Le giullarate di Dario Fo: Parabole dialogiche al servizio degli oppressi – Pina Piccolo

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Nel corso di tutta la sua lunga carriera Dario fo dimostra un intenso interesse per  produzione di conoscenza e saperi utili agli oppressi. Mentre il grottesco costituisce una sorta di suo paradigma onnicomprensivo e la demistificazione l’obiettivo principale, nella produzione successiva al 1968 Fo utilizza due strutture drammatiche distinte per trasmettere tipi di conoscenza e saperi diversi. Nonostante la presenza costante di elementi appartenenti al genere della farsa e della giullarata [1] e il loro sapiente  dosaggio e miscelazione  in tutte le sue opere,  Fo utilizza prevalentemente la prima struttura quando desidera offrire controinformazioni su eventi politici specifici mentre la seconda struttura gli risulta maggiormente utile per trasmettere un tipo di conoscenza generale derivante da divisioni  e binarismi universali, come, ad esempio, la dicotomia oppressore/oppresso, eroe/cattivo, egemone /subalterno e così via.

Pertanto, la struttura della farsa viene, ad esempio, utilizzata per demistificare gli eventi che circondano la morte di Pinelli (Morte accidentale di un anarchico), le ripercussioni storiche del collaborazionismo di classe (Tutti uniti! Tutti insieme! Ma scusa quello non è il padrone?), o per portare alla luce e denunciare  le basi di potere e le divisioni interne della Democrazia Cristiana (Il Fanfani rapito). Parrebbe infatti che le caratteristiche meccaniche della farsa, il suo ritmo parossistico e le sue sequenze alogiche riproducano con le modalità più adatte il modus operandi tipico della politica borghese contemporanea. Tuttavia, quando si presentano problemi legati alla posizione ideologica e alla visione del mondo, la struttura dialogica della giullarata offre la cornice binaria necessaria a focalizzare l’attenzione sullo scontro di interessi tra oppressore e oppresso.

Un’indagine più approfondita del legame tra tipo di conoscenza e forma drammatica è pertanto utile per una migliore comprensione delle scelte drammaturgiche di Fo e per sondare alcune questioni che possono essere state trascurate nello studio del teatro popolare. Nel tentativo di formulare una tipologia delle giullarate di Fo, in questo articolo verrà esaminato il legame tra la struttura del dialogo e il tipo di conoscenza che esso produce. Le indicazioni di Bachtin sul grottesco in generale e sulla satira menippea[2] in particolare serviranno da sfondo per proiettare il debito di Fo nei confronti della tradizione e nel contempo esplorare l’innovatività  dei suoi contributi. 

Mistero buffo

Messo in scena per la prima volta nel 1969, il Mistero buffo è una delle opere teatrali di Fo più rappresentate e conosciute a livello mondiale e rappresenta il culmine di anni di sperimentazione e di rielaborazione di tecniche teatrali che fanno parte del bagaglio culturale di Fo. È nelle fasi preparatorie di quest’opera che compare per la prima volta la figura del giullare [3] , proprio nel momento in cui la compagnia teatrale Fo-Rame inizia una scrupolosa ricerca e indagine sul significato della cultura popolare. La compagnia non è isolata in questi sforzi, gli anni ’60 sono stati infatti il periodo in cui veniva valorizzata l’egemonia culturale teorizzata da Gramsci come pure le sue formulazioni sulla creazione di una cultura proletaria autonoma come prerequisito alla rivoluzione politica. Migliaia di intellettuali progressisti si sono trovati impegnati a dibattere e sperimentare su tali argomenti, e non solo in Italia.

Negli anni precedenti alla comparsa del personaggio del ‘giullare’ e della giullarata come struttura drammaturgica sia Dario Fo che Franca Rame avevano collaborato con musicologi ed etnografi alla serie di spettacoli itineranti intitolata Ci ragiono e canto, un tentativo di recupero dei canti della tradizione popolare che aveva riscosso grande successo a livello nazionale. Nel caso di Fo, l’aver respirato fin dall’infanzia la tradizione orale dei fabulatori [4] era parte integrante del suo bagaglio personale. Si potrebbe infatti speculare che una sedimentazione dei racconti dei fabulatori fosse alla base dei suoi primi ribaltamenti del punto di vista espressi nello spettacolo radiofonico Poer nano (1952), che gli valse per la prima volta ampi consensi a livello di pubblico. Nello spettacolo radiofonico Fo utilizzava la struttura di una cronaca  ininterrotta del narratore, scandendo con la voce in modo “virgolettato” i dialoghi dei personaggi, i quali miravano a ribaltare quello che poteva essere il ‘senso comune’ tradizionale su figure storiche o mitologiche come Caino e Abele, Isacco e Giacobbe, Garibaldi e così via. Questa struttura sperimentata la prima volta alla radio servirà come base rudimentale per le successive giullarate di Fo sul palcoscenico.

