Alle bestie! (Cap. XV e XVI)- Francesca Sarah Toich

Berlin6Picture1

Parigi, Francia, in un prossimo futuro. Maya è incinta di un rinoceronte bianco. Un’inseminazione imposta dal Regime – fanaticamente ambientalista e vegano – che ha preso il potere anni prima con un colpo di stato. E che ora propone con forza il proprio modello estremista a un mondo sempre più colpito da disastri e calamità. L’estremismo è radicale: l’umanità è marcia, nel paese deve tornare sovrana la Natura e – soprattutto – i suoi animali. Tutta la tecnologia è impiegata per realizzare questo unico obiettivo. Gli esseri umani che hanno contribuito nel passato all’attuale disastro ambientale devono ora pagarne il prezzo. E le femmine umane vengono sottoposte a meccanismi di riproduzione di massa per portare in grembo le specie animali in via di estinzione.

Le strade di Maya e del geniale medico che ne segue la gravidanza, Clemente, sono destinate ad incrociarsi fatalmente. In un viaggio che cambierà le sorti del mondo intero.

Ad Bestias indaga l’ecologia, i cambiamenti climatici e il vegetarianesimo da un altro punto di vista: quello di un’umanità che rifiuta se stessa in favore della Natura. E che non ha paura di usare scienza e violenza come potenti armi di autoestinzione.

 

 

Capitolo XIV

Weber corse in avanti verso di loro lasciandosi alle spalle i catari.

Al lume delle torce Clemente poté seguire i suoi passi affannati.

Povero cucciolo, aveva l’aria preoccupata.

Lui lo ignorò completamente, precipitandosi da sua sorella

“Svevja, spegni subito la notte ma con cautela, per non creare sbalzi visivi. Il capo dei Perfetti non ha gradito l’accoglienza, porca miseria! Questi catari sono strani, cazzo cazzo cazzo!”

La sorella senza scomporsi più di tanto tirò fuori dalla borsa il minicomputer e gli disse a bassa voce: “Calmati, va bene, ora metto la luce del giorno… Non è certo una tragedia”.

“No, ma non capisci…” continuò lui affannato, “mi hanno anche detto di fermare l’ad bestias.Quindi niente tigri, niente orsi eccetera. Io credevo di fare una bella sorpresa, invece sembrano piuttosto seccati. Al diavolo, vedi, uno si impegna e poi… Vabbè, ascolta: vado di sotto a dire a Marcus che ritiri i lupi e strangoli gli umani ancora vivi. Effettivamente stanno urlando troppo. Meglio ucciderli velocemente e far tornare un po’ di calma.”

“Sì, ma dì a Marcus di tenere comunque i cadaveri per i lupi” ribadì coscienziosamente la sorella smanettando sul computer. La luce piano piano stava ritornando.

Clemente guardò il cielo oltre la calotta. Aveva smesso di piovere ma doveva esserci un fortissimo vento là fuori, nel mondo normale.

Di nuovo quel vento giallo e famelico che prima l’aveva inquietato.

“Sì, sì, certo” disse Weber e si dileguò verso la radura.

Ora che la luce stava tornando, Clemente poté osservare meglio i catari, poco più in là. Cominciava evidentemente ad essere un po’ stanco, gli girava la testa e sentiva un forte odore di acqua marcia. Il gruppetto vestito di nero iniziò ad avanzare verso di loro.

Fu allora che la vide: una signora piccola e magra, molto anziana, stava al centro come protetta dagli altri. Era l’unica con il volto non coperto. Tutti gli altri indossavano dei mantelli con cappuccio.

“È lei il capo?” chiese in un sussurro a Svevja.

L’aliena sorella si limitò ad annuire, concentrata com’era sul suo computer.

In pochi minuti fu giorno. Gli americani, impietriti come dei vampiri alla luce del sole, stavano immobili sulle loro sedie. Tutto taceva. Dopo aver allontanato i lupi, Marcus aveva tagliato velocemente le gole ai condannati e adesso i soldati in velocità stavano ripulendo la radura. Clemente tornò a concentrarsi sui catari. Perché si muovevano così lentamente? Forse quella vecchia signora rallentava il gruppo. Notò che tutti erano scalzi tranne lei che paradossalmente indossava dei tacchi molto alti. Aveva la netta sensazione di averla già vista da qualche parte: strano, era certo di non aver mai incontrato il capo dei catari.

