Stralci dai dibattito pubblico tra August Wilson e Robert Brustein, moderato da Anna Deavere Smith, avvenuto davanti a 1500 spettatori nel New York’s Town Hall il 27 gennaio 1997. https://www.youtube.com/watch?v=1ipyTbojAxg
Robert Brustein: Se ho capito bene la posizione di August Wilson, egli considera il teatro in parte una via d’accesso al potere politico e culturale, un mezzo attraverso il quale una grande classe disagiata è in grado di mettere in scena le ingiustizie subite in passato e forse trovare un rimedio attraverso cambiamenti nel sistema socio- politico.
A partire da Platone, che bandì l’artista dalla sua repubblica ideale, gli utopisti, anche i migliori, hanno sempre sostenuto la necessità di limitare la libera espressione artistica.
Tutte le rivoluzioni, come scrisse Eugene Ionesco, bruciano le biblioteche di Alessandria.
Oggi, in America, vediamo manifestarsi una tendenza simile in quello che qui chiamiamo il Politically Correct con le sue crociate caratterizzate da eccessi di zelo volte ad epurare la lingua da termini offensivi, a volte sembra sostenere ciò che un critico ha chiamato “libertà dalla parola”.
Nella convinzione che la libertà di parola sia essenziale per la creatività e il pensiero critico, un certo numero di artisti moderni, sia bianchi che neri, a prescindere dalle proprie convinzioni come cittadini dello Stato (e devo sottolineare ancora una volta che mi riferisco ad essi in qualità di artisti, non come esseri politici) hanno rifiutato il concetto di arte come strumento ideologico. L’arte ideologica è dedicata o a rafforzare la struttura di potere esistente, come nei regimi totalitari, o a riformarla e cambiarla, come nella maggior parte delle espressioni attiviste e rivoluzionarie.
L’alternativa all’arte ideologica è stata riassunta in modo eloquente dal romanziere ceco Milan Kundera quando afferma che la funzione dell’arte è quella di “dire in faccia la verità al potere”.
Non è forse per questo che veneriamo i più grandi drammaturghi, da Aristofane ad Athol Fugard?
E non è forse questa una delle ragioni principali per cui amiamo Shakespeare, nonostante la sua occasionale propensione ad adulare i monarchi inglesi regnanti? I più grandi drammaturghi hanno avuto il coraggio di dire in faccia la verità a chi sta al potere, contribuendo a smascherare la corruzione della pompa magna e del potere, rivelando la realtà che si cela dietro le azioni e i moventi umani, in breve, come funziona l’anima umana, che non ha colore. Anche lo scrittore nero James Baldwin noto per la sua eloquenza credeva nel dire in faccia la verità a chi sta al potere, almeno agli inizi della sua carriera. In un saggio intitolato Everybody’s Protest Novel scrisse: “Diciamo che la verità implica una devozione all’essere umano. Non va confusa con la devozione a una causa, e le cause, come sappiamo, sono notoriamente assetate di sangue”.
Si noti che né Kundera né Baldwin sembrano molto interessati a usare il processo artistico per raggiungere il potere. In effetti, dietro le loro parole si sottintende che il vero artista deve rifuggire dal potere, perché i sistemi di potere non solo non sono strumenti di verità, ma possono benissimo esserne nemici. Chi crede nell’arte come arma politica, come metodo per dare potere agli svantaggiati, senza dubbio svolge una funzione sociale vitale.
Ma a volte a caro prezzo.
A mio avviso, la passione per un obiettivo politico potrebbe di tanto in tanto obbligare questi artisti a sacrificare la verità individuale per il bene comune. Naturalmente, è possibile giustificare tali mezzi se si raggiungono i fini giusti. Ma guardate il rovescio della medaglia: mentre le arti, nel migliore dei casi, sono inclusive, l’arte ideologica è esclusiva.
Lo spettatore è spinto a giungere a conclusioni, costretto a scegliere da che parte stare.
L’arte politica è di solito una forma persuasiva di melodramma: una contrapposizione tra il giusto e l’errato, quando la verità è di solito grigia.
Sono d’accordo con l’appello di August Wilson che rivendica un maggior numero di teatri neri e la sua richiesta che le fondazioni sostengano maggiormente tali teatri.