In Mistero buffo questa alternanza spontanea tra narratore e dialogo citato trova una giustificazione teorica. Secondo Fo, il compito degli artisti progressisti contemporanei era infatti quello di allearsi con la causa degli oppressi, prestando le proprie capacità artistiche per esprimere le esperienze e il punto di vista dei più deboli. Utilizzando categorie analitiche gramsciane, Fo insisteva sul fatto che storicamente i giullari erano una tipologia di intellettuale dotato di legami organici alle classi oppresse; di conseguenza, le strutture artistiche da essi create erano “del popolo” piuttosto che “per il popolo” [5]. Seguendo tale modello, Fo desiderava diventare un moderno giullare del popolo, basandosi su forme che si erano evolute nella tradizione popolare e che venivano regolarmente distrutte dall’avvento della cultura di massa creata dalla borghesia. In Mistero buffo, Fo appare nel ruolo di  moderno giullare, da solo sul palcoscenico, in un ambiente spoglio, prestando la sua voce sia al commentatore/cronista che ai personaggi che “citano” dalla Bibbia. A livello drammaturgico questi ultimi erano stati reinventati attraverso una miscela di citazioni da dialoghi tratti da testi medievali intrisi del grottesco della tradizione carnevalesca e con riferimenti a eventi contemporanei. Il palcoscenico nudo aiuta a mantenere l’attenzione focalizzata sull’attore che, attraverso spostamenti e  movimenti del corpo, mutamenti nella mimica facciale, segnala al pubblico che sta citando personaggi diversi. L’espediente di Fo richiede da parte dello spettatore un tipo di ascolto attivo mentre il personaggio del giullare insiste a concentrare l’attenzione sulla relazione tra le voci dialoganti, puntando senza tregua sulle differenze di posizione sociale, sugli obiettivi e gli interessi di classe che si manifestavano nello sviluppo di una particolare situazione.

Michail Bachtin dedica una parte considerevole dei suoi studi alla questione del dialogico e quindi anche alle analisi della forma ‘dialogo’ sin dall’antichità come strumento particolarmente efficace per focalizzare le questioni filosofiche; basti pensare ai dialoghi socratici. In quelle opere, la forma letteraria del dialogo era stata scelta non tanto come espediente estetico, quanto piuttosto come parte del processo epistemologico stesso. Infatti, una delle premesse di quelle narrazioni è che la conoscenza non sia un “oggetto” già posseduto da una delle voci dialoganti, ma piuttosto debba essere scoperta nel processo dello scontro tra le opinioni [6]. Nella satira menippea, una evoluzione successiva dei dialoghi socratici, di solito un saggio viene posto in una situazione liminale, cioè viene calato all’interno di una serie di circostanze straordinarie come i momenti che precedono la propria morte, in cui ci si libera da una partecipazione meccanica e oggettivata alla vita. Da questa prospettiva “purificata”, quindi, il personaggio dialoga con i morti o con altri interlocutori insoliti, discutendo di questioni filosofiche di grande profondità. Il carattere aulico dell’impresa era di solito controbilanciata da quelli che Bachtin chiama elementi di naturalismo dei bassifondi, come, ad esempio, l’uso del linguaggio quotidiano o i riferimenti a eventi contemporanei (Bachtin, Problems 106-10). Questi insegnamenti della tradizione popolare erano giunti a Fo attraverso la fabulazione dei fabulatori che utilizzavano tecniche simili.

Nella composizione del Mistero buffo Fo utilizza come base brani teatrali, poesie e racconti della tradizione popolare medievale raccolti in varie parti d’Europa e in varie regioni d’Italia. L’eterogeneità di tali testi di partenza era controbilanciata dall’uso uniforme di un dialetto trecentesco inventato da Fo, il grammelot, che utilizzava  sintassi e termini presi in prestito dai dialetti della pianura padana. Seguendo lo stile della satira menippea, l’alone aulico potenzialmente derivante dall’antichità dei testi veniva mitigato dal continuo riferimento a eventi e problemi contemporanei.

È significativo che nell’introduzione Fo si preoccupi di offrire una giustificazione per la sua impresa: la necessità che il movimento marxista si allei con il movimento cattolico progressista di base, affinché “i ricchi non ereditino né il regno dei cieli né questo mondo” [7]. Questa richiesta di alleanza programmatica portava in primo piano le questioni ideologiche legate alla tradizione di resistenza condivisa dal movimento operaio e dal movimento cattolico di base nei confronti del potere e delle istituzioni. Così facendo egli avvia un dialogo concreto tra queste due tendenze molto importanti della società italiana sotto forma di dialogo teatrale.

Osservati dal punto di vista dell’interlocuzione e del contenuto, i dialoghi che compongono Mistero buffo possono essere suddivisi in tre grandi categorie: (1) i dialoghi a due voci che mettono a fuoco interessi contrastanti; (2) i dialoghi a due voci che portano all’unità tra gli oppressi; (3) i dialoghi polifonici che creano un senso corale della ricchezza multiforme delle esperienze degli oppressi. Così, nella prima categoria la struttura dialogica e binaria mette in risalto la divisione, il dissenso e l’inconciliabilità. Nelle ultime due, invece, si sottolinea invece l’unità e la fusione della diversità. Queste due operazioni sono fondamentalmente riconducibili al funzionamento del grottesco, paradigma di fondo dell’intera opera di Fo.

