L’arte di disegnare con la voce l’idea – Tre poesie di Julio Monteiro Martins da La grazia di casa mia (Rediviva,2013)

# That's the matter

Verbi gratia

 

Avevo tanta paura
dei sostantivi astratti
che mi sentivo al sicuro
persino fra gli aggettivi.

 

Paura per esempio
della parola libertà
(è usata in sensi opposti,
uno a destra,
l’altro a sinistra,
e nessuno dei due credibile).

 

Ero anche allergico
al concetto di verità.
Tagliato su misura
per ogni convenienza
da un tessuto logoro,
dai brandelli dei fatti.

 

Volevo circondarmi
di sostantivi concreti,
di cose semplicemente:
conchiglia, candela,
cometa, sapone,
vaniglia, frittella.

 

Chiudevo gli occhi
e questi sostantivi
sfilavano dentro di me,
uno scaffale vivente,
come un tesoro
alla portata dei miei verbi.

 

Ma il mondo
è tanto cambiato.
Come potevo indovinare?
I suoi nuovi abitanti
volevano concretezza.
E una paura inedita
mi assalì,
assediato com’ero
dai motorini,
dalle catenine d’oro,
dalle barche e dalle macchine,
dai rolex,
dalle carte di credito.
Troppi sostantivi
inqualificabili.
Troppi soggetti,
nessun predicato.

 

E ora s’insinua in me
la doverosa nostalgia
dei sostantivi astratti:
chi l’avrebbe detto!
Princìpi, lucidità,
equilibrio, equità,
riflessione,
coerenza, correttezza,
fierezza,
dignità
(e anche la parola astrazione,
per ironia,
oggi mi sembra bella).

 

Magari sono cambiato io
dopotutto.
Forse ho capito
che tutti i sostantivi
sono astratti.
Che parola è parola
e cosa è cosa,
e che è molto pericoloso
scambiare una per l’altra.

 

Più lontana dalle cose
è la parola
più vicina sarà a se stessa.

 

Se guardandosi intorno
dopo averla ascoltata
non si trova niente
che le somigli,
prendiamola come un invito
sottile
a un pensiero nuovo,
o un richiamo
a un’antica arte.

 

L’arte di disegnare
con la voce
l’idea,
per poi versarla sulle cose
e intingerle di senso.

 

Oggi ho paura e amore,
parole astratte
ambigue e imperiture
tra le nostre mani.

 

Eclissare il Taj Mahal

 

Perché un amore
non fosse dimenticato
il principe Shah Jahan
fece erigere
il palazzo più bello
e gli diede il nome
dell’amata morta
Mumtaz Mahal.

 

Dopo molti anni
il principe moriva
e ammirandolo
forse confondeva
il marmo bianco
con l’ultima pelle
dell’amata morta.

 

O forse voleva dire
una cosa molto semplice,
che il suo non era stato
un amore
ma l’amore.

 

Anche a me
che non sono un principe
si è presentato l’amore,
molti anni fa
(l’amore è democratico,
poveri noi!).
Per l’amore
– dovete perdonarmi –
non ho fatto erigere
il Taj Mahal.
Non ho scolpito
in suo omaggio
un monolito,
né inciso
una lapide.
Per rispetto o per timore
non ne ho scritto
una sola riga,
tranne queste.

 

La scomparsa dell’amore
l’ho vissuta soltanto
come un buco,
un cratere,
del tutto alieno
a ingegneri e architetti.

 

L’amore che è stato,
che un giorno ha fermato il tempo
e oggi mi ferma il cuore,
è solo una parte di me
che si è volatilizzata.
Una grande cancellatura
non so dire esattamente di cosa.
Se potessi disporre
di marmo,
schiavi,
anni,
non erigerei comunque
il Taj Mahal.
Rimarrei in silenzio
come ora
a vedere crescere il nulla,
a vedermi sciogliere
come la noce di burro
al centro della padella.

 

Non avrei eretto
il Taj Mahal,
non avrei nemmeno
graffiato su un albero
il nome dell’amata morta.
Non l’ho mai fatto.

 

Penso agli altri, sappiatelo.
Per proteggerli
dell’ineludibile
sentimento di cratere
che l’amore lascia:
la sua impronta
immateriale.

 

 

Per proteggere
chi non ama
dalla vista del cratere,
dalla vertigine
al guardarne il fondo.

 

 

Seduto immobile

 

Seduto immobile
ho visto spegnersi
intorno a me
la mia generazione
come brace dispersa.

 

Fa buio
nell’angolo del mio cortile.
La notte s’illumina
di altri fuochi.
Ma io non li riconosco.

 

Sono il poeta
che ha deciso di non mentire.
Il poeta impopolare
a cui poco è rimasto
da dire.
Tre o quattro cose,
tutte cose tristi,
tutte cose vere.

 

Il vento che soffia nella notte
ad accendere fuochi
è lo stesso che consuma
la brace,
che porta via le cenere.
In balìa del vento
scompaiono le ultime tracce
di ciò che ho vissuto
di ciò che ho amato.

 

Tutto ciò che deve scomparire
scomparirà in mezzo
al turbinio,
al vociare stridulo,
ai tamburi, ai clacson,
a tutte le campane.

 

Baciata dal nulla
un’intera generazione
non è mai nata.
Le tenebre non custodiscono
residui di luce.

 

Baciato anch’io dal nulla,
sempre seduto e immobile,
spengo la mia memoria.
Un soffio e poi
l’oblio profondo
della memoria del mondo.

 

Dalla raccolta La grazia di casa mia (Rediviva Edizioni, 2013)

Immagine di copertina: Eleni Aidonidov “That’s the Matter 3”.

 

 

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

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