ALLE BESTIE, cap. XIII e XIV, di Francesca Sarah Toich

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ALLE BESTIE

 

Un romanzo a puntate di Francesca Sarah Toich

 

 

Parigi, Francia, in un prossimo futuro. Maya è incinta di un rinoceronte bianco. Un’inseminazione imposta dal Regime – fanaticamente ambientalista e vegano – che ha preso il potere anni prima con un colpo di stato. E che ora propone con forza il proprio modello estremista a un mondo sempre più colpito da disastri e calamità. L’estremismo è radicale: l’umanità è marcia, nel paese deve tornare sovrana la Natura e – soprattutto – i suoi animali. Tutta la tecnologia è impiegata per realizzare questo unico obiettivo. Gli esseri umani che hanno contribuito nel passato all’attuale disastro ambientale devono ora pagarne il prezzo. E le femmine umane vengono sottoposte a meccanismi di riproduzione di massa per portare in grembo le specie animali in via di estinzione.

Le strade di Maya e del geniale medico che ne segue la gravidanza, Clemente, sono destinate ad incrociarsi fatalmente. In un viaggio che cambierà le sorti del mondo intero.

Ad Bestias indaga l’ecologia, i cambiamenti climatici e il vegetarianesimo da un altro punto di vista: quello di un’umanità che rifiuta se stessa in favore della Natura. E che non ha paura di usare scienza e violenza come potenti armi di autoestinzione.

 

 

 

XIII

L’infermiera entrò.

Era ancora più alta di quando l’aveva lasciata. Tacchi vertiginosi. Si era persino cambiata d’abito: verde, blu e decorato a disegni oro. Neppure un sorriso. Con la solita faccia piatta avanzò di qualche metro verso la sua scrivania. Aveva un vassoio in mano.

Maya stava stendendo il suo piccolo prologo: avrebbe cominciato il discorso con una lista di tutti i vegetariani in età classica: Pitagora, Empedocle. Eraclito nel suo momento più meditativo. Epicuro, a modo suo. Teofrasto, a livello più teorico che pratico essendo un aristotelico.

Più avanti avrebbe citato Seneca, Plutarco, Porfirio, Plotino. Quasi tutti adepti del pitagorismo. Aveva addirittura ritrovato un bel po’ di testimonianze dei ‘pitagorici anonimi’ – nulla però di interessante.

Nel momento in cui l’infermiera era entrata stava valutando se citare o meno Platone. Non era vegetariano tuttavia nel dialogo de la Repubblica, elaborando un mondo ideale consigliava una dieta senza carne né pesce. Ma lei non aveva mai sopportato Platone e ancora meno quel segaiolo di Socrate. Di recente aveva riletto il Fedone, l’ultimo discorso di Socrate prima di bere felice la sua cicuta.

L’aveva riletto a caccia di qualche informazione sulla metempsicosi e aveva trovato solo baggianate. Chissà poi perché Socrate ce l’aveva con gli asini! In tutta onestà aveva sempre pensato che fosse stato realmente un pericolo per la delicata e splendida coesione socioculturale di Atene. Bene fecero a processarlo. Sulla condanna a morte non sapeva che dire. Preferiva restare ferma sui Pitagorici. Al diavolo Socrate e Platone. Amati ingiustamente da tutti.

Lei, nella sua solenne orazione, li avrebbe ignorati, puntando tutto su Pitagora.

Ma che hai fatto di male tu, pecorella,

creata per fare del bene all’uomo

con quelle mammelle gonfie di nettare,

con la lana che ci procura

i più morbidi dei vestiti, pecorella,

tu che ci servi più da viva semmai, che da morta?

 

L’infermiera appoggiò con grazia il vassoio quasi sopra il libro XV delle Metamorfosi.

Maya guardando la sua cena rimase di sasso.

Fave.

Era una provocazione? Certo, tutti nel Regime mangiavano fave, essendo vegani. Ma lei se n’era sempre tenuta distante. Proprio Pitagora raccomandava di non mangiare le fave; i motivi erano a dir poco oscuri. Di certo l’infermiera non sapeva di questo dilemma filosofico e perché avrebbe dovuto? Quasi tutti nel Regime in fondo un po’ se ne infischiavano della letteratura antica. I presocratici poi, non li conosceva nessuno. Alla presa del potere il Partito si era più che altro appellato a principi ecologici e buddisti, a confusi precetti yogici e ayurvedici. Quasi a nessuno era passato per la mente di scavare nella nostra storia. Ah, se solo avessero tenuto in considerazione i rituali orfici!

Maya guardò pertanto la cena con aria talmente perplessa che persino l’infermiera robot se ne accorse.

“Qualcosa non va?” chiese con voce assolutamente neutra.

“Non mangio fave” rispose Maya tentando di prendere il suo stesso tono.

L’infermiera stette immobile in silenzio, come aspettasse ulteriori spiegazioni.

Maya decise di essere sincera anche se aveva poche speranze di venire compresa: “Pitagora, un filosofo del cinquecento avanti Cristo, sosteneva non fossero cibi puri e ne ammoniva l’uso”.