Allineandosi alla  tradizione menippea, i dialoghi di Mistero buffo affrontano argomenti piuttosto ampi, che convergono e si incentrano tutti sulla questione del potere. A differenza della farsa, che mobilita la propria inclinazione proteiforme ai colpi di scena, alla rapidità del ritmo, al travestimento e alla disinvoltura della logica, tutti elementi che portano alla dispersione in una specie di movimento centrifugo, il dialogo ha il potere di concentrarsi, di mantenere l’attenzione su una particolare relazione, quindi si esprime come forza centripeta. In questo caso, il binomio oppressione/resistenza è quello dominante. Infatti, Roberto Nepoti osserva che, nonostante l’apparente focalizzazione storica, nelle giullarate la controstoria non è l’obiettivo primario, ma piuttosto la sfida al punto di vista imposto da chi detiene il potere e in molti casi accettato senza discussione da chi si trova in posizione subordinata [8].

A differenza dei dialoghi socratici, che presupponevano la mancanza di una verità conosciuta anteriormente, in Mistero buffo gli oppressi sono i detentori della verità, mentre i potenti ne rappresentano la negazione e l’usurpazione con la forza. Questa divisione carica di conflitti è particolarmente vera nei dialoghi del primo tipo, mentre la possibilità dell’ignoranza o dell’errore si trova più facilmente in assenza dell’oppressore, nei dialoghi tra chi ha similarità di interessi.

Così, il comportamento degli oppressi, più che svolgere una funzione di controinformazione, funge da parabola per i moderni eredi della divisione oppressore/oppresso. La comprensione di Fo dell’importanza degli exampla spiega forse la preferenza che egli accorda all’inversione di episodi storici, biblici o mitologici. A causa del peso della tradizione, gli esempi del passato sono di solito incorporati a un livello molto profondo, quasi inconscio, e servono come modelli di azione più forti e radicati degli episodi di vita contemporanea.

Mistero buffo: Il conflitto

L’episodio di Mistero buffo che forse si basa in maniera più esplicita sullo scontro di punti di vista è la lite tra l’Angelo e l’ubriaco mentre ciascuno cerca di raccontare la propria versione del miracolo compiuto da Cristo alle nozze di Canaa. La creatura alata ed elegante inizia con un prologo aulico e accondiscendente, volto a radunare il popolo per ascoltare la storia: “Deime rason. …bona zente. . ‘scoltime con atenzion imparché ve voj contare. . .” (Mistero buffo 15). Interrotto dalle chiassose osservazioni dell’ubriaco che sta decantando gli effetti delle abbondanti libagioni a cui si è abbandonato durante le nozze, l’Angelo perde il tono magnanimo iniziale e inasprisce le sue minacce contro l’ubriaco, prima con un “in silensio”, poi con un “cito” e infine con un “vaj si no to vol che at traga fora a pesciadi. …”. .” (Mistero buffo 16). Cogliendo le opportunità offerte dagli attributi fisici della creatura celeste, l’ubriaco inizia a spennarlo per poi lanciarsi in una descrizione in prima persona e piuttosto mondana delle nozze. A differenza dell’Angelo, che aveva dichiarato che la sua storia era vera perché tratta dal Libro Sacro, l’ubriaco si basa sulla propria esperienza. Così, fin dall’inizio, la verità non è stabilita da un’autorità pre-esistente bensì dall’esperienza. Nella dinamica dello scambio tra angelo e ubriaco il discorso del potere rivela la sua doppia faccia, fingendo inizialmente aulicità e magnanimità per minacciare poi  in realtà di ricorrere alla forza.

Anche se l’ultima parte dell’episodio della lite è un assolo dell’ubriaco, la voce di contrasto implicita è la versione dei fatti del Nuovo Testamento. La ricchezza di osservazioni derivanti dal “basso-materiale-corporeo” [9] del grottesco nel monologo dell’ubriaco viene utilizzata qui in chiave parodica nei confronti dei monologhi che riguardano questioni filosofiche profonde o scelte di carattere tragico tipiche dei monologhi della tradizione elevata. L’oppressione è vissuta dai personaggi di Fo come fenomeno di classe piuttosto che come condizione individuale. Pertanto, i monologhi non sono strutturati come dibattiti interiori; non sono mai soliloqui, ma piuttosto narrazioni dirette ad altri.

