TEATRO OLTRE I LIMITI: IL DINAMISMO DELLA COMPAGNIA ARGENTINA FUERZA BRUTA

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FUERZA BRUTA: UN TEATRO DEL DINAMISMO

a cura di Grazia Fresu

Fuerza Bruta è un gruppo teatrale argentino nato nel 2003​ come progetto indipendente della compagnia teatrale De La Guarda, nel suo debutto a Buenos Aires con l’opera omonima. È una delle compagnie sceniche argentine di maggior successo nel mondo.

Diqui James nel 2002, insieme a vari membri de De La Guarda, fondò  Fuerza Bruta con il proposito di formare un gruppo che desse priorità alla creatività  e alla sperimentazione, basata su uno stile di costante innovazione estetica, realizzazioni sceniche di grandi dimensioni con mezzi tecnici, luminosi e sonori che, in uno spazio non convenzionale, apportassero allo spettacolo multimediale una originalità unica, il cui scopo era togliere il pubblico dalla sua posizione di passivo spettatore facendone parte integrante della performance.

Infatti una delle caratteristiche principali degli eventi di Fuerza Bruta è quella che il pubblico partecipa e accompagna i protagonisti nel loro dislocamento scenico e questa prossimità diventa parte della stessa dinamica della proposta.

Il teatro di Fuerza Bruta trae origine dalla storia del circo “criollo”[1] argentino  che si considera storicamente come l’origine del teatro in Argentina. Insieme al Cirque du Soleil lo si considera un esempio straordinario di Teatro sperimentale totale.

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Gabriel  Kerpel, creatore della musica degli spettacoli di Fuerza Bruta, li definisce  come esperienza di  teatro dinamico e di immersione in uno spazio dove la velocità  degli stimoli ricevuti supera la reazione intellettuale  e permette che l’emozione arrivi prima. Il dinamismo delle azioni spezza la soggezione intellettuale al linguaggio, con tutti i mezzi disponibili, entrando direttamente, senza alcun tipo di mediazione razionale, nella sensibilità dello spettatore.

Gli attori sono allo stesso tempo acrobati, andinisti, musicisti, ballerini e interpreti che, appesi a vari apparati scenici, propongono un teatro che da dinamico diventa aereo sulle teste stesse degli spettatori, inondando il pubblico di sensazioni mai provate. I corpi degli attori colpiscono superfici, oggetti, altri corpi, senza violenza ma con intensità.  Energia, movimento, acqua, musica, volo e sorpresa, sono gli elementi che si fondono per spezzare il campo della ragione e risvegliare i sensi.

Difficile incasellare la loro proposta artistica in un genere determinato, solo possiamo definirla come una esperienza unica, dove il cambiamento constante della dinamica ci permette come spettatori una simultaneità delle sensazioni sconosciuta non solo nel teatro tradizionale ma anche in molte proposte d’avanguardia.

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Wayra, il loro ultimo spettacolo che ha girato il mondo, non ci dà respiro, ci sommerge in un’atmosfera che tra musica, ballo ed esperienze visuali ci raggiunge in qualsiasi parte dello spazio siamo collocati, dal momento che è un’esperienza interattiva dove ognuno è parte attiva dello spettacolo. Lo spazio vuoto, sempre enorme, senza poltrone, gradinate o scenario convenzionale riceve il pubblico che già dal primo impatto visuale si ritrova come in un’enorme placenta.

Tutto può accadere in Wayra, parola di origine aymara[2], che significa “vento, aria”.

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Nello spettacolo i quattro elementi –fuoco, terra, acqua e aria– sono presenti in svariate forme: tanto negli interventi degli attori come negli effetti tecnici. La forza degli elementi attiva uno spazio che non esclude nulla. Per tutto il tempo la dualità

la fa da padrona, tra microcosmo e macrocosmo, tra rumori assordanti e silenzio, tra rituale e virtuale, a volte presentandosi come fusione di elementi, altre volte come irrisolvibili ossimori. Il tetto sulle teste di tutti si trasforma ben presto in una piscina che li sovrasta, in un liquido amniotico, in un oceano ancestrale su cui si muovono i corpi degli attori, non si sa se nuotando o volando sul pubblico, dove i sensi – vista, udito, tatto – sono mantenuti costantemente allerta.