Sguardo piatto. Silenzio.

Le avrebbe cambiato la cena? In fondo era incinta, aveva diritto a qualche vizio strampalato.

L’infermiera senza modificare di un millimetro la sua espressione disse con voce fredda: “Il musico Aristosseno dice che di nessun legume Pitagora faceva più spesso uso che delle fave, ritenendo che questo cibo purificasse il ventre e lo purgasse. Onestamente trovo più credibile la testimonianza di Aristosseno delle altre. Poi veda lei. Le fave fresche nel suo stato sono assolutamente consigliate”.

Maya la guardò sgranando due occhi grandi come quelli dei buoi. Era scioccata. Con una mano tremante prese una manciata di fave e le ingoiò senza smettere di fissarla. Quell’infermiera la terrorizzava.

Ecco i veri capi del Regime. Che fossero alieni? Cominciava a sospettarlo. Freddi come il ghiaccio, colti senza darlo a vedere e riservati. Tutto il contrario di quelli che aveva conosciuto in città. Probabilmente a Parigi si erano insediati i funzionari più banali e corrotti. Il vero cuore del pensiero del Regime era qui. Forse una nuova razza umana si stava sviluppando. Senza pensieri né velleità. Una razza crudele come possono sembrare crudeli a volte gli animali. Gente che parlava poco. Provò ad immaginarsi quell’infermiera in un’altra situazione e non ci riuscì. Sembrava costruita per essere lì in quel momento. Eppure era umana, sbatteva le palpebre e respirava. Conosceva l’opera di Aristosseno, un oscuro musicista della scuola di Aristotele e autore di vari trattati sulla filosofia pitagorica. Maya, pur avendolo in parte studiato, non aveva mai sentito quell’argomentazione sulle fave.

Masticò e deglutì.

L’infermiera chiese se avesse bisogno d’altro. No.

Sparì dunque sui suoi tacchi. Accidenti, se alla centrale erano tutti così preparati, forse il suo discorso non era all’altezza! Ma no, c’erano gli americani… Doveva restare semplice, pulita e chiara. Senza perdersi nei meandri di oscuri filosofi. Era del resto talmente evidente com’era andata.

Pitagora e i suoi avevano fin dall’inizio cercato di proporre una filosofia pacifica, colta e vegetariana. Quasi tutti i presocratici seguirono queste modalità, scrivendo poemi sulla natura e cercando di cogliere l’essenza del tutto.

Poi era arrivata della gentaglia come Socrate e prima di lui il maldestro Anassagora di Clazomene, inventore di un presunto principio intelligente che per lui era il tutto ma che venne interpretato come un intelletto separato dalla natura perché superiore. In seguito Platone per bocca di Socrate ci aveva marciato sopra non poco. L’intelletto, l’intelligenza dell’uomo, l’uomo che, morendo, fa avanti e indietro tra la bieca terra e il vero mondo, l’iperuranio, dove tutto è perfetto. Pericolosissime cazzate. Che dire poi della distinzione tra corpo e anima, tanto cara ai platonici? E sempre Socrate dava per scontato che l’uomo era senz’altro diverso dagli animali. Chiaramente superiore perché in grado di immaginare cose che non ci sono.

Ogni volta che pensava a Socrate le veniva la nausea. Per non parlare di Aristotele, sua grande spina nel fianco. Aristotele aveva definito le piante come la specie più bassa, seguita dagli animali che non avevano chiaramente un intelletto, privilegio unico dell’uomo. Bah, e oltretutto il filosofaccio non era chiaro, i suoi lavori erano zeppi di contraddizioni. Nei suoi lunghi anni di studio li aveva evitati come la peste. Ed eccola invece ad uno scontro finale.

Forse avrebbe dovuto continuare ad ignorarli: damnatio memoriae e ciao.

Mancavano solo due giorni e non aveva ancora scritto l’epilogo.

Si passò una mano sulla testa quasi calva, asportando una piccola ciocca di capelli grigi e morti.

 

 

 

 

In quel momento bussarono alla porta.

Entrarono due ragazzi.

Il bel diciassettenne della pozzanghera accompagnato da una bambina con le trecce. Maya la guardò meglio: non era una bambina. Era Gaia, la sua Giovanna d’Arco!

Stavano fermi sulla porta, fissandola.

Poi il ragazzo disse lentamente: “Speriamo di non averti disturbata. Gaia voleva conoscerti”.

“No, certo. Con piacere, sedetevi.”

“Grazie”, rispose lui, “preferisco stare qui, vicino alla porta. Non ci fermeremo molto.”

La ragazza minuta con le trecce avanzò invece verso Maya. La guardava con occhi spalancati, non riuscendo a nascondere il suo shock. Si sedette senza staccare lo sguardo.

“Eravamo venuti”, disse Gaia con voce dolce ma perplessa, “per chiederti di tenere qualche lezione da noi nel reparto giovani attivisti. Siamo molto interessati al vegetarianesimo nella cultura antica. Tuttavia”, e per la prima volta distolse lo sguardo quasi per educazione, “non mi aspettavo di trovare una persona ridotta così. È orribile.”