Un altro importante alterco in Mistero buffo ha come protagonisti la Madonna e l’Arcangelo Gabriele ai piedi della croce. L’emissario di Dio si avvicina a Maria per porgerle le sue condoglianze e, temendo di non essere riconosciuto, si ripresenta con un discorso altisonante: “Gabriel, l’angiol de deo, sent mi quelo vergen, ol nunzi d’ol to solengo e delicat amor” (Mistero buffo 23). Noncurante del tono lirico, la Madonna replica con un’invettiva, affidandosi ancora una volta alle opportunità offerte dall’iconografia cattolica: “Torna a slargat i ali Garbriel, torna indre al to bel ciel zojoso che no ti g’ha riente a far chi loga in sta sgarosa tera, in stu turmento mundo” (Mistero buffo 23). Con l’ottusità tipica del potere, l’Arcangelo prosegue offrendo rime consolatorie: “Dona indulurada. . .che fin ‘ndol venter t’ha scarpada di patiment, oh mi ol cognosi ciaro sto turment che t’hait catat mirand ol segnor zovin deo inciudat. . . ” (Mistero buffo 23). Imperterrita la Madonna respinge la pretesa dell’Angelo a una pari sofferenza: “At n’e sgagniat ti i labri par no criar di duluri ‘ndol parturil? At l’ahit nutregat ti? Dait de teta ol latt, ti, Gabriel?”. (Mistero buffo 23).

Come nell’episodio precedente, l’oppresso si basa sui dati della propria esperienza, mentre i potenti si affidano a una conoscenza vicaria e surrogata. La diversità dell’esperienza degli oppressi fornisce inoltre al drammaturgo materiali variegati per comporre i suoi esempi di resistenza: così l’ubriaco si affida a metafore scatologiche di abbondanza, la mater dolorosa al dolore e al sacrificio dell’esperienza biologica femminile. Questa diversità contribuisce a mitigare la pesantezza didascalica della parabola.

Nella farsa, invece, gli scambi legati al conflitto presentano una maggiore mobilità. Ad esempio, in Morte accidentale di un anarchico, sia nei monologhi che negli scambi verbali, Il Matto si affida a una molteplicità di discorsi per sovvertire il punto di vista: basti pensare alla sua appropriazione dei gerghi settoriali del grammatico, dello psicologo, della burocrazia poliziesca, dell’esercito, della chiesa[10].  Mentre nella giullarata si riscontra una certa uniformità all’interno di ogni episodio per cui ci si può aspettare una risposta derivante dall’esperienza diretta di ogni personaggio, la farsa è svincolata da tali limitazioni logiche, come ci si potrebbe aspettare da un genere a carattere dispersivo. Anche nei monologhi presenti nell’opera si può individuare una gamma più ampia di esperienze. Ad esempio, nel monologo che porta alla descrizione dei giudici, II Matto offre al pubblico un intero catalogo degli effetti della vecchiaia su lavoratori che vanno dai minatori agli impiegati di banca.

Nel contrapporre la credibilità agli occhi della legge degli operai in pensione a quella dei vecchi magnati, Il Matto non si basa sull’esperienza diretta, ma su elenchi di immagini popolari degli stili di vita di ciascuna categoria (Morte accidentale 79-80), poiché lo scopo della commedia è offrire controinformazione piuttosto che fornire spunti didascalici.

Mistero buffo: Le alleanze

L’episodio del cieco e dello zoppo appartiene alla categoria dei dialoghi all’insegna della  “alleanza”. Due mendicanti, uno cieco e l’altro zoppo, sono bloccati in una piazza; ciascuno si lamenta della propria disgrazia con un passante. Mentre lo zoppo invoca Dio chiedendogli il dono delle ruote, il cieco gli si avvicina ed escogita un sistema di mutuo soccorso: il cieco porterà in braccio lo zoppo che a sua volta farà da guida ad entrambi. Poiché la manovrabilità della macchina umana si rivela problematica prende il timone il linguaggio del basso-materiale-corporeo; tuttavia,alla fine prevale lo stato d’animo che concilia all’alleanza tra i due. L’intensità della cooperazione aumenta quando si rendono conto che si stanno avvicinando a Gesù, uno stregone di grande fama per la sua capacità di guarire gli afflitti. Lo zoppo, particolarmente sensibile ai suoi interessi di lungo termine, suggerisce di passare oltre rapidamente: “Pensaghe un poc, se davero ghe cata a tuti e doj la desgrazia de sì liberadi di nostri desgrazi. D’un boto ag strovariam in la cundision d’es obligat a for via un mestier per impoder campare” (Mistero buffo 27). Entrambi i personaggi emarginati concordano nella loro valutazione della reazione del mondo del lavoro a una loro eventuale guarigione:

At gnirat miracolat, bon, e at tocherà crepar de fame. . .che toeti i te criaran: vagj’ a lavorar!

. .Vag-j a lavorar vagabondo. . .i te diserà. . .brasce robade a la galera. . .e a perderesmio ol gran previlez che g’avemo in pari ai siori, ai paroni, de for gabela: Lori col slongar i truchi de la lege, nojaltri con la pità. Li doi a gabar cojoni! (Mistero buffo 27)

Nel dialogo si avverte chiaramente una comunità di interessi da parte dei mendicanti nell’affrontare la questione del lavoro che li distingue sia dagli operai che dai padroni, e dal punto di vista della loro marginalità sono anche in grado di imitare in chiave parodica le voci delle altre classi.