Weber arrivò trafelato e sorridente.

“Ecco, tutto a posto” disse sussurrando alla sorella.

In quel momento un perfetto incappucciato venne verso di loro.

Si fermò vicino a Weber: “Il nostro capo non trova necessaria la musica”.

Weber, trattenendo una smorfia di impazienza, andò dall’ensemble che stava ancora suonando Monteverdi a dire di smetterla.

“Mi fa piacere rivederti” disse a Clemente il cataro incappucciato. Era una voce di donna.

“Non ti ricordi di me?” e dicendo questo si tolse il cappuccio.

Lui la riconobbe all’istante. Airone Bianco, si faceva chiamare. Era stata campionessa francese di arti marziali giovanili: aveva vinto l’oro olimpico per due volte di fila e poi era sparita. In Bhutan e in Nepal, a perfezionarsi. Airone Bianco era oggi uno dei capi del Regime ma non la vedeva da un po’. No, alt. C’era qualcosa che non funzionava. Aveva già fatto tutti quei ragionamenti non molto tempo fa. Il cervello cominciò a fargli male. Delle fitte mostruose. Qualcosa gli diceva che ultimamente si erano incontrati ma non ricordava dove. Bloccato, non sapeva cosa rispondere. Guardò davanti a sé, disperato.

E sentì un suono, come una nota alta, diffondersi nella sua testa.

Il capo dei catari lo stava guardando. Adesso.

Sì, sì, la vecchia signora fissava proprio lui.

E senza alcuna spiegazione, gli sorrise.

Clemente per poco non svenne, folgorato.

Ora ricordava tutto. Il sogno, gli appunti, le minacce, la vecchia che beveva Campari… Quella signora era un pesce! Anzi una balena. Chissà se Svevja sapeva che il capo dei catari era una balena. Certo che no! E nemmeno Weber. E figuriamoci Marcus! Lui era l’unico a conoscere il loro segreto. Per questo ora gli stava sorridendo.

Ripreso il controllo rispose con un inchino sommesso, poi si girò verso Airone Bianco.

“Sì, certo che mi ricordo.”

Weber tornò accanto a loro.

“Ecco fatto. Niente più musica. Solo una calma radura sotto un cielo innocuo. Va bene così? Posso offrirvi dell’acqua tiepida? Volete conoscere i nostri ospiti americani? Sono sicuro che il vostro capo…”

“L’unica cosa che desidera il nostro capo”, tagliò corto Airone Bianco, “è parlare con il dottor Clemente. In privato.”

Weber, preso alla sprovvista, si limitò a dire: “Certo, certo, volete andare nel mio studio?”

“No, va bene qui. Il capo ama l’aria ma non ha molto tempo. Faranno una passeggiata poco più in là, lontano da orecchie indiscrete.”

Clemente per poco non tirò un urletto di gioia.

Sapeva che Svevja ora friggeva d’invidia e sentiva, oh sì, lo sentiva bene, lo sguardo di Weber farsi di velluto. Velluto blu. Ora finalmente avrebbe capito la sua importanza, il suo valore di scienziato. Non che non gli avesse mostrato rispetto, anzi; ma nelle ultime ore si era sentito un po’ messo da parte. Questo ribaltava tutte le carte. Stranamente non aveva paura. Tutte le angosce sull’esperimento erano sparite. Sentiva quella vecchia così vicina a lui, con quel sorriso…

Airone Bianco lo prese sottobraccio e lo condusse da lei.

La signora fece un cenno col capo, invitandolo a seguirla da solo. In silenzio Clemente iniziò con lei una piccola passeggiata, lontano dal gruppo. Stavano camminando da più di qualche minuto ma lei ancora non parlava. Era strano. Quel silenzio gli sembrava la cosa più naturale del mondo. Era totalmente a suo agio, quasi quasi si stava persino dimenticando di respirare. Poi improvvisamente si bloccò, folgorato da un dubbio. Era anche lui un pesce?

Senza alcuna timidezza lo chiese alla vecchia, che scoppiò a ridere.

“No, Clemente, non sei un pesce. E neanch’io. Io sono una balena. Ma sono anche una signora. Ogni anima ha il corpo che si merita.”