Senti chi parla, avrebbe voluto dirle Maya. Da vicino quella ragazzina sembrava una vecchia affetta dalla sindrome di down.

“Perdonami”, continuò Gaia, “per natura sono incapace di mentire. In passato dei medici mi hanno diagnosticato varie forme di handicap. E poi il mio amico qui non mi aveva detto che ti avevano ridotta così.” Si girò verso di lui, quasi a rimproverarlo.

“Evidentemente è un galantuomo” rispose Maya serenamente.

Era stata dura sentirsi dare del cesso morituro così a freddo ma era la verità. Solo quella ragazzina, solo Giovanna d’Arco aveva finora avuto il coraggio di buttarglielo in faccia: era spacciata. Ed oltretutto faceva schifo a vedersi.

Gaia ritornò a guardarla senza giudizio ma con chiaro sgomento.

“Alcuni scienziati del Regime sono dei mostri”, sentenziò, “tu sei una studiosa, non meriti questo. E sono dei codardi, oltretutto. Mandare una donna incinta a tenere un discorso nel teatro nucleare. Potrebbe essere chiaramente pericoloso. Come possiamo aiutarti?”

Ci fu un lungo momento di silenzio, quasi di immobilità.

Quanti anni poteva avere quella vecchia bambina che le stava davanti? Maya fece un rapido calcolo. Gaia era stata famosa all’incirca cinque, sei anni prima delle grandi catastrofi, prima cioè che il mondo cominciasse veramente a crollare. All’epoca dei suoi comizi aveva quattordici anni, dunque ora poteva averne circa venti. Doveva aver sofferto parecchio la povera attivista svedese. Poche ventenni avevano rughe tanto profonde e uno sguardo così allucinato.

Si ricordò che inizialmente i quotidiani dell’epoca avevano tentato di distruggerla, lamentandosi della sua bruttezza dovuta anche alla sindrome di down che seppur leggera la rendeva piuttosto inquietante. Poi l’avevano incolpata di corrompere gli altri giovani, costringendoli a scioperare anziché andare a scuola. Infine quando cominciarono i veri disastri naturali, l’accusarono di aver portato sfortuna, quasi fosse colpa sua. Altri avevano detto che era solamente una marionetta comandata dalle industrie bioetiche.

Effettivamente con la comparsa di Gaia e del movimento wake up! moltissime aziende avevano cominciato a preoccuparsi del cambiamento climatico. O meglio, non certo delle sofferenze della terra in sé, ma del cambiamento economico che questo poteva significare. I genitori venivano accusati dai propri figli di star loro rubando il futuro. Crollò il mercato della plastica monouso e tante mamme smisero controvoglia di comprare carne e pesce. Cominciò ad andar di moda far la spesa ‘alla spina’: la gente cercava di non acquistare prodotti imballati e questa fu la rovina di tre quarti delle catene di supermercati.

Purtroppo fu solo una moda passeggera. Le faccende più importanti, come le emissioni di gas serra o la deforestazione, restarono invariate: a nulla valsero tutti i discorsi di Gaia ai vari parlamenti d’Europa. I politici al massimo pensavano a farsi un selfie con lei per acquistare popolarità. Le centinaia di scioperi dei bambini ebbero un grande successo sui social network e nessuna risonanza nel mondo reale. Nessun radicale cambiamento venne fatto durante gli anni di attivismo del collettivo wake up! I gas continuarono ad aumentare e la temperatura ad innalzarsi. Con lo scoppio delle prime risacche di metano fino ad allora contenute dal Permafrost e il diffondersi di nuove epidemie, Gaia e i principali membri del collettivo accettarono l’offerta di asilo del Regime francese.

“Non c’era più niente da fare” sembravano dire i suoi occhi senili.

Maya fissò entrambi. Erano dei cari ragazzi. Se i loro genitori e nonni non fossero stati così ignoranti ed egoisti, probabilmente nessuno di loro si troverebbe lì, ora.

Il silenzio perdurava e Maya esasperata disse: “Verrò volentieri dopo il discorso a tenere qualche lezione. Se sarò ancora viva. Ho saputo che vogliono fare qualche esperimento su di me durante la mia permanenza alla centrale. Non so dirvi di più”.

“Nessuno sa dire di più” disse il ragazzo alla porta. Era sereno. Tranquillo.

Persino Gaia aveva cambiato espressione: le stava quasi sorridendo.

“Qui si fanno esperimenti di ogni genere sugli umani”, disse poi, “ma ti prometto che io e gli altri ragazzi ti staremo vicino in ogni caso.”

Se Maya fosse stata in un mondo normale avrebbe pianto. Erano le prime e uniche persone a mostrare un po’ di gentilezza ed empatia nei suoi confronti da quando si ritrovava quel rinoceronte nel ventre. Per un attimo, ma fu solo un attimo, pensò ci fosse ancora speranza. Un cambiamento o una fuga. Chissà se quei ragazzi approvavano il Regime.