Per le fondazioni si tratta certamente di un modo più efficace di utilizzare i propri fondi rispetto a versarli in sforzi volti a diversificare il pubblico dei teatri tradizionali. In effetti, credo fermamente nelle sovvenzioni generali da parte di fonti pubbliche e private per tutti i teatri di comprovata qualità. Ma tale sostegno non può essere inteso come una forma di diritto. I teatri neri devono guadagnarsi i finanziamenti delle fondazioni e delle aziende sottostando agli stessi criteri di valore e di sostegno alla comunità utilizzati per tutti gli altri. Qualora il signor Wilson conoscesse un teatro nero meritevole che non viene finanziato adeguatamente, potrebbe lui stesso conferirgli un riconoscimento immediato premiandolo con una delle sue prime mondiali. Pur comprendendo il valore dei teatri che si limitano a rappresentazioni di autori neri, ammetto di avere qualche difficoltà a concordare con l’appello del signor Wilson all’autosegregazione degli artisti neri in ghetti razziali. Se gli artisti neri si fossero in passato esclusi da quelli che August Wilson ha definito “gli imperialisti culturali e i loro cosiddetti valori classici del teatro europeo”, ci sarebbero state negate interpretazioni come l’Otello e il giudice Brack di James Earl Jones, la bisbetica shakespeariana di Jane White, la Fedra di Gloria Foster, i monarchi shakespeariani interpretati da Denzel Washington e André Braugher, le brillanti interpretazioni classiche di Morgan Freeman, Laurence Fishburne e Samuel L. Jackson, e in effetti tutte le molteplici interpretazioni classiche. Jackson, e tutti i traguardi raggiunti dai casting non tradizionali color blind [ndt: cioè che sono ciechi verso il colore, i ruoli vengono distribuiti a prescindere dal colore della pelle dell’attore o dell’attrice] e di una vera interculturalità. In realtà, ci sarebbero state negate le opere dello stesso August Wilson, tutte messe in scena proprio da quei teatri mainstream e non profit da lui respinti come imperialisti culturali. Leggendo alcune sue recenti lettere e osservazioni, sospetto che August voglia modificare la sua posizione. In tal caso non esisterebbe motivo di dibattito tra noi. Ma poiché ha anche negato di aver detto che non lavorerebbe mai con un regista bianco, devo ricordargli il suo articolo del 1990 sul New York Times intitolato “Voglio un regista nero”. Pur rifiutandosi di permettere che il film della sua opera teatrale Fences fosse diretto da un regista bianco, all’epoca aggiunse questo avvertimento: “Stabiliamo una regola: i neri non dirigono film italiani, gli italiani non dirigono film di ebrei, gli ebrei non dirigono film di neri americani”. In realtà, uno dei migliori film che abbia mai visto sull’esperienza dei neri è stato diretto da un israeliano di nome Boaz Yaquim, un film intitolato Fresh. Sospetto che il signor Wilson lo definirebbe, come una volta definì Porgy and Bess di George Gershwin, “un imbastardimento della nostra gente e della nostra cultura”. La verità non è soggetta a generalizzazioni razziali, per quanto esse possano essere utili agli scopi del potere. Infatti, anche nel tentativo di combattere gli stereotipi, le generalizzazioni razziali possono creare un’altra forma di errore, quella che il noto pensatore nero Albert Murray ha chiamato “fallacia etnografica”, in cui un uomo crede di parlare a nome di un’intera razza. Se nessuna persona può parlare a nome dei neri americani, nessuna persona può parlare a nome dei bianchi. Non esiste una cultura monolitica ed eurocentrica. I più grandi artisti europei moderni, come August Wilson, sono stati quasi sempre dei ribelli contro la cultura esistente, non i suoi proseliti e fiancheggiatori. Un principio dell’arte teatrale è che essa sfida le generalizzazioni, essendo soggetta, come la vita stessa, a sorprese, rovesciamenti e contraddizioni. Le verità generali, ci diceva Ibsen, hanno la durata di circa vent’anni, dopodiché si esauriscono e diventano logore come qualsiasi altra convenzione. Oggi parliamo molto di diversità culturale, ma la vera diversità consiste nel riconoscere che ogni essere umano è un individuo e non semplicemente un membro di un gruppo razziale, etnico o sessuale. La varietà di queste differenze individuali è ciò che ci lega alla famiglia umana. In definitiva, la disputa tra me e il signor Wilson non riguarda solo la funzione dell’arte o la funzione della razza nel teatro, ma anche questioni più ampie come l’inclusione e l’esclusione, l’integrazione e il separatismo, ovvero la via di Martin Luther King e dei suoi seguaci e la via del primo Malcolm X, di Louis Farrakhan e della Nation of Islam. Un grande abisso divide ancora le razze in questo Paese, nonostante i significativi passi avanti compiuti negli ultimi trent’anni. È dovere di tutti gli uomini e le donne di buona volontà cercare di colmare questo divario e portare a termine le questioni razziali ancora aperte della nostra nazione. Ma credo che l’America inizierà a mantenere la sua promessa solo quando riconosceremo che siamo prima di tutto individui, poi americani e infine membri di una tribù. Quando ci renderemo conto che sotto la pelle siamo tutti della stessa specie. Quando riconosceremo che tutti gli esseri umani sono responsabili l’uno per l’altro, membri del genere umano.
Grazie per averci ascoltato con tanta attenzione.