Clemente le confessò che ultimamente aveva perso le speranze. Non credeva più nemmeno all’anima. Né ai corpi. Credeva nell’istante, che spesso era per lui sofferenza.

“Tutto è apparenza, tutto è illusione…” si ritrovò a farfugliare, quasi confessandosi.

La signora continuò a camminare a piccoli passi.

Non diceva nulla.

Ora erano sufficientemente distanti da tutti, non sentiva più nemmeno il rumore delle voci. Fu allora che la signora piantò i tacchi e si fermò. Sembrava raccogliere le forze, respirava a fatica.

In effetti in quanto Balena avrebbe dovuto rientrare in acqua al più presto. Non doveva essere facile alternarsi tra due mondi. In fondo era contento di non essere anche un pesce.

“Sono convinta che il suo esperimento funzionerà.”

“Grazie”, si limitò a rispondere lui, colpito, “sono tuttavia preoccupato per l’aspetto pubblico. Se dovessero esserci dei problemi con gli americani o gli inviati del Bhutan…”

La signora scosse la testa, ingobbendosi.

Da qualche minuto era diventata praticamente ricurva su se stessa.

Parlò a bassa voce dalla fatica: “Il mondo della superficie non ha che da ringraziare la Francia. Senza queste calotte e riserve oramai quasi tutte le specie sarebbero perdute. Non si preoccupi. L’Asia rappresentata dal Bhutan ha firmato con noi oggi un patto e non di alleanza ma di sudditanza. Siamo noi ora a possedere la natura. Fuori da qui tutto sta per essere divorato dal gelo o dall’arsura. Le catastrofi aumentano di giorno in giorno. I popoli ancora non se ne rendono totalmente conto ma i governi tutti hanno capito. In altre parole, siamo la loro unica speranza. Nessuno la criticherà. Al massimo, la invidieranno”.

Se soltanto Weber fosse stato lì, ad ascoltare quelle parole d’ambrosia! Doveva però stare calmo e non inebriarsi troppo. La vecchia poteva cambiare idea da un momento all’altro. Del resto faticava a stare in piedi e poi comunque era una balena. C’era da fidarsi dei cetacei? A quanto pareva sì. Erano animali saggi e determinati, in grado di percorrere distanze smisurate in pochi giorni e dormire solamente con una parte del cervello. Altrimenti detto, erano sempre coscienti, vigili.

“Vede, Clemente, ora il problema sono gli abissi. Gli altri stati del mondo stanno cominciando a scendere in basso. Mandano i loro scienziati a cercare oro, metalli, risorse, energia. Tutto quello che non trovano più in superficie, vogliono scavarlo nel cuore delle acque. Nell’ignoto. Voi uomini non conoscete il mare. Il suo fondo è esplorato solamente al dieci per cento e già scavano per trovare l’oro. Idioti. Non sanno cosa li aspetta laggiù.”

Era quasi accartocciata su se stessa. Clemente avrebbe voluto prenderla in braccio e portarla nell’acqua. Aggrapparsi a lei come ad una madre buona e annegare laggiù, dove gli uomini potevano solo morire.

“Se il suo esperimento andrà a buon fine”, continuò con un filo di voce, “trasformeremo tutti in animali. Lasceremo pochi fedeli sulla Terra ad aiutare le specie in superficie. Nessuno deve scendere negli abissi. Nessuno. Solo i pesci sono iniziati, sosteneva Empedocle.”

Dopo aver detto ciò, la vecchia svenne. Clemente fu preso dal panico. Cosa doveva fare? Gran medico era, neppure capace di prendersi cura di una signora anziana in preda ad un mancamento. D’istinto le avrebbe praticato la respirazione artificiale ma il fatto che fosse anche un cetaceo complicava le cose. Come sempre decise di non compiere alcuna azione compromettente. Finse di tastarle il polso, freddo e viscido. Balena che Cammina giaceva a terra. I catari, come angeli, corsero a prenderla e la portarono via di fretta. Airone Bianco comparve di fianco a lui, rassicurandolo.

“Tutto bene, il nostro capo ha solamente esagerato con l’aria. L’ossigeno per gli animali antichi è quasi un veleno in grandi dosi. Si rimetterà in qualche ora.”