Senza timore, glielo chiese.

Loro con aria beffarda dissero in coro sì.

“Certo che sì”, continuò poi Gaia, “e cosa altro si può fare ora? Gli ecosistemi al di fuori della Francia stanno saltando, quasi tutte le specie selvagge in natura sono estinte, i ghiacciai si sono sciolti troppo per tornare indietro. Possiamo solamente sperare di vivere in questa gabbia e che le specie si riproducano, ritornino forti e pronte a ripopolare il pianeta.”

“Ho sentito che vi siete anche convertiti al catarismo” continuò lei.

Gaia annuì. Del resto era vestita completamente di nero.

Poi disse: “Per anni nelle mie conferenze insistevo che l’uomo non era cattivo ma solamente disinformato. Dicevo che per colpa di una piccola élite che voleva fare un mucchio di soldi si tenevano all’oscuro le persone sul cambiamento climatico. Che se l’avessero saputo avrebbero agito. Mi sbagliavo. Anche quando è stato ovvio nessuno o quasi ha mosso un dito. Erano tutti o a casa a guardare serie tv, mangiando hamburger o chi era vegetariano pensava già di fare molto: andava in bicicletta e si lamentava che non c’erano più le stagioni. I politici e le star che avrebbero potuto fare davvero qualcosa continuarono a prendere aerei per affari inutili o per i loro costosi ritiri yoga in angoli sperduti del pianeta. Dunque sì, ho cambiato idea. L’uomo è malvagio. O meglio, inadatto a vivere su questo pianeta e l’estinzione della razza umana – come sostiene il catarismo moderno – è la soluzione migliore. Ma prima dobbiamo rimediare ai danni che abbiamo fatto. Prenderci cura delle altre specie, ridare loro una possibilità”.

“Voi non avete fatto niente”, replicò Maya, “voi due almeno. E avreste tutto il diritto di vivere a lungo e riprodurvi, se voleste.” La sua voce tentennò e Gaia si accorse di cosa stava pensando di lei: era handicappata. I suoi figli sarebbero stati handicappati quasi di sicuro.

“Il mondo è stato creato da un dio cattivo. La materia è corrotta. L’uomo è figlio di questo dio cattivo” disse senza troppa convinzione il ragazzo sulla porta. E poi aggiunse: “Spero tanto tu possa venire a parlarci di Eraclito, tra qualche giorno”.

“Non pensate”, se ne uscì Maya quasi disperata, “che forse sia tutta colpa di qualche malsana teoria dell’uomo che secoli fa ha cominciato a dividersi dalla natura e che invece, se avessimo seguito altri tipi di pensiero come quello degli egizi, dei celti o degli indiani d’America, l’uomo non sarebbe stato poi tanto male come abitante della terra?”

Il ragazzo sulla porta incrociò le braccia e sorrise: “Li hanno massacrati tutti. Questi popoli pacifici sono stati letteralmente maciullati da noi”.

“Sì, ma ad esempio voi, ragazzi, che siete stati così coraggiosi anni fa e che ora vivete qui coltivando i vostri ideali, non pensate potreste essere una nuova specie più buona e gentile e che assieme agli animali, che di nuovo si stanno riproducendo, potreste costruire un nuovo pianeta?”

“Siamo catari”, tagliò corto Gaia, “non crediamo al miglioramento della razza umana. L’unica cosa a cui aspira un cataro dopo la morte è la reincarnazione in una creatura migliore. Io vorrei essere un cespuglio di more, ad esempio. Sicuramente una pianta.”

“Ehi, non ne abbiamo mai parlato!” esultò il ragazzo sulla porta. “Io, invece, vorrei rinascere uccello. Di quelli che stanno nella foresta tropicale, tipo un paradiseide.”

Erano dei bambini, in fondo. Costretti in tenerissima età a far discorsi da adulti, a comprendere ancora di più di un adulto quello che c’era da fare. E a non venire ascoltati. Il catarismo forse era il male minore, pensò Maya. Magari in futuro non sarebbe più stato necessario. Sarebbe stata curiosa di vederli crescere, scoprire cosa sarebbero diventati tra qualche anno. Per la prima volta in vita sua si augurò che la specie umana continuasse.

Ma proprio in quel momento entrò l’infermiera e invitò i due piccoli ospiti ad uscire. La paziente doveva riposare. Senza degnarla di uno sguardo cacciò fuori con gentilezza i ragazzi e chiuse la porta.

Maya allora riaffondò la testa nei suoi appunti e poco dopo, stremata, si addormentò sbattendo con violenza la fronte sui fogli.

 

 

 

XIV

“Cazzo, cazzo, le maschere, cazzo… Marcus!”

Che gli era preso adesso? Weber si era allontanato per qualche secondo, probabilmente a sniffare la sua cocaina blu ‘senza conseguenze’ ed era ritornato spaventosamente su di giri.

“Quali maschere?” chiese Clemente.