August Wilson: Quando sono stato invitato a tenere il discorso programmatico d’apertura alla conferenza del TCG [Ndt: Theater Communication Group, la più grande organizzazione di teatri negli USA con circa 500 teatri associati + circa 250 teatri universitari] nel giugno del 1996, all’inizio ho rifiutato, perché ero impegnato a scrivere una mia nuova opera teatrale, e come sempre le esigenze dell’arte possono essere onerose. Mentre riflettevo se accettare o meno e su quello che avrei potuto dire, ho pensato alla carenza di teatri neri con risorse significative per allestire un’opera teatrale con alti costi di produzione. E mentre i miei pensieri si concentravano, mi sono reso conto che 65 dei 66 teatri appartenenti all’LORT [Ndt: League of Resident Theaters, associazione professionale di teatro) erano bianchi. Mi sono pentito di aver rifiutato l’invito, perché ritenevo che fosse un problema che i miei colleghi del teatro dovevano affrontare e mi ha fatto piacere, ovviamente, quando sono stato sollecitato a riconsiderare l’invito. Sono felice di averlo fatto.
Il fatto che 65 dei 66 teatri LORT fossero bianchi significava che agli artisti teatrali neri venivano precluse le opportunità di fare evolvere i propri vari talenti in spazi dello stesso livello delle loro controparti bianche. E nonostante la presenza mia, di George Wolfe, Anna Deavere Smith, Suzan Lori Parks, per citare alcuni dei nomi più prominenti, la maggior parte dei neri ne era esclusa.
Questo numero di sessantacinque teatri su sessantasei mi dice che c’è qualcosa di terribilmente sbagliato. Una volta accettata la sfida di parlare della carenza di teatri neri, ho dovuto andare fino in fondo e parlare delle condizioni storiche che hanno fatto sì che i prodotti artistici da noi generati fossero messi nelle mani di altri custodi, e affermare la battaglia culturale che si è svolta fin dall’inizio del XVII secolo, quando siamo stati portati in questo Paese in catene e siamo stati percepiti come privi di lingua, arte, cultura e altri orpelli della civiltà. Oggi conosciamo tutti gli errori di tale concezione, in parte grazie alla feroce resistenza che abbiamo esercitato alle condizioni di servitù che ci venivano imposte, e alla nostra altrettanto feroce affermazione del valore e della dignità del nostro essere. Abbiamo avuto il privilegio della compagnia di molti bianchi della società americana che sono stati al nostro fianco in queste rivendicazioni nello spirito di amicizia e fratellanza. Senza di loro, il viaggio che abbiamo fatto dallo scafo di una nave della tratta schiavista fino a diventare un popolo autosufficiente e culturalmente solido non sarebbe stato possibile. Questo non vuol dire che noi neri e i bianchi non continuiamo ad avere un rapporto difficile. Nella società americana sembra che a volte preferiamo creare un’illusione piuttosto che affrontare la durezza e l’intransigenza della verità su noi stessi. Noi, come società, soffriamo di un fallimento dell’immaginazione. Fin dall’inizio del contatto dei neri americani con il mondo occidentale, e nonostante oltre 300 anni di dominio culturale bianco, siamo ancora un popolo culturalmente vivace e robusto. La nostra musica, la nostra ‘ginnastica’ verbale, il nostro senso dello stile, il nostro modo unico di vedere il mondo fanno tutti parte di una sensibilità africana che dà forma alla nostra presenza qui in Nord America. Dentro tutti i neri c’è almeno un battito cardiaco alimentato dal sangue dell’Africa. Il jazz è ampiamente riconosciuto e celebrato quale forma d’arte unicamente americana. Ma se gli strumenti con cui il jazz è stato creato, cioè quelli delle marching band europee, non fossero diventati ampiamente disponibili dopo la guerra civile, il jazz come lo conosciamo non esisterebbe. È stata la sensibilità africana entrata in contatto con la tecnologia europea a renderlo possibile. Immaginate quindi le possibilità di un teatro nero dotato degli strumenti necessari per creare la propria arte unica, dotato delle risorse per coltivare e ospitare artisti di talento e di un luogo in cui il tesserino d’accesso non scada (di solito il 1° marzo, dopo il Black History Month).