Rimasti soli presero a camminare in silenzio fianco a fianco, lui e Airone Bianco. Aveva male agli occhi.

Forse come San Paolo stava per ricevere una nuova vista dopo la Rivelazione.

O semplicemente quella luce artificiale alla lunga era stancante per la retina. Airone Bianco camminava lentamente.

“Quanto tempo fa ti sei convertita al catarismo?” le chiese

“Ero adolescente quando ho conosciuto le prime teorie legate al catarismo moderno. Mi sono convertita completamente quindici anni fa diventando catara e da cinque sono divenuta una Perfetta.”

“Posso farti una domanda?”

“Risparmia il fiato: so già quello che vuoi chiedermi. Scopiamo noi Perfetti? O almeno facciamo del sesso orale o derivati? No. Niente affatto. Ci asteniamo completamente da qualsiasi tipo di rapporto. Da cinque anni non tocco nessuno. Non è difficile. Pratico delle forme di meditazione che cancellano ogni desiderio sessuale. Era questo che volevi sapere, no?”

Come aveva fatto ad indovinare? Aveva davvero l’aria di uno così superficiale? Di uno che dopo aver avuto l’onore di parlare con il loro capo, il Deus Absconditus, il primo pensiero che era stato in grado di formulare era se i Perfetti si facessero o meno i pompini a vicenda? Ebbene era così. Proprio così eppure c’era una motivazione profonda: il dialogo con Balena che Cammina lo aveva sorpreso, estasiato. L’avrebbe seguita ovunque, anche negli abissi del vuoto.

In quei pochi minuti stava prendendo seriamente in considerazione l’idea di farsi cataro per poi divenire un Perfetto. Avrebbe anche potuto essere semplicemente un credente. Già dall’anno mille i catari si dividevano in credenti e Perfetti. Questi ultimi tramite una vita di ascesi aspiravano a liberarsi dalla reincarnazione nei corpi, mentre i semplici catari continuavano a vivere una vita normale nel mondo, pur sostenendo le teorie dei Perfetti, accettandone la direzione spirituale e divulgandone la dottrina.

Di certo se avesse abbracciato il catarismo non sarebbe stato per far la ruota del carro. Naturalmente avrebbe voluto diventare un Perfetto. Anche se voleva dire non fare mai più sesso. Si chiese se Weber avrebbe capito. Sì, senza dubbio avrebbe rispettato questa sua scelta perché aveva un enorme valore spirituale. Non avrebbero più potuto essere una coppia a tutti gli effetti ma forse era meglio così. Imbarcarsi in una relazione stabile proprio in quel momento non era l’idea migliore. Inoltre dopo l’ordine ricevuto da Balena che Cammina, di dover cioè trasformare buona parte dell’umanità rimasta in animali, non aveva scelta.

Solo diventando un Perfetto il suo spirito avrebbe trionfato sulla materia.

Si chiese però se quella sera sarebbe comunque dovuto andare a casa di Weber seguendo il suo invito. Certamente, si rispose. Avrebbe fatto richiesta di entrare nella confraternita catara solamente dopo l’esperimento. Era meglio andarci cauti e testare la sincerità della loro dottrina. Non aveva nemmeno risposto ad Airone Bianco, ma lei non sembrava minimamente preoccuparsene. Erano quasi giunti di nuovo al Belvedere.

Di Weber e sua sorella non c’era traccia. Anche tutti gli altri catari erano andati via assieme ai musicisti. Airone Bianco lo salutò e senza dire una parola si allontanò. Gli unici rimasti erano gli

 

americani. Sembravano congelati nel tempo; accasciati sulle loro sedie avevano l’aria smarrita: che ne sarebbe stato di loro?

Temendo di attirarsi problemi se avesse dato loro confidenza, si dileguò il più velocemente possibile.

 

Capitolo XV

 

Appena avvolsero nella benda i suoi capelli di ragazza, Ifigenia vide tutto.

Vide Agamennone immobile vicino all’altare,

vide i sacerdoti che nascondevano la spada,

il popolo che la guardava in lacrime.

Muta di terrore si piegò sulle ginocchia,

e, supplicando, si lasciò cadere a terra.

Chiamò il re, per la prima volta, con il nome di padre.

Per la prima volta. Nessuna risposta.