Poi questo telone trasparente pericolosamente si abbassa sulla testa degli spettatori, costringendoli a volte quasi ad accucciarsi su sé stessi, il contatto tra il terreno che si calpesta e lo spazio aereo che sovrasta vanno progressivamente cancellando la linea divisoria tra chi osserva e chi è osservato. È qui che i cellulari sopra le teste degli spettatori scattano foto per registrare un evento impossibile da definire ma che si vuole immortalare in un’immagine che conservi la memoria delle emozioni provate in quell’invito continuo ad agire, a muoversi, a ballare, a toccare, a visualizzare quel sogno onirico che avanza e retrocede fuori e dentro di tutti in un moto perpetuo.

Le scene si succedono come sequenze accelerate di una storia ciclica che sembra non aver fine, nel loro alternarsi di scariche di dinamismo/euforia e buio/silenzio, per attendere quello che deve avvenire, sempre sorprendente, in quella collocazione spaziale che costringe gli spettatori a spostarsi rapidamente dalle loro posizioni precedenti. L’incertezza è latente su tutto: dove si svolgerà la prossima scena, un quadro è in relazione con l’altro, si sta raccontando una storia o sono solo frammenti, dove avviene il conflitto e tra che cosa?

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Fuerza Bruta semina l’inquietudine, moltiplicando il gioco delle sue proposte e i punti di vista, tanti come gli occhi che guardano. Il suo grande successo probabilmente si deve a questa sua capacità di entrare nella sensibilità di un pubblico moderno per cui la realtà molteplice è un approccio possibile alla conoscenza del mondo, un pubblico che non vuole essere inchiodato a una poltrona, che vuole cambiare prospettiva con la velocità con cui fa zapping, un pubblico che vuole, sollevando le braccia, toccare con le mani quello che gli viene offerto, e alzando gli occhi incontrarvi sopra gli occhi degli altri che a loro volta lo guardano, e vuole ballare con gli attori  in un gioco di rimandi reciproci.

Fuerza Bruta ci presenta sempre uno spettacolo che è sia argentino che internazionale. C’è qualcosa, nella musica, nei tamburi e in quella strana cumbia[3] elettronica che accompagna atti e gesti, che ci colloca immediatamente nell’atmosfera di una festa, una festa che sembra tutta argentina ma che ha comunque trionfato in molte città del mondo. La ragione sta nella mancanza di dialoghi e nel costante richiamo ai sensi, che sono fattore comune per l’umanità. Le luci, la musica, i movimenti e i gesti sono ugualmente decodificabili da tutti, qualsiasi lingua si parli.

Fuerza Bruta diventa un’esperienza sensoriale, impossibile da tradurre a parole, che vale la pena vivere.

Tra tamburi, mimi e ballerini, uno show allucinante di luci, acrobazie acquatiche, una scommessa teatrale “totale”, musica elettronica, fusione di linguaggi scenici e persino con tracce di folclore orientale, lo spettacolo ci trasforma in bambini felici e pieni di meraviglia.

Il progetto Fuerza Bruta non solo ha percorso tutto il mondo, ha anche portato avanti una delle proposte più sconvolgenti di liberazione in America del Sud. La dinamica di immersione sensoriale degli artisti cerca di far tirare fuori allo spettatore tutta la sua energia concentrata, attraverso le esperienze sonore, visuali e corporali che offre. Con Fuerza Bruta non c’è tempo per fermarsi. Quello che si sperimenta è una festa dall’inizio alla fine, l’esperienza viscerale di liberarsi da ogni male all’apice della festa.

Diqui James, uno dei suoi fondatori, in un’intervista ha fatto un bilancio dei lunghi anni di carriera del gruppo.

“Quello che facciamo lo chiamo teatro. Succede che alcune persone, quando sentono la parola teatro, pensano che si siederanno su una poltrona e che ci sarà un palcoscenico dove ci sarà gente che parla. Al contrario, noi parliamo più di spettacolo, di show, di festa e di celebrazione e sì, quello che facciamo si ispira proprio a questo, al carnevale, alle feste popolari, al teatro di strada, in un linguaggio che tutti capiscono, senza essere elitario o in cui bisogna aver letto Shakespeare per capire di cosa stiamo parlando. La nostra cosa è per tutti e anche l’uso di questa lingua ci ha permesso di viaggiare in tutto il mondo perché non ci sono barriere culturali o linguistiche, né barriere con i codici locali, perché in fin dei conti è questo che ci piace, è questo che abbiamo scoperto”.

