tirare su di morale Pinelli. Spingendo al limite l’inversione carnevalesca, Il Matto induce i poliziotti a dichiarare di avere un debole per i ferrovieri  in quanto gli riportano alla memoria i trenini dell’infanzia, debole che eventualmente li  porta a cantare, in coro, l’inno degli anarchici per contribuire a migliorare l’umore di Pinelli.

Un altro metodo di lotta alla mistificazione praticato da Il Matto è quello di far esplodere la logica di chi detiene il potere. Mentre i poliziotti giustificano i loro gravi sospetti sull’implicazione di Pinelli in un precedente attentato alla stazione ferroviaria, Il Matto rovescia la loro logica:

QUESTORE – Però avevamo dei sospetti… Dal momento che l’indiziato era l’unico ferroviere anarchico di Milano… era facile sostenere che fosse lui…

MATTO – Certo, certo è lapalissiano dire ovvio. Così, se è indubbio che le bombe in ferrovia le abbia messe un ferroviere, possiamo anche argomentare di conseguenza che al palazzo di giustizia di Roma, quelle famose bombe le abbia messe un giudice, che al monumento al milite ignoto le abbia messe il comandante del corpo di guardia e che alla banca dell’agricoltura, la bomba sia stata messa da un banchiere o da un agrario a scelta. (152-53)

Nell’introduzione alla commedia Fo scrive che uno dei suoi principali obiettivi era quello di demistificare l’immagine di “mediatrice” dello Stato, il suo apparire al di sopra delle classi e da quella posizione regolare imparzialmente le loro rivendicazioni. Aderendo alla teoria leninista dello Stato come espressione dell’inconciliabilità degli interessi di classe, Fo si impegna ad affrontare la questione nel corso della farsa. In questo primo atto, lo fa facendo riferimento alla continuità tra lo Stato fascista e l’attuale Stato “democratico”. Il bersaglio è naturalmente il capo della polizia ed ex guardia fascista. Il Matto lo tiene costantemente in sospeso accennando alla sua identità. Dice che il suo volto è familiare, forse si sono incontrati al campo? Un luogo altamente improbabile per un capo della polizia. Più tardi, mentre conta le pagine della deposizione della polizia, dopo pagina “ventisette”,  si lascia significativamente sfuggire un ‘Ventotene’ (nome del luogo in cui il Capo era stato guardia carceraria), parlando degli anarchici di un tempo, quelli che venivano “cacciati da una terra all’altra”, gli chiede se aveva mai avuto esperienze con queste persone. Ricorrendo ancora una volta alla potenza delle reazioni meccaniche, Il Matto conclude una delle sue frasi con l’esortazione “A noi”, che viene prontamente ripetuta come slogan fascista dal Capo.

Oltre alla demistificazione degli eventi reali che precedono la morte di Pinelli, e più in generale del ruolo dello Stato, nel primo atto avviene anche la demistificazione del palcoscenico. La contiguità tra vita reale e teatro è invocata nel prologo, in cui Fo afferma che i fatti che verranno raccontati sono avvenuti negli Stati Uniti negli anni Trenta e hanno avuto come vittima un anarchico di nome Salsedo. Naturalmente, il pubblico non deve stupirsi se gli eventi raccontati presentano una certa somiglianza con i fatti accaduti a Milano perché:

qualora apparissero analogie con fatti e personaggi della cronaca nostrana, questo fenomeno è da imputarsi a quella imponderabile magia costante nel teatro che, in infinite occasioni, ha fatto sì che perfino storie pazzesche completamente inventate, si trovino ad essere a loro volta impunemente imitate dalla realtà! (141)

Questa trasposizione può essere interpretata in vari modi: come una salvaguardia dalla censura, e/o come un modo per sottolineare l’universalità del ruolo dello Stato, affinché la storia di Pinelli non venga interpretata solo come un errore giudiziario milanese.

Più avanti, nel corso del primo atto, si fa spesso riferimento ai travestimenti del teatro, agli stili di recitazione (la versione poliziesca della depressione di Pinelli viene criticata come troppo melodrammatica, degna dell’attrice Franca Bertini). Le deposizioni della polizia sono spesso definite da Il Matto come regie teatrali e sceneggiature, e nel ricostruire gli eventi invita i poliziotti a “recitare la parte”. Così l’inganno di un insabbiamento viene paragonato all’inganno e la finzione teatrale.

L’anarchico: Atto II

Nel secondo atto, dopo un inizio abbastanza tranquillo che si limita a proseguire gli sforzi del giudice e della polizia per arrivare a una versione plausibile, si susseguono, come fuochi d’artificio, grandi colpi di scena.