La comunanza regna anche nei dialoghi polifonici, ad esempio nella resurrezione di Lazzaro. L’opera si apre con le proteste di uno spettatore ritardatario che, al cancello del cimitero viene affrontato dal custode dotato di forte senso di imprenditorialità che vuole fargli pagare sia l’ingresso che il posto a sedere. Mentre il ‘teatro’ inizia a riempirsi, una donna avverte: “uei scomingion mica a spinger”, mentre altre voci soffocate ipotizzano l’arrivo del Messia. Quando Cristo appare sulla scena si ascolta la sua descrizione dal punto di vista degli spettatori che dialogano tra di loro:

-Ol riva!! A l’è chi… .

-L’è quelo là?… .

-Si, quelo cont la barbeta bionda. . .oh me l’è zovin. . .ol par un bagai. . . E  quela lie la sua mama de lu. . . .voj!! Bela dona eh? (Mistero buffo 20)

Mentre l’attenzione si sposta sul miracolo che sta per compiersi, una voce lamentosa allude al movimento in avanti della folla: “No sti a sping. . .am versit buta anc mi la tomba?”. Nel frattempo, si sentono altre voci che si lamentano per il fetore del corpo in decomposizione e altre che scommettono sulla capacità di Gesù di compiere un miracolo. Tuttavia, non tutti sono pienamente soddisfatti della performance miracolosa di Gesù: un lamentatore cronico preferisce le qualità di showman di Giovanni Battista: “o quel si che ne faseva de quei. . .che miracol fioi! Roba de no crederghe! pecad che g’han taiad ol colo. . .” (Mistero buffo 21). È l’esigenza umana del meraviglioso, del trascendente invocati per contrastare i limiti umani che accomunano il mondo dello spettacolo e della magia ed essi permettono a Fo di esercitare il grottesco mentre dà una rappresentazione corale del mondo degli oppressi in cui sono ammesse le idiosincrasie, l’ignoranza e le stranezze, in assenza della voce del potere che deve essere contrastata.

A differenza della focalizzazione fissa del dialogo di contrasto, il senso di dispersione tipico della farsa si ritrova anche nei dialoghi corali in cui si può osservare un alto grado di mobilità, e la tendenza centrifuga dal gran numero di voci ascoltate. Ad esempio, le battute non sono necessariamente una risposta a una domanda precedente; anzi, spesso portano a cambiamenti di direzione che sembrano omologhi ai colpi di scena della farsa.

L’entusiasmo per la sfida al punto di vista dell’oppressore che caratterizza soprattutto i dialoghi conflittuali può essere messo in relazione alle tendenze del periodo storico in cui essi sono stati rappresentati. Saranno le esperienze della Rivoluzione culturale cinese e dalle ribellioni giovanili del 1968 diffuse in Europa e negli Stati Uniti a offrire terreno fertile per parabole di resistenza con esiti positivi per gli oppressi. L’attenzione agli elementi comuni presenti nell’esperienza degli oppressi, sia che si tratti della resistenza di cattolici messi a freno dall’istituzione ecclesiastica favorevole ai ricchi (illustrata dall’episodio di Bonifacio VIII in Mistero buffo), sia che si tratti dell’insubordinazione dei lavoratori, è finalizzata a formare un’alleanza in nome della sfida al potere. In un momento in cui su scala mondiale si sfidavano istituzioni e nazioni potenti (la resistenza del popolo vietnamita, la Rivoluzione Culturale, le lotte dei neri negli Stati Uniti, ecc.), Fo metteva in scena attraverso le sue parabole la forza del popolo quando è insubordinato, unito e consapevole dei propri interessi. Già a metà degli anni Settanta, tuttavia, una nuova serie di problematiche ideologiche e programmatiche avrebbe assalito il movimento rivoluzionario e il suo spazio teatrale.

Le parabole degli anni ’70 e ’80

Il cambiamento del clima ideologico nel movimento rivoluzionario a livello mondiale era già ben evidente nel 1977. Tale mutamento si nota anche nel tono delle parabole dialogiche che Fo mette in scena in quel periodo. Storia della tigre fu rappresentata per la prima volta in occasione di un incontro nazionale di diverse organizzazioni e realtà anti-istituzionali che si riunirono a Bologna nel settembre 1977 in un convegno contro la repressione [11].

Il protagonista e narratore di Storia della tigre è un soldato cinese, ferito e abbandonato dai suoi compagni durante la Lunga Marcia. Il soldato trova rifugio in una grotta e si addormenta, per poi essere svegliato dal rumoroso ritorno dei suoi legittimi occupanti, una tigre e il suo cucciolo mezzo annegato. Segue uno scambio piuttosto inarticolato tra uomo e bestia, uno scambio basato sulla paura e sull’incomprensione. Gradualmente si passa a un modello di cooperazione “scettica”, quando la tigre e il soldato scoprono di potersi aiutare reciprocamente. Infatti, la tigre guarisce il soldato leccandogli la ferita con la sua saliva curativa e, a sua volta, il soldato fa conoscere alle bestie selvatiche il gusto raffinato della carne cotta. Quando il soldato si riprende, lascia la grotta e cerca di ritrovare il suo distaccamento dell’esercito di liberazione. Adirate per l’improvvisa partenza del soldato, le tigri lo seguono in città e lo aiutano a scacciare le forze del Kuomintang scese nel frattempo nel villaggio. I felini vengono poi presi in prestito da tutti i villaggi vicini ogni volta che il Kuomintang tenta di invadere. Il dialogo passa poi da uno scambio all’insegna di una difficile alleanza a un dialogo caratterizzato dal conflitto quando le autorità locali del partito insistono perché le tigri vengano mandate via: la loro vigilanza non è più necessaria perché il partito, ora al potere, governerà nell’interesse del popolo:

Bravi, bravi! Questa invenzione della tigre è straordinaria. Il popolo ha un’inventiva e un’immaginazione, una fantasia che nessuno ha! Bravi! Bravi! Adesso le tigri però, non si possono tenere con voi, bisogna mandarle nella foresta come erano prima. (Storia della tigre 56)

Incurante delle proteste del popolo, il burocrate insiste:

Non possiamo, le tigri, sono gente anarcoide, mancano di dialettica, non possiamo dare un ruolo alla tigre nel partito, e se non può stare nel partito, non può stare neanche nella base. Dialettica non ha. Ubbidite al partito. Mettete le tigri nella foresta. (Storia della tigre 56)

Fingendo obbedienza alle autorità, gli astuti  abitanti del villaggio nascondono le tigri in un pollaio e le camuffano da galli e ciò induce il burocrate formalista che ispeziona il pollaio a registrarle come esemplari di “Gallo tigrato”. La storia prosegue con altri episodi che illustrano la necessità di essere autonomi e di non delegare mai i propri interessi e il proprio potere alle autorità. Il passaggio di Fo da un ottimistico invito a sfidare l’autorità all’esortazione ad essere autonomi e a resistere agli attacchi dei potenti sembra derivare dai cambiamenti che si verificano nella situazione mondiale, come le battute d’arresto subite in Cina dalle forze rivoluzionarie dopo la morte di Mao, e in quella italiana, con l’aumento della repressione a seguito della Legge Reale, nonché la confusione ideologica all’interno del movimento.

Un’ulteriore minaccia per il movimento già indebolito di suo fu costituita dalla defezione di molti giovani che reagirono al momento storico sfavorevole con l’evasione e le soluzioni utopiche. Di nuovo Fo affronta questo problema anche di carattere ideologico facendo affidamento sulla struttura del dialogo della tradizione menippea rielaborandolo con contestualizzazioni contemporanee. I dialoghi scritti da Luciano di Samosata consistevano in scambi tra Icaro e lo stesso Luciano. La versione rielaborata da Fo inizia sul modello di un litigio familiare, quando Icaro rimprovera al padre di aver costruito il labirinto in cui sono imprigionati. Dopo numerosi tentativi falliti di trovare una via d’uscita, riescono a uscire all’aria aperta e, attirando gli uccelli di passaggio, raccolgono le materie prime per costruire le ali necessarie alla fuga. Icaro è alla ricerca (letteralmente) di un volo verso l’utopia. Vedendo un’isola in lontananza, dice: “Che Bela e! Gh’è pescadori. . . varde, dei contadini. . . Varda, anco qui a gh’è i solda! Varda anco qui gh’è i soldà. Varda che i masa! E le preson piene! Patre, scapemo! Dai, patre, andemo, scapo!”.

Dedalo cerca di contrastare l’impulso del figlio a fuggire dal conflitto consigliandogli di sbarcare sull’isola piena di problemi:

Perché a l’è inutile andare cercando un’altra isola nova. . . bela. . . dove tuto l’è aprontà, tranquillo. Dove te rive e i te dise: “Bona sera, vegne, te speciava!”. No! No! troverai gimai l’isola tranquilla già fata! Ne toca farla. . . farla co’ le mani dentro la palta. . . dentro il sangue. . . nei sogni trovar isole. Vegne, ‘des. (Storia della tigre 158)

Il carattere allegorico di entrambi i brani, il primo che raccomanda la fiducia in se stessi, il secondo la perseveranza, si riferisce inequivocabilmente ai problemi contemporanei che il movimento si trova ad affrontare. Tra i mutamenti che si possono riscontrare, una maggiore problematicità per cui il conflitto si estende anche all’interno degli oppressi stessi su come procedere, sostituendo così la versione tendente all’unità che caratterizzava il periodo di Mistero buffo in cui la divisione principale era sempre tra oppressori e oppressi.