La portarono di forza, tremante, all’altare.

E non era l’altare delle nozze, non erano i riti solenni

e così attesi, i cori splendenti. No.

Fu distesa vicino ad Agamennone

che le immerse la spada nel petto:

solo così la flotta greca poté prendere la via propizia del mare. Solo così, Ifigenia, solo così.

(De Rerum Natura I,87-101)

Maya chiuse il De Rerum Natura.

Basta ripassare.

Era pronta.

Da tre giorni non faceva che studiare. Aveva persino fatto per due volte le prove nello spazio ufficiale dove avrebbe tenuto il discorso, una specie di teatro circolare che in realtà era un reattore nucleare.

I medici, Clemente e un certo Weber, le avevano assicurato che non c’era alcun pericolo eppure entrambe le volte che era andata in quel posto era stata molto male. Sia durante che dopo. I dolori al ventre erano diventati così insopportabili che era stata costretta ad imbottirsi di farmaci. Le sembrava addirittura che ‘la cosa’ nel suo ventre fosse cresciuta a dismisura nelle ultime ventiquattro ore.

Doveva essere la tensione per il discorso.

 

Aveva deciso che quel giorno si sarebbe presentata all’ultimo, saltando così tutte le cerimonie di apertura. A quanto pareva c’era la performance di un maiale in grado di dipingere, subito seguita da un concerto barocco. Poi toccava a lei.

Mancava forse un’ora o forse molto meno.

Bussarono.

Era l’infermiera androide, come l’aveva battezzata interiormente. Oggi era vestita in modo esagerato, sembrava un pipistrello: la gonna nera si divideva in due grandi ali che si spalancavano sulle gambe, facendo intravedere dei tacchi vertiginosi.

“Venga, è l’ora.”

La seguì attraverso dei corridoi interni alla centrale che scorrevano su degli enormi tapirulan. Forse erano delle corsie di trasporto merci.

In ogni caso fu felice di non dover camminare.

Arrivò al teatro nucleare alla fine del concerto barocco, i musicisti stavano mettendo via gli strumenti. La forma di quel luogo l’aveva inquietata fin dal primo giorno. Un palco centrale e circolare cinto da pareti altissime, grigie, piene di buchi e anfratti schematici. Molto probabilmente nella sua vera funzione di reattore nucleare quello che ora era il palco doveva essere l’epicentro atomico e le alte pareti coi buchi un veicolo per l’energia. Che ne sapeva poi! Le sue conoscenze atomistiche si fermavano a Democrito e Lucrezio. Naturalmente tenendo conto di Epicuro.

Notò che i musicisti erano distribuiti in tutti i buchi e le nicchie delle pareti. Probabilmente per sfruttare la spazializzazione del suono come nelle antiche basiliche. Il pubblico invece stava in basso disposto a semicerchio attorno ad una porzione di palco rialzata.

Era lì che aveva fatto le prove e lì avrebbe parlato tra poco.

Chiuse gli occhi e aiutata da tre infermieri salì sul palco, innalzata come una vacca sacra.

Aveva paura.

Aprì gli occhi.

Il pubblico consisteva in una trentina di persone.

Prima di parlare li guardò uno ad uno.

C’era tra loro chi aveva ancora più paura di lei: un gruppetto di tre donne e un uomo con abiti normali si stringevano l’uno all’altra. Erano dei condannati a morte? Non poteva saperlo e finito il suo discorso non sarebbe certo rimasta per verificarlo. Tra il pubblico vide diversi uomini orientali vestiti con teli sgargianti e tutti uguali: erano sicuramente i monaci del Bhutan. Il gruppo più numeroso, una quindicina di persone vestite di nero col volto coperto, prendevano i posti d’onore davanti. Senz’altro i catari, o meglio i Perfetti, come si facevano chiamare.

Ma dove cavolo era finita? Le sembrava il finale di uno squallido fumetto fantasy. Guardò in alto e in una delle aperture del muro circolare che aveva l’aspetto di un balcone da teatro, vide Clemente e Weber.

Entrambi le sorridevano come due genitori di fronte alla prima recita della loro unica figlia.

Era il momento di parlare.

Non appena avvicinò la bocca, il microfono fischiò.

Nessuno tra il pubblico mosse un muscolo.