È importante notare che, a differenza di quanto affermato dal signor Brustein, non siamo sostenitori del separatismo, ma cerchiamo piuttosto l’inclusione. Nel novembre del 1994, la rivista Time pubblicò una storia di copertina che proclamava un Rinascimento dell’arte nera. In copertina c’era la foto di un balletto di Bill T. Jones, con la didascalia che proclamava che gli artisti neri erano “finalmente liberi”. Il tema della storia era che gli artisti neri non erano più confinati dal loro essere neri, ma stavano creando arte non limitata a temi neri. Avevano imparato a trascendere il loro essere neri per mettersi alla ricerca di espressioni più universali, abbracciando i valori e le norme della cultura europea. Questa universalità, ovviamente, viene conferita automaticamente agli artisti bianchi, e mai, mai si suggerisce che drammaturghi bianchi quali David Mamet o Terrence McNally si stiano limitando alla bianchezza e che siano confinati nella loro arte perseguendo temi bianchi. L’idea che stiamo cercando di fuggire dal ghetto della cultura nera è offensiva. È un insulto per noi, per i nostri genitori e per i loro antenati che hanno lottato per difendere e preservare i propri costumi e modi di vita. Assimilarsi alla società è dannoso all’io culturale, in quanto abbandona le ricerche e le conquiste antiche dei nostri antenati nel continente africano e la continuazione di quelle esplorazioni qui nel continente nordamericano. Il fatto che i nostri contributi culturali alla cosiddetta cultura americana siano numerosi e inestricabilmente intrecciati nel tessuto della vita contemporanea non attenua la perdita, poiché le preoccupazioni egemoniche della cultura non sono le nostre e non abbiamo partecipato al privilegio o al potere che esse producono. In altre parole, poiché la cultura dominante non è la nostra cultura, non abbiamo alcun potere, indipendentemente dai contributi che abbiamo dato alla sua crescita spirituale o al suo benessere materiale. Tale situazione può essere un po’ più che sconcertante se ci si trova da questo lato dell’equazione. Se scegliamo di non assimilarci, non significa che ci opponiamo ai valori della cultura dominante, ma piuttosto, desideriamo sostenere le nostre cause, le nostre celebrazioni e i nostri valori più cari. In modo che le due culture esistano l’una accanto all’altra, due entità che contribuiscono ai pericoli e ai pilastri della società in una lotta per trionfare sui capricci della vita e della condotta umana. Mi pongo ulteriormente in ascolto delle opinioni del signor Brustein per poter poi esprimere le mie. Avete dimostrato la volontà di esplorare la natura delle vostre vite venendo qui stasera, vi saluto e vi chiedo di trovare una causa comune che possa coinvolgerci tutti. Perché alla fine si tratta di persone sedute su un palco che parlano della vita come di un campo di battaglia dello spirito, e di come l’arte e la vita illuminino, rafforzino e celebrino quella battaglia, trovando in essa un significato per il peso e la sostanza, il contenuto e il contesto delle nostre vite. Grazie.
Q & A
[…]
Robert Brustein: Non ho che il massimo rispetto per quello che ha appena detto. E credo che lei sia probabilmente tra le migliori menti del XVII secolo. Quella che lei descrive è una situazione da XVII secolo, August, non sta descrivendo una situazione da XX secolo. Lei parla della maggior parte dei neri esclusi dalla società: questo continua a essere vero, ma non è così vero come lo era nel XVII secolo. Lei parla di persone portate in questo Paese in catene: questo è vero, ed è il peccato originale di questo Paese, che come tutti i peccati originali non sarà mai espiato. Ma questo Paese sta cercando di espiarlo, e il fatto è che, dichiarare di avere sangue africano nelle vene 300 anni dopo aver lasciato l’Africa… . . Lasciatemi raccontare una piccola storia…
[Si levano proteste da parte del pubblico]
Anna Deavere Smith (moderatrice del dibattito): Volevo solo chiedere al pubblico di avere pazienza. OK? Mi risulta che ci sia stata una sera, durante la rappresentazione dell’opera teatrale Fences di August Wilson, in cui James Earl Jones si è girato e ha interrotto lo spettacolo. Quindi, come ho detto all’inizio, apprezzo il fatto che siamo tutti qui insieme e voglio le vostre risposte, ma prego il pubblico di permettere a ciascuno dei due interlocutori di parlare. In effetti, il silenzio disturba quanto il rumore. Quindi cerchiamo di essere rispettosi gli uni degli altri.
August Wilson: In tutta onestà verso il pubblico, penso che queste siano alcune delle cose più offensive che abbia mai sentito.
Robert Brustein: Lasciatemi spiegare. Lo dico nello stesso modo in cui lo diceva Lorraine Hansberry nella sua piece Raisin in the Sun.
August Wilson: Ma lei sa che nel XVII secolo eravamo schiavi, gli afroamericani erano schiavi. Ne è consapevole?
Robert Brustein: Certo che ne sono consapevole.
August Wilson: OK. Lo trovo incredibile…
Robert Brustein: Ma nel 1997 non siete più schiavi, e mi sembra che parlare di voi stessi come se ancora continuaste a calpestare la terra degli alloggi degli schiavi significhi rappresentarvi come uomini di 300 anni fa. Il fatto è che le cose sono cambiate nel corso degli ultimi 300 anni, soprattutto negli ultimi 30 anni. Ci sono stati dei cambiamenti. E io chiedo solo di riconoscere questi cambiamenti. Ad esempio Wole Soyinka non la considererebbe un africano. Rifiuterebbe questa caratterizzazione.