Nelle giullarate e nei monologhi successivi, come Fabulazzo osceno [12] e Una madre, la situazione di confusione e di arretramento delle forze rivoluzionarie è rispecchiata sia dall’eterogeneità dei materiali prodotti da Fo sia dai cambiamenti nella struttura dei monologhi, che danno più spazio alle riflessioni della voce narrante/ commentatore. Ad esempio, in Fabulazzo osceno l’intenzione programmatica di Fo è quella di sfruttare l’effetto liberatorio dell’osceno come rivolta contro i metodi e le categorie ritenute rispettabili dalle autorità. I materiali raccolti a questo scopo sono estremamente eterogenei e vanno da un fabliau provenzale e da un racconto menippeo di Luciano di Samosata, entrambi basati su questioni di politica sessuale, a una cronaca della “rivolta di Bologna”, basata sulla controstoria di uno storico medievale, fino al monologo immaginario di Ulrike Meinhoff nelle ultime ore prima del suo “suicidio” da parte dello Stato della Germania Ovest. L’elaborazione di temi non strettamente ‘politici’ nel senso istituzionale del termine suggerisce l’influenza di questioni portate alla luce dal movimento femminista e da varie correnti post-strutturaliste dei filosofi francesi. La frammentazione e la mancanza di un centro organico rispecchiano in un certo senso la perdita di quella visione alquanto unitaria che aveva caratterizzato le prime fasi dei moti del ’68, provocando quindi uno spostamento verso territori più problematici. Ciò si ripercuote anche sulle situazioni degli apologhi di Fo che si spostano verso protagonisti, sia uomini che donne, messi alla prova nel loro rapporto con la conoscenza e nel loro rapporto con il potere. Così il saggio di origine menippea curiosamente converge sempre di più  verso quei personaggi ingenui/candidi del primo  Fo, il cui rapporto con la conoscenza cresce nel corso di un viaggio (come, ad esempio, “il Lungo” de Gli arcangeli non giocano a flipper).

Nel monologo Una madre, scritto insieme a Franca Rame (1983) [13], Fo sembra miscelare le caratteristiche di contro-informazione di cui si fa portavoce la forma farsa con le tendenze prescrittive della giullarata. Un approccio più complesso alla conoscenza si riscontra in Una madre, la cui protagonista è una madre che ha appena appreso dal telegiornale che suo figlio è stato arrestato e accusato di far parte delle Brigate Rosse. Mentre viaggia nel mondo delle Leggi d’emergenza [14], affronta l’isolamento dei suoi ex compagni, che, piegati dalla pressione del riflusso, proclamano di aver compreso l’ingenuità e l’inutilità del movimento del ’68, di averne previsto l’inevitabile sbocco nel terrorismo (Una madre ii-v). A differenza delle eroine di Mistero buffo, la madre non si basa solo sulle proprie esperienze. Infatti, nel corso del racconto, per illustrare la situazione disperata della gioventù italiana, traccia un continuo parallelo tra la sua situazione e quella della madre di un giovane tossicodipendente, altra vittima della crisi politica ed economica. Ancora una volta la forma del dialogo viene utilizzata per esprimere un senso di sofferenza comune. Quando affronta il giudice nelle battute finali, la madre solleva anche una critica al ruolo istituzionale della maternità:

“Signora, dove è detenuto il bambino? Lei è responsabile. . .lo aveva in custodia!”

Affondo la mano sotto il livello della nebbia: “Eccolo! L’ho preso! Signor giudice!”

Ma questo non è mio figlio! È il ragazzo drogato. . . Sanguina! Ha il corpo cosparso di ustioni! Che è successo?!

“Mi hanno torturato! Mi hanno bruciato anche i testicoli! Voglio sporgere denuncia contro cinque poliziotti!”

“Taci! È mio figlio! L’ho preso signor giudice! Ho catturato mio figlio! Ho fatto il mio dovere di cittadina democratica che ha fiducia nelle istituzioni! Oh! Mi spiace. . . L’ho stretto troppo! L’ho strangolato! Ѐ morto!” (Una madre xvii)

In Una madre si passa decisamente dall’ottimismo a una riflessione più problematica: mentre si elogia e si prescrive la resistenza, si sollevano altre questioni non facilmente risolvibili che fanno parte della lotta per risolvere la crisi ideologica della sinistra rivoluzionaria.

Le ripercussioni della perdita di un centro unitario sono osservabili anche nelle farse successive di Fo che, a differenza di quelle caratteristiche della fine degli anni Sessanta e dell’inizio degli anni Settanta, sono più dispersive, vanno in più direzioni contemporaneamente e spesso sollevano il problema della politica “personale” (Clacson trombette e pernacchi [1981] o Coppia aperta [1983].

Fino ad oggi, le farse di Fo sono state soprattutto indicatori degli ultimi intrighi e scandali politici, mentre i monologhi sono serviti come barometro del clima ideologico e della situazione del movimento rivoluzionario. La sua ultima produzione, che comprende sia le giullarate che le farse, appare a prima vista meno raffinata e più frammentaria rispetto ai suoi lavori precedenti. Questi cambiamenti sono stati interpretati da alcuni come segni di stanchezza, confusione e incapacità dell’autore di stare al passo con i tempi. Sebbene alcuni elementi di questa critica siano validi, si può vedere in alcuni degli ultimi lavori di Fo un tentativo di crescita artistica e ideologica, il riconoscimento della necessità di sviluppare approcci più complessi alla questione del potere e della conoscenza. Tenendo presente la natura flessibile e in progress dello stile di lavoro di Fo, si può sperare che le sue ultime sperimentazioni siano segni di nuove opere, potenziate e più mature.

