Brezze sussurranti. Biennale di Venezia, 2022. Parte 2: Acque sonore, di Maica Gugolati

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Traduzione italiana di Maica Gugolati dell’articolo  a lei commissionato dall’Aica e pubblicato in inglese qui

 

Brezze sussurranti. Biennale di Venezia, 2022.

Parte 2: Acque sonore.

 

Zot Konn-Yeman/ Lo Sanno. Il saggio.

 

“Lo sanno”, percepisco il riverbero delle voci che scorrono dalle mie orecchie al mio corpo. Sono al Teatrino Groggia. “Lo sanno”, sento ripetere. Ancora una volta, ma fischiettando. Poi, un suono di semi scossi.

 

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Padiglione della Diaspora Brochure 2022

 

 

Immagini di piante tropicali intrappolate in una serra sono state stampate su tessuti tradizionali mauriziani. Due schermi con immagini in movimento di archivi coloniali da luoghi “remoti” e “sconosciuti”. Ho avuto la sensazione di attraversare una scena al rovescio come in un gioco di matrioska in cui la natura è contemporaneamente inscatolata in uno spazio interno che però si dispiega all’aperto.

 

Tutti i visitatori devono attraversare un giardino per raggiungere la sede che ospitava il Padiglione della Diaspora per questa Biennale di Venezia 2022. Sono circondata dal “Qui e là”; la natura esotica è incastonata nelle morse dell’architettura britannica. La tropicalità nell’epoca coloniale è stata mostrata, preservata e utilizzata come esemplare per una possibile replica, come se i colonizzatori si aspettassero la futura estinzione di alcune specie naturali. Osservando dal mezzo dell’installazione, sono stata metaforicamente dislocata nei sotterranei dei musei etnografici.

 

Questo padiglione ha offerto una mostra-ricerca itinerante a tempo limitato: una performance e installazione creata dall’artista Shiraz Bayjoo in collaborazione con Siyabonga Mthembu e Nicolas Faubert. La mostra ha chiesto al pubblico di prendere spazio nell’installazione stessa e di relazionarsi con le incarnazioni d’archivio offerte.

Parte del Video di una delle performance, 23 aprile

 

Gli archivi mi toccano seguendo i movimenti del danzatore che incorpora i dettagli di quella che diventa la storia ufficialmente riconosciuta che a sua volta dipende da un’azione segnica composta da una selezione istituzionale deliberata  che decide cosa farci conoscere del repertorio storico. L’opera invita il pubblico ad andare oltre la semplice osservazione, percependo gli archivi e lasciandoli vivere nel presente. Nel frattempo, siamo cullati verso un tempo indefinito degli antenati attraverso la voce del cantante.

 

Questa mostra interroga l’estrazione, la metodologia di selezione degli archivi, l’elenco e la riproduzione di specie endemiche che dalle parti tropicali del mondo raggiungono l’Europa. Attraverso la visione, il suono, e il movimento, sono uscita dal teatro veneziano chiedendomi: “Chi ha classificato come storia ciò che posso consultare oggi? Dov’è il passato invisibile che è stato deliberatamente fatto dimenticare?” Imitando l’azione di scelta di inquadratura del ballerino, ho io stessa incarnato una contro-capacità di azione imposta dalla museologia. Sostenuta dalle voci degli antenati che raccontavano ciò che è stato messo a tacere, si diventa parte di un portale liminale tra gli spazi.

 

Il padiglione della Diaspora ha espresso una doppia affermazione nei confronti della postura storica di stato-nazione della Biennale. Questo Padiglione ha dimostrato che la questione della “patria” non è fatta di confini nazionali ma di flussi migratori relazionali che si radicano grazie agli spostamenti. A seguito di questa dichiarazione curatoriale, i partecipanti hanno incarnato l’identità plurinazionale come lo è la diaspora stessa. Hanno deciso di proporre il padiglione in esclusiva per tre giorni prima dell’apertura generale della biennale per mettere in discussione il capitale economico e simbolico che è tacitamente imposto a ciascuna nazione per poter partecipare all’evento.

 

Le acque di Venezia muovono brezze piene di iodio che narrano storie incrociate di diaspore del mare Adriatico e del Mediterraneo che incontrano quelle emerse dalle correnti oceaniche.

 

Deep Dive (Pause) Uncoiling Memory

Tuffo Profondo (Pausa) La Memoria si Srotola

 

Salendo le scale di diversi ponti a Venezia, ho sentito presenze diverse.