August Wilson: Penso che tutti i neri in America, a prescindere dal fatto che, se mi guardate, è ovvio che il padrone degli schiavi visitava gli alloggi degli schiavi, OK, quindi è proprio palese. Noi prendiamo l’idea che i neri in America siano un popolo africano. Vengono dall’Africa, qualunque cosa…
Robert Brustein: Certo che sì, e i miei genitori venivano dalla Polonia. Ma io non mi considero polacco.
August Wilson: Beh, questo è lei. Vede. Questo siete voi. Ma noi siamo africani. Voi vi siete assimilati alla società, ci avete rinunciato. Non rimproverateci per la nostra riluttanza a farlo.
Anna Deavere Smith: Tra le domande che ci sono pervenute dal pubblico c’è n’è una che non so se sia effettivamente collegata a questo tema. Era una domanda sul suo background e su quanto riconosce la parte di lei che è bianca.
August Wilson: Riconosco tutto me stesso, prima di tutto. Mio padre era tedesco. Mio padre era tedesco. Sì, e allora? Non lo so. Non so cos’altro. L’ambiente culturale della mia vita è nero. Io mi autodefinisco nero. E questo è tutto quello che c’è da sapere.
Robert Brustein: Vorrei anche chiedere che ne è delle persone di sangue misto? Le persone che si considerano multirazziali. Non si sentono rappresentate da ciò che avete detto stasera. E ancora una volta devo sottolineare che nessuna persona può parlare a nome di un’intera razza e quando parla di “noi”, sa, mi preoccupa. Vorrei anche mettere in dubbio la sua idea che esista un’unica cultura bianca. David Mamet, per esempio, scrive opere teatrali sulla cultura bianca. Le molestie sessuali sono un tema bianco in Oleanna? La lealtà tra amici è un tema bianco, nell’opera teatrale American Buffalo? In Shakespeare, ad esempio, l’incapacità di agire è un tema bianco? O la gelosia è un tema nero in Otello? Penso che questi siano temi universali che possono essere compresi da tutti noi, a prescindere dal colore della nostra pelle.
August Wilson: Certo. E allo stesso modo quando si trovano esposti in opere nere l’amore, l’onore, il dovere, il tradimento, la gelosia, tutte queste cose, si vede che sono universali. Ma in qualche modo l’implicazione è che l’universale esiste solo nei bianchi. Perché i neri devono liberarsi da se stessi, dal “ghetto” dell’essere neri, abbracciare la cultura bianca, e poi improvvisamente sono liberi e non si limitano. Il nero non è limitante. Quindi, quando c’è questa situazione di drammaturghi bianchi, per esempio, che esplorano la loro cultura, che è la cultura bianca, nessuno dice loro che si stanno limitando in questo. Io suggerirei che non si stanno limitando, così come non mi sto limitando io esplorando la cultura nera. Sto compiendo un’indagine su me stesso. L’arte fa proprio questo. Sono convinto che l’abbia fatto anche Cechov: ha indagato sulla cultura russa. Nessuno gli ha detto: “Ti stai limitando al russo. Dovresti scrivere di cose più universali”. È di questo che stiamo parlando.
Robert Brustein: Il motivo per cui possiamo rappresentare Cechov è che non si è limitato alla cultura russa. Ha scritto del cuore umano. Nella misura in cui si scrive del cuore umano, chiunque può rappresentare le sue opere.
Anna Deavere Smith: Ma August, è d’accordo che tutti possono rappresentare Cechov? Abbiamo forse frainteso la parte del suo discorso che riguardava il color blind casting?
August Wilson: Non credo che alcuna parte del mio discorso abbia a che fare con il color blind casting. Ho scelto di non parlarne. Ma se vuole parlarne, possiamo farlo.
Anna Deavere Smith: Forse dovremmo. Molte persone s’interrogano al riguardo, con domande che si presentano in forme diverse. Voglio dire, per esempio, prendiamo spunto da quello che Bob ha detto su Cechov. Un attore nero, un attore latinoamericano, un attore nativo americano, per quanto la riguarda, potrebbe offrire una buona rappresentazione de Il giardino dei ciliegi?
August Wilson: Non gradirei che lo facessero. Preferirei di gran lunga che si impegnassero nella rappresentazione di un’opera d’arte che riguarda il loro specifico background etnico o razziale.