[1] Il termine giullarata si riferisce alla struttura teatrale utilizzata dai giullari e rielaborata da Fo, in cui il narratore racconta una storia offrendo sia i propri commenti, sia prestando la propria voce e i propri gesti per “citare” i discorsi dei personaggi narrati.

[2] Bakhtin, Mikkail, Problems of Dostoevsky’s Poetics, (Ann Arbor: Arids, 1973) pagg. 101-137.

[3] I giullari erano artisti itineranti che nel Medioevo e nel Rinascimento si esibivano nelle strade e nelle piazze. Anche se scarse e contrastanti sono le informazioni sulle loro forme di spettacolo e sulla loro funzione sociale, Fo concorda con gli storici che li considerano veri e propri creatori di un’arte popolare che si oppone ai canoni della classe dirigente. Secondo critici come Cesare Molinari, i giullari svolgevano anche una funzione di informazione in quanto i loro commenti demistificavano gli eventi politici e sociali dell’attualità.

[4] Il termine generico di fabulatore si riferisce a un narratore orale. Nel caso di Fo, egli fu molto influenzato dai pescatori abusivi del paesino lombardo della sua infanzia vicino al confine svizzero, le cui storie, come quelli della tradizione carnevalesca, si basavano sul paradosso, sull’iperbole e sul rovesciamento. Claudio Meldolesi, riferendosi al giullare di Fo, lo ha caratterizzato come una “persona della tradizione orale”, dando così continuità alle radici artistiche di Fo.

5) Le affermazioni di Fo sulla funzione “sovversiva” del giullare sono state oggetto di un vivace dibattito sulle pagine dei Cahiers du Cinema. Infatti, nell’articolo intitolato “Culture populaire et travail militant: Dario Fo et le collectif La Comune”, 250 (1974), pagg. 11-25, la rivista contestava le affermazioni di Fo sottolineando il rapporto di alcuni tipi di giullari con le corti.

[6] I diversi punti di vista sulla funzione e sul significato del dialogo come forma d’arte sono rappresentati nel volume Il dialogo-scambi e passaggi delle parole (Palermo: Sellerio, 1985), curato da Giulio Ferrone. Nella sua introduzione, Ferrone sottolinea la posizione di Hans-Georg Gadamer che individua nel dialogo il principio di ogni conoscenza storica.

[7] Fo, Dario, “Mistero buffo”, in Compagni senza censura, (Milano: Mazzotta, 1970), p. 13. Tutti i riferimenti saranno a questa edizione.

[8] Nepoti, Roberto e Cappa Marina, Dario Fo (Roma: Gremese, 1982), p. 7.

[9] Secondo Bachtin, gran parte della tradizione del grottesco si basa sulle immagini del basso-materiale-corporeo come come espressione dei cicli vitali di nascita, morte e rigenerazione. Si veda a proposito il capitolo VI di Rabelais and His World (Cambridge, MA: MIT Press, 1968).

[10] Fo, Dario, Morte accidentale di un anarchico, (Torino: Einaudi, 1974). Tutti i riferimenti saranno a questa edizione.

[11] Fo, Dario, Storia della tigre ed altre storie, (Milano: F. R. La Comune, 1980).

[12] Fo, Dario, Fabulazzo osceno, (Milano: F. R. La Comune, 1982).

[13] Fo, Dario, “Una Madre” in Dario Fo e Franca Rame: Laboratorio teatrale ai Riverside Studios, London (Londra: Red Notes: 1983/pp. i-xvii).

[14] Dopo il rapimento e l’uccisione dell’ex Presidente del Consiglio Aldo Moro nel 1978, furono emanate leggi di emergenza temporanea che limitavano i diritti civili degli indiziati accusati di appartenenza a organizzazioni terroristiche. Tali leggi prevedevano l’istituzione di carceri speciali per detenuti politici sospettati di terrorismo, permettevano che l’opinione politica fosse considerata alla stregua di evidenza a fini penali, e concedevano pene lievi o l’immunità agli indiziati che si fossero ‘pentiti’ e avessero fornito informazioni su altri. Un numero relativamente ristretto di intellettuali, artisti e magistrati democratici si unì attivamente agli sforzi per ottenere l’abrogazione di tali leggi emergenziali. Tra questi vi erano Dario Fo e, soprattutto, Franca Rame. Nel 1985 è stata fondata la rivista Antigone per per dare spazio all’attivismo anti-emergenza; tuttavia, a tutt’oggi, le leggi d’emergenza non sono ancora state completamente abrogate.

[15] In un’intervista rilasciata ai Riverside Studios, Fo definisce disastrosa la situazione ideologica della sinistra italiana. Afferma inoltre che l’unico fattore che ha aiutato Franca Rame e lui stesso a sfuggire all’immobilismo di gran parte della sinistra un tempo rivoluzionaria è la loro continua associazione con la lotta popolare.

Traduzione italiana di Pina Piccolo del suo articolo “Dario Fo’s Giullarate :Dialogical Parables in the Service of the Oppressed”, pubblicato nella rivista accademica statunitense Italica, Vol. 65, No. 2 (Summer, 1988), pp. 131-143 (13 pages).

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

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