La caratteristica distintiva di Fuerza Bruta è quella di creare i suoi spettacoli dentro il binomio celebrazione/festa che sempre si traduce in un’esperienza liberatoria sia per gli attori che per gli spettatori. Gli attori sono continuamente messi in situazioni che li limitano e dalle quali si liberano, per esempio attraversando muri, e generando anche nel pubblico la stessa sensazione di libertà ed euforia. Questo atto di liberazione si ripete costantemente come tematica ricorrente nella storia di Fuerza Bruta, come esigenza intima e espressiva di un gruppo che venendo dall’America del Sud, specificamente dall’Argentina, porta in sé la storia tragica e difficile di una libertà periodicamente negata dalla efferatezza delle dittature e di conseguenza aspira alla libertà totale e alla felicità  che ne deriva. Gli Argentini di Fuerza Bruta portano in giro per il mondo la voglia di festeggiare la loro libertà in quel modo passionale e energetico che li contraddistingue. Spesso operatori teatrali di altre parti del mondo vedono in questa esplosione di vitalità l’espressione di una violenza, senza che lo sia. Ma la violenza con cui si distruggono oggetti e pareti, con cui si salta, si grida, ci si precipita l’uno contro l’altro, fa parte della carica emozionale e fisica del mondo sudamericano, quella che si nasconde dietro il nome stesso che il gruppo ha scelto, Fuerza Bruta, ossia una forza che colpisce e fa risuonare la passione che abbiamo dentro, senza violenza ma con intensità, qualcosa che non viene dall’intelletto, dai concetti, ma dall’energia primitiva, viscerale che muove la vita.

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Uno dei momenti maggiormente conosciuti e iconici del gruppo è stato la loro partecipazione ai festeggiamenti per il Bicentenario della Repubblica Argentina. Il 25 maggio del 2010, davanti a due milioni di spettatori, nella Plaza de Mayo, tra i monumenti rappresentativi della città di Buenos Aires -La Casa Rosada, il Cabildo l a Cattedrale-  il gruppo ha presentato 19 momenti iconici della storia argentina, dalle culture aborigene al processo di industrializzazione fino alla dittatura e alla guerra delle Malvinas. Arrampicandosi sugli edifici, volando sul pubblico, con un amplio ventaglio di proposte visuali e sonore, giocando con emozioni forti all’interno della propria storia nazionale Fuerza Bruta passava, per ovazione, da essere una formazione teatrale d’avanguardia per gruppi limitati di pubblico, a trasformarsi in una voce collettiva capace di attraversare tutte le barriere culturali di una società complessa. L’Argentina intera (l’evento fu trasmetto dalla televisione su tutto il territorio nazionale) si riconobbe in quell’evento/sfilata che ricostruiva la memoria e inneggiava alla coscienza e alla forza di un intero popolo.

Il pubblico di Forza Bruta è  oggi un pubblico dove si mischiano età, classi sociali, esperienze di vita, culture, un pubblico che accorre numerosissimo ad ogni convocazione di un Teatro che lo invita a una sfida continua, che non si limita solo a infrangere le convenzioni teatrali, ma che, rompendo la quarta parete, gli trasmette l’energia necessaria a mantenere vivo quello spirito di estetica e etica libertarie che, attraverso la mistura di danza, acrobazie, teatro, tecniche da circo, proiezioni, scenografie mobili, lo ha immerso completamente in un vitale dinamismo che è insieme ludico e festoso.

[1] Il Circo criollo (creolo) ebbe il grande merito di mettere in gioco qualcosa della identità

sudamericana, essendo stato il primo a smettere di imitare le arti provenienti dell’Europa, a metà del XVIII secolo in Argentina e Uruguay. Lo spettacolo consisteva in presentazioni in tendoni che viaggiavano di paese in paese. L’apporto dei fratelli Podestá nel XIX secolo lo rese un referente fondamentale di tutto il teatro rioplatense, ossia quello sviluppatosi in tutti i paesi bagnati dal Rio de la Plata.​

[2] Gli Aymaras sono un popolo indigena originario dell’America del Sud che abita l’altopiano andino del Lago Titicata, fin dai tempi precolombiani, e si estende tra il nordest dell’Argentina, l’occidente di Bolivia, il nord del Cile e il sudest del Perú.