Maya sospirando iniziò: “Quando prima del Regime venivo invitata a cena, avvisavo sempre che ero pitagorica”.

Il gruppo vestito di nero, i Perfetti, scoppiarono tutti a ridere. Era quello che voleva e aveva previsto. Dedicò quindi i primi minuti a parlare dei precetti pitagorici essenziali: non mangiare animali, credere nella metempsicosi e non accogliere sui molli occhi il sonno prima di aver esaminato ciascun atto compiuto nella giornata.

Passò immediatamente al libro XV di Ovidio, le Metamorfosi, citando la famosa frase di Pitagora:

Una volta l’età che chiamiamo dell’oro

era ben felice dei frutti degli alberi

e delle insalate che produceva la terra da sé

senza l’uso di sporcarsi la bocca di sangue.

A quei tempi gli uccelli battevano le ali per aria tranquilli

la lepre trottava nei campi senza paura

ed i pesci non finivano appesi ad un amo.

Non c’erano trappole al mondo

non c’era pericolo di slealtà e regnava la pace.

Finché un disgraziato (non chiedetemi chi fosse)

chissà forse per invidia dei pasti degli dei

comincia a cacciarsi dentro la pancia

pietanze di carne dando il pessimo esempio.

Ci fu un grande applauso.

Persino sulle facce dei monaci del Bhutan poteva leggere un certo entusiasmo.

Quando poi senza troppi indugi, infischiandosene dell’ordine cronologico, passò a Plutarco con i suoi due trattati in favore del vegetarianesimo, i de esu carnium, sentì un fremito d’approvazione nelle prime file. E giustamente. Plutarco era stato il primo scrittore di trattati vegetariani, anzi in uno dei suoi scritti addirittura racconta di non riuscire più a mangiare uova in seguito ad un sogno. Era stato dunque uno dei primi vegani occidentali. Non solo: i suoi scritti nascevano come conferenze giovanili che lui stesso teneva ad un perplesso pubblico beota. Era un militante oltre che rivoluzionario. Ma al di sopra di tutto era pitagorico.

Citò interamente a memoria il suo passaggio preferito, uno dei più commoventi – Del mangiare carne – dove vengono descritti i cuochi come “acconciatori di cadaveri, poiché danno il nome di manicaretti a quelle membra che poco prima muggivano e gridavano, si muovevano e vivevano”. Declamato con ardore il lungo passo, Maya stette in silenzio qualche secondo.

La gravità dell’argomento aveva scosso i cuori del pubblico: vide persino qualche lacrima sul volto di un monaco. Galvanizzata, incurante del proprio corpo deforme e della vista che cominciava ad annebbiarsi per lo sforzo, procedette con Empedocle e Plotino destando grande entusiasmo. Ma quando, cambiando completamente scenario e avvicinandosi alla conclusione, iniziò ad esporre le sue argomentazioni su Caino, sentì il pubblico raggelarsi.

“Come tutti sappiamo”, continuò incurante, “gli antichi vegetariani avevano orrore soprattutto del culto sacrificale: la mania umana di tagliare gole a qualsivoglia animale per offrirlo agli dèi e naturalmente per mangiarlo. Ora credo che nessuno meglio di Caino possa riassumere questo sentimento.”

I catari si stavano agitando, alcuni di loro si erano addirittura tolti i cappucci. Poteva vedere le loro facce perplesse.

Citò il famoso passo della Genesi: “Ora Abele era pastore, e Caino lavoratore del suolo. Dopo un certo tempo Caino offrì i frutti del suolo in sacrificio al Signore. Anche Abele offrì primogeniti del suo gregge e il loro grasso. Il Signore gradì Abele e la sua offerta ma non gradì Caino e la sua offerta. Caino addolorato disse ad Abele: andiamo in campagna…”

Con la coda dell’occhio vide alcuni Perfetti alzarsi in piedi. Li sentì mugugnare qualcosa tra loro. Forse l’idea di tirare in ballo la Bibbia non era poi stata un colpo di genio, vista l’audience. I catari erano stati sterminati dalla Chiesa Cattolica centinaia d’anni prima proprio a causa di alcune questioni di blasfemia biblica, oltre che per enormi interessi personali della chiesa stessa.