Weber lo guardò sorridendo. Sì, si era ricaricato per bene…

“Per i prossimi condannati. Le ho fatte io, personalmente! Maschere con pelli di animali, cani e lupi per la precisione, ovviamente ho usato cadaveri morti di morte naturale.”

Clemente gli osservò le labbra: erano piene di piccole crepe. I suoi occhi erano diventati di un blu più intenso. Quella sostanza era davvero devastante.

“Sì”, continuò Weber, “per queste spie maledette ho confezionato di mia mano le stesse maschere con cui venivano mandati a morte parricidi e traditori della patria nell’antica Roma. Ma le ho lasciate in ufficio, merda!”

Clemente non poté fare a meno di obbiettare che non sarebbero nemmeno dovuti venire: generalmente non si assisteva alle condanne ad bestias; c’erano, d’accordo, servivano a far divertire gli animali ma la situazione stava diventando surreale. Cos’era poi questa storia delle maschere?

“Non siamo nell’antica Roma e questo non dovrebbe essere uno spettacolo” disse con tono gentile, per non irritarlo.

Weber non solo si irritò ma andò su tutte le furie. Urlò che quella gente aveva cercato di trafugare i suoi studi sul nucleare vendendoli alla Russia. C’era forse qualcosa di più grave? Con tutti gli investimenti che il governo stava facendo sul progetto ITER, mancava solo che le scoperte che avrebbero permesso la realizzazione di un’energia pulita totale venissero divulgate prima di essere sperimentate.

“Si ricordi che la Russia è l’unico stato assolutamente contrario al vegetarianesimo, permette ancora la caccia e non ha nessuna intenzione di ritirare le industrie a carbone fossile. Volevano i miei studi per screditarmi e far credere fossero completamente sbagliati al mondo intero! Il minimo che posso esigere per questa gente è un supplizio esemplare e catartico.”

Dopo avergli lanciato un’occhiata prima d’odio, subito seguita da un’inquietante indifferenza, come se improvvisamente Clemente si fosse sbriciolato sotto i suoi occhi, chiamò a gran voce Marcus. L’infido arrivò in un baleno, sfoderando il solito odioso inchino.

“Marcus, ho dimenticato in ufficio le maschere per i condannati di alto tradimento, manda subito qualcuno a prenderle.”

Il servo annuì e fece per andarsene.

“Ah, e richiama i musicisti, intendo dire l’orchestra barocca arrivata ieri, non capisco perché non sono ancora arrivati. E poi organizza i servitori con le torce, digli di portare anche fiaccole e candele: voglio far buio prima che arrivino i catari. A proposito, dove sono?”

Clemente, questa volta con distacco, osservò Marcus. Effettivamente ne aveva di pazienza! Senza muovere un solo muscolo facciale aveva accolto tutte quelle assurde richieste come se fosse la normalità. Probabilmente per lui lo era. Vero che la centrale era estremamente cambiata dall’arrivo di Weber. Tutti quegli straordinari edifici non si erano certo costruiti da soli in una notte. Senza dubbio erano frutto di intuizioni deliranti e ordini folli dati a destra e a manca. Quanto all’idea di far cambiare il colore del cielo o meglio del soffitto, non pensava fosse possibile. Evidentemente anche questo era il risultato dei lavori di rinnovamento.

Marcus disse che i catari erano ancora fuori dalla centrale. Sarebbero arrivati una mezz’ora più tardi.

Weber allora respirò forte, sollevato. Licenziò Marcus con un gesto e si girò verso Clemente:  “Perdonami, a volte mi faccio prendere dall’ansia. La verità è che i catari stanno arrivando con notizie importanti, spero non sia niente di catastrofico per noi. Scusa ancora”.

Gli si avvicinò e inaspettatamente affondò la testa nell’incavo della sua ascella come talvolta fanno i cani. Clemente dapprima impietrito, poi commosso, prese ad accarezzargli i capelli. Weber si staccò con dolcezza: “Spero le maschere ti piaceranno. In fondo l’ho fatto anche per motivare i lupi. Non attaccano facilmente gli uomini, così le maschere servono ad eccitarli”.

“Sì, capisco” disse piano Clemente.

La follia di Weber aveva per lui un aspetto estremamente terapeutico. Nelle poche ore passate insieme tutte le insicurezze degli ultimi tempi stavano scomparendo: era lui il più forte nella coppia. Non aveva dipendenze da droghe né manie di onnipotenza. Sotto la sua guida Weber sarebbe tornato sereno. Presto le riserve avrebbero prodotto abbastanza prede naturali per gli animali feroci e quando i pochi uomini rimasti sarebbero definitivamente esauriti, l’ecosistema avrebbe ripreso a funzionare perfettamente. Era solo questione di tempo. Loro assieme a pochi altri avrebbero continuato a lavorare con serenità fino alla loro morte, che sperava rapida e indolore.

Quando gli americani videro arrivare il piccolo ensemble barocco, rimasero di stucco. Nondimeno i musicisti, senza scomporsi di un millimetro, chiesero a Weber che musica volesse.