[Proteste da parte del pubblico]
Un esempio: recentemente hanno messo in scena la mia opera Fences in Cina. Ho dato il permesso di fare quella produzione. Così qualcuno mi ha detto: “Beh, visto che hai preso posizione sul color blind casting cosa ne pensi? Perché lasci che questi cinesi interpretino dei neri?”. E la mia risposta è stata che non c’erano in giro per la Cina 140 milioni di africani che cercavano di essere scritturati per quel ruolo sul palcoscenico. Se ci fosse una situazione in cui rispetto a 240, 264 teatri cinesi, esistessero 160 milioni di africani in Cina desiderosi di fare teatro e ci fossero solo quattro teatri per loro in cui poter recitare, e i cinesi dicessero: “Bene, potete venire qui e recitare nelle nostre opere, potete venire qui e recitare nei nostri classici cinesi. Potete venire qui e fingere di essere cinesi, perché voi, in quanto africani, non avete nulla di valore che valga la pena di esplorare a teatro. Quindi venite qui e rinunciate alla vostra umanità di africani per fingere di essere cinesi”. Questa è la situazione in cui ci troviamo. L’iniziativa del color blind casting doveva originariamente offrire opportunità alle minoranze che altrimenti non sarebbero state scritturate per quei ruoli. E invece abbiamo Jonathan Price che recita in Miss Saigon. Ecco a quali fini è stato utilizzato il color blind casting. Sono contrario perché nega all’individuo … stare su un palcoscenico, rappresentando un’altra razza di persone, gli nega la propria cultura. Soprattutto se quella persona si trova su un palcoscenico e non è capace e non ha gli strumenti per rappresentarsi.
Robert Brustein: Posso rispondere a questa domanda?
Anna Deavere Smith: Sì.
Robert Brustein: Vede, credo che lei abbia frainteso lo scopo del color blind casting. Lo scopo del casting senza distinzione di colore è quello di scritturare il miglior attore possibile, indipendentemente dalla sua razza.
[Applausi].
August Wilson: Non credo che l’iniziativa dell’Actor’s Equity [ndt: il sindacato degli attori], non credo sia questa la posizione assunta dall’Actor’s Equity quando ha affrontato l’argomento. Si trattava di offrire ruoli alle minoranze, ruoli non tradizionali in cui altrimenti non sarebbero state scritturate. Questo è lo spirito con cui è stata lanciata l’iniziativa. Ora si tratta di qualcos’altro.
Anna Deavere Smith: Ho due domande che vi porrò in concomitanza e lascerò che le affrontiate entrambe. Una è fantastica. È il tipo di domande che mescola il tutto. “Sono un attore di origini culturali miste. Mia madre è ebrea di origine polacca austriaca, mio padre è nero, misto a un po’ di scozzesi, irlandesi e indiani d’America. Entrambi erano molto coinvolti nel CORE [Ndt: Congress for Racial Equality, organizzazione fondata nel 1942 a Chicago che ha lanciato la strategia di azione diretta nonviolenta nella lotta per i diritti civili] e mio padre è attualmente presidente di una sezione del NAACP [Ndt: National Association for the Advancement of Colored People (Associazione nazionale per la promozione delle persone di colore) fondata nel 1909 è stata una delle prime e delle più influenti associazioni per i diritti civili negli Stati Uniti]. Sono cresciuto in un quartiere prevalentemente chicano [Ndt: messicani di second generazione] di Los Angeles. Che posto ha una persona con il mio background nel teatro americano?”.
August Wilson: Sono seduto qui e ho appena finito di dire senza mezzi termini che sono io ad auto definirmi. Se una persona si definisce nera, personalmente ritengo che sia sbagliato che partecipi al teatro recitando come una persona diversa da una persona di colore.
Anna Deavere Smith: Ok, allora affrontiamo la domanda in maniera più ampia, e si trova da qualche parte nella mia pila di domande poste dal pubblico… August, lei non è d’accordo con gli attori neri che interpretano ruoli di bianchi. Cosa ne pensa degli attori gay/lesbiche: dovrebbero essere relegati a interpretare solo ruoli queer?
August Wilson: Credo che tutti siano d’accordo sul fatto che le preferenze sessuali siano diverse dalla razza. La razza è una categoria molto più ampia delle preferenze sessuali. Tuttavia, sarei contrario a donne che interpretano uomini e uomini che interpretano donne. In altre parole, una donna che interpreta un ruolo originariamente scritto per un uomo o un uomo che interpreta un ruolo originariamente scritto per una donna.
In altre parole, una donna che interpreta un ruolo originariamente scritto per un uomo, o un uomo che interpreta un ruolo originariamente scritto per una donna.
Robert Brustein: Posso chiederle se è contrario al fatto che le donne scrivano sugli uomini?
August Wilson: No, non ho nulla in contrario.
Robert Brustein: O a uomini che scrivono di donne?
August Wilson: No, non ho nulla in contrario.
Robert Brustein: I bianchi che scrivono sui neri?
August Wilson: Mi oppongo a questo.
Robert Brustein: Non è coerente, August.
Robert Wilson: No, sono coerente, molto coerente. So in cosa credo e sono coerente con le mie convinzioni, sì.
Anna Deavere Smith: Nel suo discorso di apertura ha parlato di una divisione che ha avuto inizio con Platone. E ha messo Platone e Aristotele agli estremi dei poli opposti. Una delle cose a cui pensavo è: c’è un’altra posizione? Deve essere per forza una o l’altra? Ed è successo qualcosa in tutti questi anni per creare un’altra posizione? È successo qualcosa in America per creare un’altra posizione?