 

“Le pareti e le acque parlano”, continuavo a ripetermi camminando verso il Padiglione della Scozia, situato in un sito suggestivo: la darsena dei Cantieri Cucchini, un cantiere navale.

 

Alberta Whittle lavora con arazzi, film e sculture; indaga le eredità storiche in cui le espressioni contemporanee di razzismo, colonialismo e migrazione sono collegate e messe in discussione. “Le prigioni sono le nuove piantagioni”, dichiara il suo video. Quest’ultimo di 40 minuti di lunghezza traccia un calendario settimanale incompiuto, con capitoli visivi dal lunedì al sabato. Mette in discussione anche l’amore, la migrazione e la morte.

 

Era una giornata piovosa. Il destino ha voluto che mentre il video mostrava una ragazzina Nera che giocava in un ambiente simile a colline scozzesi e rovine di un castello, una brezza fredda entrasse dallo spazio aperto del molo delle barche. L’installazione è realizzata in tre aree; due tra quelle sono aperte all’esterno. La comunicazione tra i mondi avveniva grazie all’aria umida e salmastra che in quel momento mi accarezzava il viso. Il vento freddo di quella giornata stava “facendo ponte” con il vento presente nella scena della ragazzina. La salinità dell’aria si unisce ai molteplici viaggi della diaspora che l’artista ha voluto trattare nel suo video arte. A volte ero a Venezia; in altri, ero in Scozia, in Sierra Leone o alle Barbados.

 

C’era troppo freddo per me; ho preso una delle coperte create per l’installazione che erano disponibili all’uso continuando a guardare il video. Mi sentivo riscaldata, con un senso di cura. Il video mostrava l’artista che parlava in compagnia di un’altra donna, condividendo l’amore, che abbracciava i miei sensi. Guardando la coperta, ho visto dei nomi stampati su di essa. E ancora, sullo schermo, l’artista denuncia la brutalità della polizia nel Regno Unito e negli Stati Uniti nei confronti della popolazione Nera. Alcuni dei nomi di quelle vittime stavano riscaldando il mio corpo, fisicamente ed emotivamente.

 

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Fotografato personalmente in aprile 2022.

 

 

L’artista dice:

 

 

Per me (giovane e vecchia e ora nel-mezzo).

 

La mia canzone d’amore è per tenerti al caldo e ricordarti a lungo

 

dolci notti in cui fremevi di gioia.

 

Gioia.

 

Forse era la gioia di sentirti liber* nelle tue membra,

 

Nel tuo cuore mentre si espandeva per respirare più profondamente,

 

Era quella libertà

 

 

Mi lecco il dito e assaporo il sale.

 

Sento che il vento mi dice come navigare il mio percorso in avanti

 

il passato

 

(Ti amo).

 

Eccomi qui con il lavoro di Alberta Whittle: nel mezzo di un processo di collegamento di tempi, di connessione con persone e generazioni diverse del mondo, nella diaspora e oltre. Ho sentito la cura, il sale, il mare, dei sentimenti caldi e l’amore.

 

Durante la mia permanenza al Padiglione Scozzese, tutte queste sensazioni sono state sentite e percepite, e si sono legate assieme.

 

 

 

 

 

 

 

“Pause”

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Al termine della videoinstallazione, ho preso una tisana offerta all’ingresso del padiglione, aspettando che la pioggia si calmasse.

 

Pronta ad attraversare molti dei ponti urbani veneziani per continuare a visitare la Biennale, mentre tengo strette le parole squisite dell’artista, prendo la tua mano, cara lettrice e caro lettore, chiedendoti:

 

“Andiamo?”

 

Sovregnity/Sovranità

 

Qui ti porto a quella che la curatrice Alemani definisce una “capsula del tempo”: il lavoro di Simone Leigh per il Padiglione USA.

 

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Cartolina del Padiglione del Cameroon /Togo mostra alla Esposizione Coloniale di Parigi 1931. Facciata 2022.

 

 

L’artista osa la rappresentazione delle nazioni dei padiglioni coprendo la facciata con una struttura che ricorda un palazzo dell’Africa occidentale mostrato all’Esposizione Coloniale Internazionale di Parigi, Francia (1930). Una parola si ripeteva continuamente nella mia mente quando mi ci sono trovata di fronte: “Monumentalità. Monu-mentalità”. Simone Leight si interroga sulla mentalità dei monumenti e delle loro eredità portate nell’atto di trattenere uno spazio che vuole rappresentare una nazione.

