STORIA DELL’ESPROPRIAZIONE DELLE TERRE MAPUCHE – INTERVISTA ALL’ANTROPOLOGO MARTÍN CORREA CABRERA

historia despojo

Intervista a cura di Paula Huenchumil

(traduzione di Lucia Cupertino)

historia despojo

“La historia del despojo. El origen de la propiedad particular en el territorio Mapuche” (editoriales Ceibo y Pehuén), ovvero “La storia dell’esproprio. L’origine della proprietà privata nel territorio Mapuche” è l’ultimo libro dello storico e dottore di ricerca in antropologia, il cileno Martín Correa Cabrera, che approfondisce le diverse modalità del processo di espropriazione territoriale subito dal popolo Mapuche, attraverso un esauriente lavoro di archivio e di storia orale.

È stato selezionato come miglior libro dell’anno 2021 dall’Associazione delle librerie indipendenti del Cile, composta da oltre 70 librerie cilene, inoltre è da settimane nel ranking dei libri più letti del quotidiano El Mercurio, ma paradossalmente per Martin Correa si tratta di un “riconoscimento che il libro non ha avuto nei media ufficiali come La Tercera, El Mercurio o La Segunda, che non prestano attenzione alla ‘fortuna’ di questo fenomeno editoriale, considerato il fatto che non è facile per un libro avere un livello così alto di vendite”. Dal quinto giorno dalla sua uscita, è stato anche piratato (ride), il che mi rende piuttosto felice”.

Questo libro ha una lunga storia, secondo quanto racconta Martín Correa, essendo “il risultato di ricerche portate avanti per 28 anni e trasformate in libro nel giro di un solo anno”. È anche coautore de “La reforma agraria y las tierras mapuches: Chile 1962-1975” (Lom, 2005) e “Las razones del Illkun / enojo” (Lom, 2010), tra gli altri.

Questa intervista di Paula Huenchumil a Martín Correa è originalmente apparsa sul giornale cileno Interferencia. Negli ultimi mesi l’autore ha portato il libro nelle comunità con cui ha lavorato, per “restituire la memoria storica”, in quanto spiega in dettaglio l’origine degli attuali conflitti territoriali nel Wallmapu, quali sono stati i metodi di frazionamento, vendita all’asta e aggiudicazione delle vecchie terre ai coloni, e il processo di insediamento/riduzione.

“L’idea è quella di svelare i meccanismi di usurpazione, ma anche quelli della violenza successiva, quando le famiglie mapuche sono state espulse dalle loro terre ancestrali. Il libro ha un linguaggio accessibile, al di là degli specialismi da eruditi, un testo comprensibile ma non per questo meno incisivo ed esaustivo, e lo è nella misura in cui per me è importante che entri a far parte delle discussioni familiari della società mapuche, così come di quella cilena”, aggiunge.

– Per svolgere la ricerca si è rivolto a diversi archivi, come quello dei Registri Immobiliari, ma ha fatto anche un lavoro di memoria all’interno delle comunità, qual è la rilevanza di tutto ciò?

Ci sono diverse fonti, le principali sono quelle documentarie e orali, che sono le due vie maestre. Le prime, come le Memorie del Ministero della Guerra, della Colonizzazione e della Terra, le lettere dell’Intendenza, i Registri Immobiliari, dove si recupera la storia della proprietà dei terreni, la loro origine, l’insorgere dell’usurpazione. Ho messo in relazione diverse fonti, è lì dove si trovano le storie nascoste. Ci è stato sempre detto che prima sono arrivati gli “araucani”, dopo gli spagnoli, poi i cileni, infine i tedeschi, nel caso di Valdivia, o gli svizzeri, nel caso di Traiguén, per esempio, ma il processo di perdita territoriale non viene raccontato, viene negato, è stato invisibilizzato.

D’altra parte, e nonostante la profonda coerenza con le fonti documentarie, c’è la tradizione orale, il libro è pieno di testimonianze, non c’è comunità, non c’è lof, che non sappia quali fossero i vecchi confini, con chi confinassero, quando arrivarono i primi Winka (bianchi, ndr), all’arrivo dell’Esercito di Occupazione, come sono state perse le terre, come “gli antenati” sono stati espulsi con violenza, in quale spazio territoriale si trovavano i menokos, ovvero i siti cerimoniali, tutto ciò fa parte della memoria della comunità. Questa conoscenza non era stata ancora sistematizzata. Quando si fa lavoro di campo nei territori, una delle prime cose che ti raccontano sono le storie tramandate “dagli antenati”, che non sono nemmeno così vecchie, da oggi all’occupazione del Wallmapu sono passate appena tre generazioni, il che corrisponde a ieri per la memoria di un popolo, nel caso dei Mapuche, una memoria viva.