“Qualcosa di allegro”, disse lui, “Monteverdi, magari… sì, Monteverdi, il compositore preferito del capo dei catari.”

I musicisti e soprattutto il direttore, fatalità russo, si misero astutamente di tre quarti al Belvedere. In tal modo durante il loro concerto non avrebbero visto l’ad bestias in atto. Si sa, gli artisti sono persone sensibili.

“A breve farò diventare notte, riuscite a suonare lo stesso? Posso far portare quattro o cinque torce.”

“Perfetto” si limitò a rispondere il direttore.

 

 

 

Il segreto è negli oceani profondi, lì dove l’uomo non è mai stato e i re ancora brillano e non toccano terra. Hanno reami così vasti che, come nelle fiabe, il loro sguardo vi si perde senza nemmeno bisogno di immaginare una battaglia, perché non vedono l’avversario.

Famosa è la frase di Empedocle : “Già… pesci”.

 

Clemente si svegliò di soprassalto.

Era crollato qualche minuto prima su una sdraio del belvedere così come se fosse stato al mare, mentre in basso le iene si accanivano sul cadavere di Ilde con orribili guaiti di piacere. Ora aveva freddo, la temperatura sembrava essersi abbassata.

Si guardò attorno: gli americani, come una cucciolata di cagnolini abbandonati, stretti gli uni agli altri su delle sedie poco più in là, parlavano a bassissima voce. Persino Scott dopo le sferzate di Weber sembrava meno sicuro di sé. Si guardavano attorno smarriti, aspettando il peggio.

I musicisti stavano ancora accordando: gli strumenti barocchi richiedono tempo e senz’altro quegli sbalzi di temperatura non aiutavano. Weber era scomparso.

Clemente tornò ad allungare il collo sulla sdraio, cercando di ignorare i fastidiosi guaiti delle iene. Quanto tempo sarebbe durata ancora questa damnatio ad bestias? Cominciava a non poterne più. Avrebbe voluto tornare a rivedere i suoi appunti, senza gente attorno. Tuttavia non poteva fare altro che aspettare i Catari. Sparire adesso avrebbe rasentato la diserzione.

Si perse con lo sguardo in alto sull’enorme cupola. Oltre il vetro, oltre la finzione, oltre quello che ora li proteggeva. E fuori dalle calotte non stava avvenendo nulla di rassicurante; nonostante i vetri fossero molto spessi, intravedeva sagome di gigantesche nubi gialle che correvano veloci. Sentiva l’inquietante rumore del vento, un vento che aveva fame. Quando il cielo mutava così, ancora gli venivano i brividi, nonostante fossero anni che il clima mostrava il suo terribile volto. Si ricordò delle prime volte, quando era un giovane studente e passava i pomeriggi a guardar fuori dalla finestra: a volte il cielo diventava di piombo e nuvole grandi come titani sembravano arrivare da paesi ignoti per distruggere tutto. All’epoca non succedevano ancora grandi catastrofi, forse qualche pioggia battente, i raccolti distrutti e le strade allagate, ma nulla più. Eppure si sapeva.

Si sapeva e si ignorava ciò che stava arrivando.

I suoi genitori però, vegani e catastrofisti, lo avevano allevato nella paura: per lui la natura non era che una strage di illusioni, prima tra tutte l’uomo. Ricordò sorridendo i tempi eroici e speranzosi dell’infanzia, dove il suo gioco preferito era il Diluvio Universale. Metteva tutti i peluche in un’arca e lui interpretava Noè.

Dilatò gli occhi: una pioggia furiosa stava cominciando ad accanirsi sui vetri delle calotte: doveva trattarsi di grandine di dimensioni bibliche, a giudicare dal fracasso.

Ma lì erano al sicuro. Come sotto all’oceano, pensò.

In quel momento arrivò Weber trafelato con un sacco in mano, seguito da una donna alta e ben vestita.

“Eccoci qui, vi presento Svevja, mia sorella. In attesa dell’arrivo dei catari, come preannunciato, effettueremo una dimostrazione di cambiamento interno. Passeremo dal giorno alla notte tramite un sistema computerizzato.”

Gli americani si alzarono di scatto sulle sedie, come sperassero di svegliarsi da un incubo terribile. Clemente invece preferì osservare la scena seduto.

La donna tirò fuori un minicomputer dalla borsa elegantissima e cominciò a battere sulla tastiera. Weber continuò: “È un sistema di oscuramento e illuminazione dello spazio nelle calotte totalmente artificiale che abbiamo di recente messo a punto. Vi chiederete perché, vista la trasparenza delle cupole… Ebbene, meglio essere onesti, dato che siete venuti fino a qui per comprendere i nostri metodi. La verità è che ci prepariamo all’eventualità che in pochi mesi fuori possa non esserci più la notte. O il giorno. Tutto può accadere, in questo periodo di cambiamento climatico, e noi non ci faremo sorprendere. Ecco, vedete, guardate in alto, le calotte cominciano ad oscurarsi”.