Robert Brustein: Beh, c’è la posizione di Brecht. Brecht ha cercato di unificare bene, odiava Aristotele, anche se lui stesso era essenzialmente aristotelico. Brecht era uno dei drammaturghi più impegnati, non crede? Ma se si guarda a tutte le opere di Brecht, tutte finiscono con un punto interrogativo, come tutte le opere di Ibsen, in modo irrisolto. Tutte le più grandi opere teatrali del nostro tempo finiscono in modo irrisolto. L’anima buona di Setzuan termina con la parola “Aiuto!”. La donna è lacerata, spinta in molte direzioni e tutto ciò che riesce a dire è “Aiuto!”. Non ha risolto il problema. La società non ha risolto il problema. Potreste andarvene pensando di sapere come risolverlo, ma Brecht non vi sta indicando la strada. E questo è l’artista di Brecht. Brecht riconosce che l’arte non cambia nulla. Può cambiare la coscienza, ma non cambierà la società.
Anna Deavere Smith: Lei pensa che l’arte cambi qualcosa?
August Wilson: Sì. Penso che l’arte cambi l’individuo e che l’individuo cambi la società. Penso che tutta l’arte sia politica, nel senso che serve la politica di qualcuno. Qui in America, molto spesso la politica nell’arte è mascherata. Per esempio, c’è una serie di film, come The Rage to Kill or The Ghosts of Mississippi in cui questi atti vengono fatti passare per atti di razzismo individuale che sollevano la società dalla sua complicità in quegli eventi. Così la politica nell’arte è camuffata, è nascosta. Un altro esempio è il film Crossroads, dove c’è un ragazzino bianco che va a combattere per l’anima dell’uomo nero al posto dell’uomo nero. La politica di questo film dice che la tua vita, tutto, la tua anima è meglio lasciarla nelle mani di qualcuno che è bianco, a prescindere che sia un bambino o no. E questo vecchio, con tutti i suoi anni di vita, non ha temprato la sua anima al punto da poter andare a combattere contro il diavolo per la sua stessa anima. Inoltre, mentre combatte contro il diavolo che suona musica rock, che è una versione annacquata del blues, non riesce a sconfiggerlo con il blues e deve ricorrere alla musica classica per sconfiggerlo. Tutto questo è politica.
[Applausi].
Robert Brustein: Penso che questa sua affermazione è di carattere politico, e penso che il dramma, il teatro, l’arte teatrale debba avere due verità, non può avere una sola verità. Lei ci ha dato in continuazione una verità: quello che dice è vero. Ma deve contrapporre ad essa un’altra verità, altrimenti non abbiamo un dramma, ma un monologo. E come ho detto, queste due verità spesso non sono risolvibili. Proprio come il nostro dibattito di stasera: sembra che non si arrivi da nessuna parte l’uno con l’altro, il che significa che anche se ci vogliamo bene, credo, spero [risate]. Ma non stiamo riconciliando le nostre differenze, e anche questo è un dramma. Ciò che considero una delle cose difficili del nostro tempo è il modo in cui abbiamo iniziato a politicizzare la nostra cultura. Questo perché non abbiamo una politica. Non abbiamo un’ideologia, non abbiamo un’idea di come cambiare la società in modo adeguato, quindi ci rivolgiamo alla cultura e diciamo che forse la cultura può farlo per noi. Non può. Tutto ciò che si finisce per fare è svilire la cultura.
Anna Deavere Smith: Come ho detto, la questione dei finanziamenti non riguarda la quantità, siete entrambi insoddisfatti della strategia dei finanziamenti La questione dei finanziamenti non è quanto, o da chi, ma a quale scopo? È problematico, in altre parole, che le istituzioni finanziatrici destinino fondi di avviamento a istituzioni teatrali tradizionali perché queste si impegnino a sviluppare la diversità culturale, piuttosto che destinarli direttamente alle organizzazioni specificamente diversificate dal punto di vista culturale?
August Wilson: Senza dubbio.
Anna Deavere Smith: Può dire di più?
August Wilson: Beh, pensavo di averlo fatto. Questo è in parte, almeno, ciò che trovo problematico anche con il colorblind casting. Cioè, che si prendano talenti neri, si utilizzino talenti neri e si potenziano talenti neri, se vogliamo, a spese di persone di colore, a spese del teatro nero. Così, per esempio, alcuni critici scrivono: “Visto che ci sono così tanti teatri che mettono in scena opere di neri, è necessario avere teatri neri? Vedete, poiché ora siamo impegnati in allestimenti di opere di autori neri, voi non ne avete bisogno. Capite? E questo fa sì che il compito di custodire l’arte venga affidata a qualcun altro. E quindi cosa faranno i neri tra cinque anni, quando nei teatri mainstream non faranno più spettacoli di neri e faranno spettacoli di asiatici o altro? I bianchi continuano a mantenere il controllo su queste istituzioni, indipendentemente dal fatto che ci si lavori o meno. Quindi l’iniziativa del Readers’ Digest di Lila Wallace ha reso un enorme disservizio ai neri, perché, da un lato, ci ha infantilizzato sottintendendo che avevamo bisogno di qualcuno che fosse responsabile per noi, dall’altro ha affermato che avrebbero dato quei soldi a istituzioni teatrali bianche per scopi multiculturali, invece di darli a noi per sviluppare la nostra arte. Penso che abbia reso un cattivo servizio, che abbia messo in cattiva luce l’arte nera, influenzando negativamente come vengono visti il teatro nero e le persone nere.