Credo che sia fondamentale mettere in evidenza la storia della comunità, perché è attraverso questa memoria storica che si comprendono i processi attuali e si valorizza la resistenza delle comunità, giacché è in linea di continuità con ciò che hanno fatto i loro antenati. Solo per fare un esempio, le Comunità in Resistenza di Malleco ricordano in modo permanente la Junta de Quechereguas del 1867, la lotta che i guerrieri di Mañil Wenu e Lonko Kilapán hanno combattuto contro l’Esercito di Occupazione, e paradossalmente sono comunità che territorialmente vivono nella stessa zona che l’allora generale Gregorio Urrutia definì “base della ribellione e covo dei rei”, stigmatizzata già 120 anni fa, si parlava infatti di zona rossa…. in questo senso, la percezione da parte dello Stato non è cambiata.

– Il werken (portavoce) Rodrigo Curipan afferma nella prefazione che: “non vi sono argomentazioni valide per sostenere che questa sia stata un’occupazione con gesti pacifici o volontà politica”. In questo senso, come è stata raccontata questa storia dal punto di vista ufficiale, dai libri cileni nelle scuole?

Ritengo che la storia dell’occupazione del Wallmapu, della sua usurpazione, espropriazione e colonizzazione, sia stata ufficialmente annacquata, non sia stata davvero raccontata. È stata negata perché ci sono interessi alle spalle, in quanto è stata l’oligarchia al potere ad ordinare ai propri seguaci di insediarsi lì, una volta portata a termine l’occupazione del territorio mapuche. Esisteva un progetto nazionale basato sull’insediamento di coloni e sulla riduzione ed espulsione territoriale dei Mapuche dalle loro terre, è per questo che la società cilena deve continuare a non saperlo. Allora si racconta un’altra storia, la storia dell’incontro tra civiltà, la storia della pacificazione.

Ho esaminato tutti i documenti del Ministero della Guerra, del Ministero della Terra, tra gli altri, e non ve n’è uno in cui si parli di “pacificazione”. Il primo a parlarne fu Benjamín Vicuña Mackenna, casualmente all’epoca deputato di Valdivia, territorio mapuche, e quindi anch’egli direttamente interessato, è stato nei quattro discorsi sulla Pacificazione dell’Araucanía che pronunciò davanti alla Camera dei Deputati nel 1867, non c’è altro. Nelle lettere, nelle cartine e nelle relazioni si parla di invasione, di guerra, di occupazione. Tuttavia, il concetto di pacificazione dell’Araucanía rimane, nonostante si stata un’invasione in piena regola, con armi, con violenza, con innumerevoli morti ed episodi di persecuzione. Credo che dietro a tutto questo ci sia fondamentalmente la volontà di nascondere una pagina sporca di violenza e morte, la peggiore della storia del Cile.

Credo sia anche importante notare, tuttavia, che si tratta di una storia “a portata di mano”. Ad esempio, il massacro di Forrahue, ad Osorno, viene commemorato ogni anno presso il fiume Rahue, all’uscita occidentale di Osorno. Oppure la marcatura Painemal, in cui un colono marchiava un peñi  (fratello, in lingua mapuche, ndr) come se fosse un animale, fa parte della memoria mapuche, così come tutte le denunce del parlamento Coz Coz, nel 1907, che svelavano le atrocità dei coloni tedeschi a Panguipulli, Lanco, Malalhue, Valdivia. Tutte queste azioni disumane erano pubbliche, venivano denunciate, erano persino riportate dalla stampa.

Poi ci sono le relazioni della Commissione parlamentare per la Colonizzazione del 1912, stiamo parlando dunque di documenti ufficiali. Nel 1911, una commissione parlamentare viaggiò per tutto il Wallmapu, membri del Congresso, parlamentari di tutti i partiti, deputati e senatori, che si trovavano a Cholchol un giorno, a Carahue un altro, a Saavedra, a Temuco, a Freire e per due o tre mesi hanno viaggiato per tutto il territorio, ricevendo le denunce delle comunità mapuche; questo fa parte di una relazione parlamentare, un documento ufficiale, che ha 600 pagine e fa parte della Biblioteca del Congresso, ma non se ne parla mai. Risale a più di cento anni fa, e tutto ciò che è descritto nel libro si trova chiaramente lì. E naturalmente si può dire che si tratta di un documento perso tra gli scaffali della biblioteca, ma in realtà è anche su internet, è pubblicamente accessibile e chiunque voglia può darci una lettura.

Quindi, in sintesi, mi colpisce la sorpresa sorta con la pubblicazione del mio libro, perché si tratta di denunce ripetute nel tempo. Anche se si getta un occhio alla stampa dell’epoca, si può notare come i privati siano diventati proprietari. A ciò si aggiunge un esame esaustivo dei registri delle proprietà dei diversi Registri Immobiliari, che rivelano l’inganno, la presenza di Mapuche che non vivevano nella zona e che invece compaiono come venditori di terre, i legami tra i notai e i potenti locali, l’omertà delle Regioni e dell’Intendenza, nonostante la legislazione dell’epoca richiedesse la loro presenza per convalidare la vendita di terre Mapuche. Tutta la documentazione c’è, ma non c’è l’intenzione, o la volontà, di volerla conoscere e, soprattutto, di renderla pubblica.