 

Il padiglione nazionale USA è stato realizzato a Venezia nel 1931, un anno dopo la rappresentazione del palazzo camerunese-togolese all’Esposizione Universale di Parigi. L’artista ha deciso di ricoprire l’immutato stile coloniale neoclassico del padiglione USA, con una rappresentazione del palazzo africano originariamente replicato dall’Europa. Con questo gioco architettonico al rovescio, l’artista riflette la capsula del tempo del mimetismo ripetitivo stereotipato.

 

Visitando il padiglione c’era un chiaro senso di desiderio di rifabulazione. Mi è venuto in mente lo storico James Olney (1984)[1], il quale ha osservato che negli Stati Uniti, nelle autobiografie di persone ridotte in schiavitù nell’era pre-guerra civile americana, c’era un tag titolare aggiunto ai titoli delle opere: “ Scritto da lui stesso”, o “Scritto da lei stessa” (Yellin 1981)[2]. Affermare l’autorialità in quel momento storico era una dichiarazione esplicita di soggettivazione degli autori.

 

L’artista offre una nuova ibridazione con la prima cultura materiale Nera americana (dalla Carolina del Sud) e le Esposizioni Universali. Non inverte il rapporto di sguardo dualistico tra lo spettatore e l’attore che veniva mostrato nelle fiere del mondo coloniale (Apter 1996)[3]; al contrario, sostituisce l’“altro” stereotipato storico oggettivato con nuovi “oggetti” soggettivi e mistici basati su immagini ereditate della soggettività femminile Nera.

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Dettaglio Sfinge, 2022

 

 

Anche in questo caso, invito,  voi tutte/i care lettrici e cari lettori, a venire con me alla nostra ultima tappa e visita. Vi chiedo di essere pront* a sentire con me e ascoltare l’amnesia collettiva soffiata dai venti e dalle acque veneziane.

 

Feeling her way/Sentendosi a modo suo

 

“Sentendosi…”

 

Sonia Boyce ci ha invitato a tuffarci nelle vite fatte di suoni di cinque musiciste di cittadinanza inglese, descritte come donne Nere. Entrare nello storico Padiglione Britannico, era come superare le barriere di comunicazione attraverso la pratica artistica condivisa. All’ingresso, come il resto del pubblico, mi sono trovata nel mezzo del processo di collaborazione che Boyce ha chiesto di mostrare con le altre artiste. Essere nel mezzo dell’installazione mi faceva sentire come se fossi stata in quella che potrebbe essere nella stanza di un adolescente britannic* Ner*: coperta da sfondi con copertine di album, poster e cassette spostate caoticamente. Il padiglione britannico è diventato una casa multipla, e uno spazio condiviso in cui le artiste britanniche Nere che si scambiano le loro storie di donne. Mentre cantavano, era come ascoltarle chiacchierare, ridere e condividere.

 

Io sono diventate noi, come membro del pubblico; che si è fuso in un “noi” con le artiste.

 

Io, noi, eravamo qui con tutti voi.

 

“… Suo…”

 

“Boyce ha chiesto alle donne di elaborare un elenco di cantanti Nere britanniche con la cui musica erano cresciute. Ma nella prima sessione, “è stato molto, molto imbarazzante”, ha detto Boyce, “perché ci sono voluti letteralmente circa 10 minuti prima che potessero pensare a qualcuno”. Hanno dovuto consultare la famiglia e gli amici per trovare i nomi. Questa socialità, intimità, richiesta è alla base del lavoro di Boyce che abbiamo integrato nei nostri sentimenti mentre “sentiamo a modo suo”[4].

 

… a Modo”

 

Mi sono seduta su sedie di pirite; questo metallo fu chiamato durante il periodo coloniale con l’appellativo “dio sciocco della colonizzazione”. Ero seduta sulla follia storica  circondata da voci, storie e suoni che -ci- toccavano interiormente.

 

Sonia Boyce disintegra le barriere tra il pubblico e l’artista, accogliendo coloro che sono pronti a stare con lei e con loro.

 

https://vimeo.com/722185589
Sonia Boyce, selezioni dalla performance, “Feeling her way” Installazione 2022

 

 

Il mio “io” è “noi”, è “loro”.

 

Alla fine di questo viaggio alla Biennale, non c’è separazione tra voi care lettrici e cari lettori, e me.

 

Grazie.

 

Acque sonore.

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

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