Gli americani con la bocca spalancata fissarono quel cielo artificiale coprire l’altro cielo, diventando scuro e impenetrabile. La sorella di Weber continuava a digitare sul suo computer, probabilmente gli era gemella in quanto a genio. In pochi minuti fu notte e cominciarono ad arrivare decine di servitori con fiaccole e candele.

Clemente, rinvigorito dallo scenario romantico, si alzò dalla sdraio e fissò il suo innamorato. Al buio era ancora più bello, come tutte le cose preziose. Sembrava un soldatino di ceramica, decorata d’oro e cobalto. Weber gli sorrise. Erano, i suoi, denti di bambino, bianchi e forti. La sorella chiuse di scatto il computer e lo infilò nella borsa.

Senza dire una parola si dileguò con un cenno del capo a Weber, che ricambiò con sottomissione. Poi il suo amato si avvicinò agli americani, aprendo il sacco: “Allora, eccoci qui! L’altro motivo per cui oggi ho scelto la notte è per i nostri amati lupi, che preferiscono attaccare al buio. Ho portato altri binocoli, più potenti. Funzionano anche nell’oscurità, grazie alle lenti radar. Con questi non perderemo il minimo dettaglio”.

Gli americani accettarono rassegnati. Clemente, inforcando il binocolo, vide ciò che rimaneva del cadavere della sua ex assistente. Le iene avevano fatto un lavoretto di fino. L’enorme carcassa era ridotta ora a uno scheletro lungo e sanguinolento. Tutto il grasso era sparito. Il mostro era stato mangiato. Weber nel frattempo si era avvicinato ai musicisti, esortandoli ad iniziare. Le note di Monteverdi cominciarono a spargersi nell’aria.

Poi si mise accanto a Clemente e inforcò il binocolo: “E bravi Marcus e i suoi ragazzi, stanno già sgombrando il campo dal cadavere dell’infermiera, a breve facciamo entrare i prigionieri!”

Osservarono i servitori che con zelo, allontanando gentilmente le iene minacciose, portavano dietro alla radura i resti di Ilde. Si muovevano al buio. Le fiaccole infatti avrebbero spaventato le iene. Tuttavia una volta che il campo fu sgombro giunsero altri soldati con delle enormi torce che piantarono a terra, poco distanti le une dalle altre, illuminando così sinistramente la radura.

“Ecco i condannati, arrivano!” esultò Weber.

E questa volta persino a Clemente venne la pelle d’oca.

Nel buio avanzò un carro sul quale stavano una decina di uomini, legati ciascuno ad un palo. Una volta che il carro fu fermo al centro della radura, i soldati scaricarono ad uno ad uno i condannati, piantando i pali nel terreno a semicerchio. Dopo qualche minuto tutte le spie che avevano collaborato con la Russia si trovarono mani e piedi legati alle forche, pronti ad affrontare i lupi.

Il turpe Marcus con passo cadenzato (stava forse cercando di seguire la musica di Monteverdi che arrivava dal Belvedere) infilò su ogni testa dei condannati le maschere di Weber. Erano raccapriccianti. Fatte di peli di animali, contornavano la faccia come una malformazione genetica. Un’americana dopo averli osservati con il binocolo urlò forte. Poi gettò il binocolo a terra e cominciò a correre lontano dal Belvedere. Dopo pochi minuti venne riportata in lacrime da due guardie vestite di verde. Ritornò vicino alle altre due donne che la abbracciarono nel più cupo silenzio. Scott con voce sommessa chiese un bicchier d’acqua.

“Ma certo!” disse Weber e come se fosse la cosa più naturale del mondo versò quattro bicchieri e li diede agli americani terrorizzati.

In quel momento tornò Svevja, alta e maestosa. Prese in disparte Weber. Clemente la udì sussurrare: “Stanno arrivando, fai cominciare la damnatio”.

E si dileguò nel buio.

Come un soldatino ubbidiente Weber fischiò. Era il segnale. Dopo qualche minuto due lupi entrarono nella radura guardinghi. Weber si avvicinò all’orecchio di Clemente.

“Il branco dev’essere ancora nascosto nelle siepi del bosco, hanno mandato due in avanscoperta. Sai, il lupo, poveraccio, ha ancora il terrore dell’uomo. Secoli di massacri insensati non si cancellano con niente. Ma i prigionieri legati e coperti dalle maschere dovrebbero fare loro meno paura. Ecco, guarda.”

I due lupi, tutt’altro che timorosi, cominciavano ad annusare le loro vittime legate ai pali. Non appena uno di loro urlò dal terrore, gli furono addosso. Uno dei lupi, con un balzo, gli si attaccò coi denti ad una spalla, strappandogliela.

“Cazzo, funzionano troppo bene questi binocoli, riesco persino a vedergli la clavicola e i nervi, adesso che è senza pelle… anche tu caro?”

“Sì, sì” si limitò a rispondere Clemente.

Era nauseato. Eppure, più Weber rivelava il suo lato morboso, più cresceva la voglia di scoparlo. Non solo. Il desiderio di passare una vita insieme, lontani da tutto questo, era alle stelle.