Robert Brustein: Sono d’accordo. Sono felice di aver trovato un punto di accordo con August stasera. Sono d’accordo. Penso che questa sia stata una scelta infelice da parte della fondazione. Questa storia va avanti da quanto, dieci o quindici anni? E dare soldi a istituzioni mainstream, non voglio chiamarle bianche, ma miste, solo per fare spettacoli neri o culturalmente diversi, credo che lei abbia ragione: i soldi dovrebbero andare ai teatri neri per fare spettacoli neri. E i teatri tradizionali dovrebbero metter in scena quelle opere perché vogliono farlo, non perché hanno delle sovvenzioni per farlo.
[Applausi].
Anna Deavere Smith: Questa domanda è per il signor Brustein: Crede davvero che gli standard siano universali? Non è che nella cultura mainstream il razzismo non abbia imposto la sua visione di ciò che è bello, importante, profondo e significativo?
Robert Brustein: No.
Anna Deavere Smith: No?
Robert Brustein: No.
Anna Deavere Smith: No.
Robert Brustein: Voglio dire, se credete di essere, come gruppo etnico o razziale, completamente separati dal resto del Paese, allora potete probabilmente fare questo ragionamento. Ma il fatto è che credo che siamo tutti americani insieme. Condividiamo una cultura comune, ma anche molte altre culture.
August Wilson: Abbiamo alcuni punti in comune. Siamo separati. In una delle critiche al mio discorso lei ha chiesto: “E adesso? Bagni separati? Bagni separati?”. E voglio dirle che, non so quando è stata l’ultima volta che siete stati ad Harlem, ma al di sopra della 125esima strada tutti i bagni sono neri. E se andate a Park Avenue, tutti i bagni sono bianchi. Se scendete a Chinatown, sono cinesi. Parte di questa illusione del 13° piano è che siamo tutti un unico popolo. È vero che condividiamo alcuni aspetti culturali comuni, ma c’è un’enorme separazione in questa società in cui viviamo entrambi. E credo che il mancato riconoscimento di ciò sarà la causa per cui non saremo in grado di trovare un rimedio.
Robert Brustein: August, poiché sono di qualche anno più vecchio di lei ricordo un tempo in cui il nostro desiderio era quello di abbattere la separazione tra le razze. E questo era il nostro impegno. Sentire che dobbiamo tornare a separare ma uguali, quando tanto tempo, sforzi e passione sono stati riversati nel tentativo di sbarazzarsi di quel cosiddetto concetto, che non è mai stato separato o uguale, è stato separato, ma non è mai stato uguale, mi sconcerta davvero. E credo che dovrebbe ripensarci.
August Wilson: No, non stiamo cercando di tornare indietro, stiamo cercando di essere inclusi nella società americana. Poiché i bianchi hanno tutto il potere nella nostra società, hanno tutte le chiavi dei bagni. E non ci permettono di partecipare alla società come africani. Come ciò che siamo.
Robert Brustein: Condivido il bagno con un certo numero di persone. Non ho problemi…
[Risate]
Anna Deavere Smith: Dobbiamo concludere, e ho un’ultima domanda per entrambi. Ok, questa è l’ultima domanda per entrambi i signori. “Nel suo discorso di apertura, il signor Brustein ha espresso la speranza che lei e il signor Wilson possiate imparare qualcosa l’uno dall’altro questa sera. Il signor Brustein potrebbe dirci cosa ha imparato dal signor Wilson e il signor Wilson potrebbe dirci cosa ha imparato dal signor Brustein?”.
[Applausi]
Robert Brustein: Ho imparato che dietro la rabbia del signor Wilson si nasconde un orsacchiotto.
Anna Deavere Smith: È così?
Robert Brustein: Questa osservazione non ha alcuna connotazione razziale, che io sappia…
August Wilson: Mi considero una persona affabile, ma le assicuro che sono un leone.
Robert Brustein: Ho imparato a conoscere le qualità del suo temperamento, e questo è stato un bene per me. L’ho incontrato solo una volta e poi ho letto il suo discorso, e non ero preparato a trovare un uomo di tali qualità. Sto parlando del temperamento, non della qualità artistica. E mi piace.
Anna Deavere Smith: E lei, August?
August Wilson: Stranamente, credo che il signor Brustein sia un po’ diverso di persona.
Anna Deavere Smith: Sì, lo penso anch’io.
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