Un certo cambio di ritmo era forse stato segnalato dalla preponderanza di rapidi scambi ispirati al varietà nello smontare la versione della polizia. Ancora una volta è la logica dell’insabbiamento ad essere il bersaglio: Il Matto si chiede se il sole sia tramontato dopo mezzanotte, la notte del 12 dicembre, unica spiegazione per una finestra aperta nel freddo milanese. Alle rimostranze dei poliziotti, che sostengono che non faceva freddo e che la finestra era aperta a causa del fumo, risponde Il Matto:

MATTO – Ah sì? Quella sera il servizio metereologico ha dato per l’Italia temperature da far barbellare un orso bianco, e loro non avevano freddo, anzi… “primavera!” Ma che cosa avete: un monsone africano personale che passa di qui ogni notte, o è la “corrente del golfo” che vien su per il “tombone di san Marco” e vi passa sotto casa con le fogne?! (164)

Immagini di freddo estremo e di caldo estremo sono affiancate, così come immagini dell’esotico e del familiare, in un procedimento grottesco volto a smascherare una palese menzogna.

La sequenza che più si affida alle tecniche della varietà è forse la serie di scambi riguardanti la scarpa del misterioso anarchico, che sarebbe rimasta in mano a una guardia che aveva tentato di fermare il salto suicida dell’anarchico. Dal momento che Pinelli è atterrato con due scarpe, Il Matto cerca una serie di spiegazioni plausibili: (a) la guardia, con la celerità di Speedy Gonzales, aveva raggiunto l’anarchico che stava cadendo e gliela aveva infilata (b) lo stesso Pinelli aveva messo la scarpa mancante prima di arrivare a terra, (c) indossava le galosce.

La terza scatola degli inganni è costituita da un’interferenza esterna: il diabolus ex machina è una giornalista che arriva per intervistare il capo della polizia. Per risparmiare ai poliziotti l’imbarazzo di ammettere di essere indagati dal governo, Il Matto promette di cambiare personaggio e di aiutarli nel momento del bisogno contro la perspicace stampa. L’alleanza dei tre contro la giornalista, però, è problematica per la polizia perché il neo-capitano della polizia scientifica, Matto-Banzi-Piccinni, con tanto di benda sull’occhio, gamba e braccio di legno (ricordi della Legione Straniera e dei Berretti Verdi) oscilla tra “brillanti” operazioni di salvataggio ed eccessivo credito alla versione radicale dei fatti fornita dalla stampa. Mentre il capitano recita lo scenario della stampa secondo cui l’anarchico picchiato e privo di sensi si sarebbe sporto dalla finestra per riprendere conoscenza con l’aria fresca e sarebbe stato “perso” da una polizia disattenta, il Capo lo rimbrotta chiedendogli se avesse perso i lumi della ragione. Replicando con una risposta che si rifà alla prima scatola cinese dell’inganno e risvegliando una metafora dormiente, il “capitano” risponde: “Sì, sedici volte”, confessione che naturalmente il Capo non coglie. L’elemento meccanico del linguaggio stesso viene così sfruttato per dare forza alla dialettica tra inganno e scoperta. Questo tipo di “interferenza” tra i livelli dell’inganno esplode in tutta la sua forza con l’entrata in scena di Bertozzo, che conosce il vero capitano Banzi-Piccinni e vorrebbe smascherare l’impostore. L’alleanza tra Il Matto e i due poliziotti si stringe in questa nuova situazione, ma per motivi equivoci: i due poliziotti temono che Bertozzo riveli che l’identità del capitano è quella del giudice istruttore della seconda scatola cinese, mentre Il Matto teme giustamente che Bertozzo lo abbia riconosciuto come il “pazzo certificato” della prima scatola. Lo smembramento fisico del personaggio Banzi-Piccinni da parte di Bertozzo, che da solo cerca di portare a termine una demistificazione, induce Il Matto a indossare un altro travestimento: ora è un vescovo, responsabile della sicurezza della polizia per il Papa. I vari travestimenti offrono a Il Matto la possibilità di parodiare le idiosincrasie e i gerghi specialistici di ciascuno dei bracci dello Stato. Paradossalmente, il Vescovo traduce una lunga citazione latina che castiga gli sforzi della giornalista di fare inchiesta. Il brano sottolinea l’effetto catartico che lo scandalo avrebbe sul pubblico, la rassicurazione “democratica” che anche se le cose sono marce, la gente ne viene a conoscenza. A questo punto, la demistificazione ha raggiunto un’intera gamma di funzioni statali e non:  la polizia, l’esercito, la stampa, eppure il meccanismo non si può fermare. Dopo le esternazioni de Il Matto-Vescovo, le alleanze iniziano a cambiare. I tre poliziotti sono di nuovo uniti nella loro missione di difesa dello Stato, mentre Bertozzo, riaffermando il potere della polizia basato sulle armi, punta la pistola contro tutti i presenti, chiede che la “farsa” sia sospesa e ordina a un agente di ammanettare tutti a un attaccapanni. Attaccandosi all’esagerazione e inasprendo il discorso sulle armi, Il Matto dichiara di avere un detonatore, chiede di essere rilasciato per poter andare alla stampa e incatena tutti i presenti. Improvvisamente si spengono le luci e si sente Il Matto urlare mentre precipita dalla famigerata finestra.