Ora uno dei lupi stava sbranando una coscia al poveraccio mentre l’altro si attaccava con voracità ai suoi piedi grassocci, che in meno di qualche minuto vennero ridotti a brandelli. Senza sapere perché, Clemente non riusciva a staccare gli occhi dalla vittima. E così gli altri. Persino le donne erano ora in piedi, binocolo sugli occhi, bocche spalancate. Quelle membra lacerate stillanti sangue erano ancora vive ed il corpo non aveva più la forma di un corpo.

Il supplizio come spettacolo, ancora una volta, trionfava.

Dopo aver affondato i denti su tutti gli arti e il condannato esalato l’ultimo respiro, i due lupi presero ad annusare gli altri.

Fu allora che, tra sinistri ululati, comparve il branco.

Seguì un attimo che a tutti parve eterno. I due lupi raggiunsero gli altri  e si misero a cerchio poco distante dai condannati, quasi tenessero conciliabolo. E poi con inaspettata violenza li attaccarono in massa. Le loro grida sotto i denti dei lupi divennero talmente alte da coprire completamente la musica.

Svevja riapparve come uno spettro accanto a loro.

“Sono arrivati i catari, girati” sussurrò al fratello.

“Tempismo perfetto” esultò Weber voltandosi.

Clemente seguì con lo sguardo il suo amato raggiungere un oscuro gruppo che proveniva dalla direzione opposta alla radura. Nel buio e a distanza non riusciva a contarli: erano dieci, forse quindici persone, totalmente vestite di nero. Decise di avvicinarsi per vederli meglio ma venne fermato dalla mano di Svevja. Fredda come il ghiaccio gli intimò di stare fermo dov’era. Il servitore che reggeva la torcia vicino a lei tremava.

Forse quella donna era crudele più di quanto dava ad intendere. Chiaramente aveva una cattiva influenza su Weber, bastava vedere come si faceva comandare da lei. Un cagnolino. Clemente la assecondò e si mise in disparte. Si sarebbe liberato di lei piano piano, insinuando in Weber il desiderio di libertà, ma ci sarebbero voluti anni. Per ora era meglio non mettersi contro quella specie di strega del nord. Anzi, nel buio le sorrise.

Lei chiaramente lo guardò come fosse un cretino.

Poco distante sentiva le donne americane piangere, implorando di smettere la carneficina dei condannati.

Clemente, immobile vicino a Svevja, si felicitò interiormente con il Regime per averli liberati dall’illusione di poter soffrire per gli altri. Certo, anche lui di recente era stato male nel vedere tutte le donne morirgli di parto tra le braccia, ma non era esattamente compassione. Aveva più a che fare con se stesso, le sue frustrazioni e l’incomprensibile volere del Regime di impiantare feti nei ventri di ragazze sane e talentuose. Non lo trovava necessario, anzi onestamente pensava fosse una cazzata intrisa di deliri di onnipotenza. La metamorfosi invece lo interessava. Improvvisamente tornò ad angosciarsi per l’esperimento.

Da quando aveva incontrato Weber non ci aveva quasi più pensato ed eccolo di nuovo col respiro corto dall’ansia. Oltretutto i catari erano adesso a pochi metri da lui; avrebbero sicuramente chiesto informazioni. Respirò a fondo. E tra le urla strazianti che ancora provenivano dai condannati nella radura cercò di calmare la mente.

Inutile: l’odore del profumo di Svevja, pesante e complicato, gli ostruiva ogni canale percettivo. Rassegnato mise le mani in dhyana mudra e cercando un’impossibile imperturbabilità, attese silenzioso l’approssimarsi dei Perfetti.

 

 

Immagine di copertina: Opera grafica di Mubeen Kishany.

Riguardo il macchinista

Walter Valeri

Walter Valeri poeta, scrittore e drammaturgo è stato assistente del premio Nobel Dario Fo e Franca Rame dal 1980 al 1995. Ha fondato il Cantiere Internazionale Teatro Giovani di Forlì nel 1999. Successivamente ha diretto il festival internazionale di poesia Il Porto dei Poeti a Cesenatico nel 2008 e L’Orecchio di Dioniso a Forli' nel 2016. Ha tradotto vari testi di poesia, prosa e teatro. Opere recenti Ora settima (terza edizione, Il Ponte Vecchio, 2014) Biting The Sun ( Boston Haiku Society, 2014), Haiku: Il mio nome/My name (qudu edizioni, 2015) Parodie del buio (Il Ponte Vecchio, 2017) Arlecchino e il profumo dei soldi (Il Ponte Vecchio, 2018) Il Dario Furioso (Il Ponte Vecchio, 2020). Collabora alle riviste internazionali Teatri delle diversità, Sipario, lamacchinasognante.com Dal 2020 dirige i progetti speciali del Museo Internazionale della Maschera “Amleto e Donato Sartori”. È membro della direzione del prestigioso Poets’ Theatre di Cambridge (USA).

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