[3] La cumbia: un ritmo musicale e ballo folclorico tradizionale dei Caraibi Colombiani.​​ Possiede contenuti di tre filoni culturali: indigena, africana ed europea, essendo frutto del lungo e intenso meticciato tra queste culture durante la Conquista e la Colonia.

Grazia Fresu_fotoGRAZIA FRESU Nata a La Maddalena, Sardegna, dottore in Lettere e Filosofia all’ Università “La Sapienza” di Roma, specializzata in Storia del teatro e dello spettacolo. A Roma ha lavorato per molti anni come docente e ha sviluppato la sua attività di drammaturga, regista e attrice e dal 1998, inviata dal Ministero degli Affari esteri, si è trasferita in Argentina, prima a Buenos Aires e attualmente a Mendoza, dove insegna   lingua, cultura e letteratura italiana nel Profesorado de lengua y cultura italiana, Facoltà di Lettere e Filosofia, della Università Nazionale di Cuyo. È poetessa, con quattro raccolte poetiche edite: “Canto di Sheherazade”, Ed. Il giornale dei poeti, ROMA 1996, presentato alla Fiera del libro di Torino del 1997; “Dal mio cuore al mio tempo” che ha vinto in Italia nel 2009 il primo premio nazionale “L’Autore”, pubblicato nel 2010 dalla casa editrice Maremmi- Firenze Libri; “Come ti canto, vita?”, Ed. Bastogi, Roma 2013; “L’amore addosso”, Ed. Bastogi, Roma 2016. Nel 2021 ha pubblicato il romanzo “Canto degli speroni rossi”, Ed. Edigrafema. Ha partecipato a vari congressi con conferenze su temi di letteratura e problematiche culturali, educative e sociali e pubblicato i suoi saggi critici in atti congressuali e riviste specializzate. Ha inoltre realizzato molti eventi di narrazione e messo in scena i suoi testi teatrali con la sua e altrui regia. Collabora con la rivista online “L’Ideale” curando la rubrica di cultura e società “Sguardi d’altrove”, con il magazine “Cinque colonne” nella Terza Pagina con articoli di letteratura, arte, società e con “La Macchina sognante”.

Riguardo il macchinista

Lucia Cupertino

LUCIA CUPERTINO (1986, Polignano a Mare). Scrittrice, antropologa culturale e traduttrice. Laureata in Antropologia culturale ed etnologia (Università di Bologna), ha conseguito un Master in Antropologia delle Americhe (Università Complutense di Madrid) con tesi sulla traduzione di fonti letterarie nahuatl. Vive da tempo tra America latina e Italia, con soggiorni più brevi in Australia, Germania e Spagna, legati a progetti di ricerca, educativi e di agroecologia. Scrive in italiano e spagnolo e ha pubblicato: Mar di Tasman (Isola, Bologna, 2014); Non ha tetto la mia casa - No tiene techo mi casa (Casa de poesía, San José, 2016, in italiano e spagnolo, Premio comunitarismo di Versante Ripido); il libro-origami Cinco poemas de Lucia Cupertino (Los ablucionistas, Città del Messico, 2017). Suoi lavori poetici e di narrativa sono apparsi in riviste e antologie italiane e internazionali. Parte della sua opera è stata tradotta in inglese, cinese, spagnolo, bengali e albanese. È curatrice di 43 poeti per Ayotzinapa. Voci per il Messico e i suoi desaparecidos (Arcoiris, Salerno, 2016, menzione critica nel Premio di traduzione letteraria Lilec – Università di Bologna); Muovimenti. Segnali da un mondo viandante (Terre d’Ulivi, Lecce, 2016) e Canodromo di Bárbara Belloc (Fili d’Aquilone, Roma, 2018). Membro della giuria del Premio Trilce 2018, Sydney, in collaborazione con l’Instituto Cervantes. Cofondatrice della web di scritture dal mondo www.lamacchinasognante.com, con la quale promuove iniziative letterarie e culturali in Italia e all’estero.

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