Questo ultimo sviluppo crea la situazione per la scatola degli inganni numero quattro: i poliziotti “mistificati”, ammanettati all’attaccapanni, esprimono il proprio rammarico per la sua morte prematura e indicano la loro condizione di ammanettati come prova di innocenza. Tuttavia, finiscono per rivelare accidentalmente il loro inganno quando Bertozzo saluta la giornalista in partenza sfilando facilmente la mano destra dalle manette. A chiudere il cerchio della commedia invece l’arrivo di un grasso e misterioso personaggio barbuto, che i poliziotti aggrediscono credendolo il resiliente Matto, ma quando la barba e la pancia si rivelano non essere posticci ai poliziotti viene presentato il giudice del riesame appena arrivato.

Giunti  a questo finale si sarebbe tentati di gridare la domanda pirandelliana: Realtà o Finzione? La frustrazione può essere dovuta all’eccessiva indulgenza di Fo nel presentare la contiguità tra vita e teatro. Il gioco di Fo sulle linee di demarcazione tra realtà e teatro è stato portato avanti fino al secondo atto, soprattutto in una scena precedente in cui il capo della polizia aveva convocato i suoi infiltrati tra il pubblico. La pronta risposta degli attori seduti tra gli spettatori viene contraddetta da Il Matto che si affretta a precisare che quelli erano solo attori, ma che probabilmente tra il pubblico erano seduti veri agenti di polizia che tenevano d’occhio gli “elementi sovversivi” (173-4). La contaminazione tra farsa e politica della reazione raggiunge così il suo culmine in questo avvertimento lanciato dal Commissario, ma in realtà emesso da Fo, il commediografo rivoluzionario.

Paradossalmente, in una farsa votata alla demistificazione e alla distinzione tra verità e menzogna, i confini tra la finzione del teatro e l’essenza della società borghese diventano indistinguibili, essendo la farsa scelta come specchio appropriato che riflette le modalità di funzionamento di una classe in decadenza.

La confusione dei limiti tra verità e finzione praticata da Fo rispetta il gusto del grottesco per il libero gioco dei confini e la sua avversione per l’esattezza e l’unicità del significato, come sottolineato da Bachtin. La predilezione di Fo per il molteplice, sia esso la struttura dell’inganno en abyme, il monologo polifonico o la contaminazione farsa/politica della reazione, è una caratteristica centrale che deve essere evidenziata e ulteriormente indagata se si vuole comprendere il contributo specifico di Fo al dibattito in corso sul teatro politico.

[1] In Erminia Artese, ed. Dario Fo parla di Dario Fo (Cosenza: Lerici, 1977), p. 58.

[2] Jessica Milner-Davis, Farce (London: Methuen, 1978), pp. 28-60.

[3] Eric Bentley, The Life of the Drama (New York: Atheneum, 1962), pp. 248-51.

[4] Dario Fo, Morte accidentale di un anarchico in Compagni senza censura, voI. 1 (Milano: Mazzotta, 1973), pp. 137-182. Le citazioni tra parentesi si riferiscono a questa edizione. .

[5] Con l’indagine sul caso Pinelli è emerso un quadro completo di sponsorizzazione e protezione della violenza di destra da parte di alcuni settori del governo, e persino il coinvolgimento della C.I.A.. L’obiettivo della campagna sistematica di violenza e terrore era quello di destabilizzare il Paese creando un clima di tensione e di paura (da qui i termini ‘Strategia della tensione’ e ‘Strage di stato’), giustificando così la repressione nei confronti della sinistra accusata di terrorismo e l’eventuale presa di tutti gli organi del potere statale da parte delle forze armate. Decine di libri documentano ampiamente questa strategia, in particolare Camilla Caderna, Pinelli: una finestra sulla strage (Milano: Feltrinelli, 1971) e Marco Sassano, La politica della strage (Firenze: La Nuova Italia, 1972).

[6] Mikhail Bakhtin, Rabelais and his World (Cambridge: M. I. T. press, 1968), pagg. 24-34.

Traduzione italiana di Pina Piccolo del suo articolo  “Farce as the Mirror of Bourgeois Politics: Morte Accidentale di un Anarchico” pubblicato nella rivista accademica statunitense Forum Italicum, 1986, vol. 20, issue 2,   pagg. 170 -181.

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

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