“Accidenti, ma dove vuole andare a parare?” disse Clemente sottovoce, preoccupato, a Weber. “I catari non sopportano l’Antico Testamento con quel Dio iracondo e legato alla materia. Al limite arrivano a tollerare il Vangelo e la mitezza di Gesù. Pensavo Maya lo sapesse!”

“Forse lo sa” rispose Weber sorridendo e continuando a guardarla dall’alto del loro balcone. Poi sospirando come se si fosse improvvisamente fatto tardi, chiese: “Che dici, facciamo partire l’esperimento?”

Quasi tutti i catari erano in piedi ma zitti. La stavano ascoltando. Lei continuò a citare l’Antico Testamento fino alla maledizione di Caino da parte di Dio. Era quasi arrivata alla fine: ora li avrebbe stupiti. La guardavano perplessi ma non sapevano ancora quanto lei stimasse la dottrina catara. In quei mesi aveva cercato ogni possibile paragone con la saggezza dei classici, fino a creare una tesi che avrebbe elevato il catarismo moderno ad una filosofia che sarebbe stata riconosciuta nei secoli a venire, se mai ci sarebbe stato un avvenire. Staccò il microfono dall’asta per parlare con un tono più intimo.

Ma proprio in quell’istante viene presa da un forte spasmo in tutto il corpo. La testa comincia a girarle.

Il dolore è tale che tende supplici le braccia a Clemente chiedendo aiuto.

E quelle braccia cominciano ad indurirsi di peli neri.

Le mani si arrotondano e sviluppando unghioni ricurvi, diventano piedi.

Cade su se stessa e si ritrova a quattro zampe davanti ad un pubblico sconvolto. Sente il naso trasformarsi in un corno e il viso allargarsi in una dura pelle grigia.

Ma non è minacciosa la fronte gli occhi non fanno paura

e il muso irradia dolcezza. Non sente adesso dolore nemmeno più al ventre eppure

è un rotolio di lacrime

su quella faccia non sua.

Solo la mente è la stessa.

Capisce infatti

di essere diventata una bestia.

Impaurita prova a parlare

ma non esce che un roco lamento.

Le hanno tolto anche la voce.

Così com’è

a quattro zampe

non può nemmeno più guardare in alto

a chi le ha fatto questo

e chiedere perché.

Poi un secondo dolore

più grande

inizia a premere sul ventre fattosi immenso. Sente qualcosa strisciarle dentro

lungo lo stomaco tutto

vorrebbe buttarsi a terra dal male

ma non può.

Vede tra le sue zampe

prima scorrere dell’acqua

e poi

del sangue.

Infine

con una sensibilità poco umana

si sente sollevata

qualcosa è uscito da quel corpo

che non è più il suo.

Abbassa il muso e lo vede. Anche lui ha la pelle dura grigia

e un corno gli sforma la faccia ma ha gambe e braccia d’uomo e piange

come farebbe un neonato. Lei vorrebbe leccarlo aiutarlo a mettersi in piedi ma ne ha paura

perché è un umano

con la faccia di una bestia.

 

 

Riguardo il macchinista

Walter Valeri

Walter Valeri poeta, scrittore e drammaturgo è stato assistente del premio Nobel Dario Fo e Franca Rame dal 1980 al 1995. Ha fondato il Cantiere Internazionale Teatro Giovani di Forlì nel 1999. Successivamente ha diretto il festival internazionale di poesia Il Porto dei Poeti a Cesenatico nel 2008 e L’Orecchio di Dioniso a Forli' nel 2016. Ha tradotto vari testi di poesia, prosa e teatro. Opere recenti Ora settima (terza edizione, Il Ponte Vecchio, 2014) Biting The Sun ( Boston Haiku Society, 2014), Haiku: Il mio nome/My name (qudu edizioni, 2015) Parodie del buio (Il Ponte Vecchio, 2017) Arlecchino e il profumo dei soldi (Il Ponte Vecchio, 2018) Il Dario Furioso (Il Ponte Vecchio, 2020). Collabora alle riviste internazionali Teatri delle diversità, Sipario, lamacchinasognante.com Dal 2020 dirige i progetti speciali del Museo Internazionale della Maschera “Amleto e Donato Sartori”. È membro della direzione del prestigioso Poets’ Theatre di Cambridge (USA).

Pagina archivio del macchinista