– Per quanto riguarda l’inganno, ricordo ad esempio il caso Ralco negli anni ’90, dove ci furono vari abusi per ottenere le firme, lei pensa che la logica non sia cambiata molto?

Molti storici dicono che la storia è ciclica, che si ripete e così via. Non ne sono così sicuro, ma le situazioni di certo si reiterano. Ci sono stati due modi per appropriarsi del territorio mapuche: uno, attraverso le aste, e l’altro, attraverso sotterfugi e trucchi notarili.

Nel caso delle aste, che si sono svolte nelle Juntas de Almoneda di Santiago e Valparaíso, la proprietà privata è stata stabilita nelle province di Malleco e Cautín, dove sono stati assegnati appezzamenti di 500 ettari, spesso confinanti tra loro. Questa fu l’origine del latifondismo in queste zone. A partire dal 1862, l’Esercito di Occupazione avanzò lungo la linea di confine, dal fiume Biobío al Malleco, dal Malleco al Lumaco e da lì a Traiguén, da Traiguén al fiume Cautín e da lì verso la catena montuosa, Curacautín, Lonquimay, e in 20 anni tutto il territorio fu occupato, e man mano che veniva occupato, le terre venivano gradualmente divise in appezzamenti e, di conseguenza, messe all’asta.

– Qual è stato il meccanismo di esproprio del territorio del popolo Mapuche?

La Legge di Insediamento delle comunità del 1866 stabiliva che la Commissione di Insediamento si sarebbe recata in ogni territorio per delimitare quelli di antica occupazione, avrebbe redatto una cartina e poi avrebbe assegnato un Titolo di Concessione alle famiglie del settore e, se i terreni risultavano non occupati da più di un anno – appena un anno, trattandosi di un popolo ancestrale – venivano dichiarati vacanti, eccedenti, statali, e con tali caratteristiche venivano messi all’asta. Il fatto è che le aste iniziarono nel 1868 e il processo di Riduzione iniziò nel 1884, 16 anni dopo, il che significa che quando alle famiglie Mapuche furono rilevati e attribuiti i titoli di concessione, si ritrovarono già dei vicini, coloni e privati a fianco.

Pertanto, non è l’eccedente dell’insediamento mapuche ad essere messo all’asta, ma al contrario, ciò che rimane dalle aste viene dato alle famiglie mapuche, ed è per questo che si chiamano “riserve”, perché è ciò che lo Stato riserva alle famiglie mapuche una volta consegnato il grande territorio ai coloni e ai privati. Questo è il modo in cui il territorio mapuche è stato ridotto a Malleco e Cautín, e per questo la maggior parte delle volte la rivendicazione mapuche fa riferimento alle “terre ancestrali”, prima del processo di divisione, riduzione territoriale e del processo di vendita all’asta ai coloni, che fanno parte della memoria comunitaria.

Le comunità mapuche stanno quindi ricostruendo i vecchi spazi territoriali, quelli che hanno permesso loro di sopravvivere economicamente e materialmente. Quando i Mapuche dicono “le nostre terre sono state usurpate, sono state messe all’asta, usurpate dallo Stato cileno senza il nostro consenso”, dicono la verità. Il problema è che nel corso della storia questo non è stato riconosciuto.

Dagli anni ’90 sono state istituite molteplici commissioni di studio, tavole rotonde di dialogo, la Commissione per la Verità Storica e Nuova Relazione, ecc. che si concludono tutte con una proposta e coincidono sempre nel proporre la realizzazione di un catasto delle terre non considerate nei titoli di concessione, nonostante la richiesta territoriale dei Mapuche non sia riconducibile solo alla ricostruzione dei titoli di concessione, che sono la base territoriale minima, che dovrebbe essere riconosciuta anche “d’ufficio”, ma la cosa più grave è che non si parla mai delle “terre storiche”, la richiesta delle terre ancestrali, quelle possedute prima dell’occupazione militare del Wallmapu, non è mai stata affrontata.  Tutti i trattati che il Cile ha firmato, la Convenzione 169, la Dichiarazione universale dei popoli indigeni, fanno riferimento alle terre ancestrali, “le terre, i territori e le risorse che hanno tradizionalmente posseduto”, ma lo Stato cileno non se ne assume la responsabilità.

D’altro canto, gli organi statali o le commissioni create per affrontare e risolvere il problema territoriale mapuche propongono come soluzione la ricostruzione dei titoli di concessione, benché essi siano stati una punizione, erano riduzioni, la soluzione non può essere una punizione. Allora, affinché ci sia la ricostruzione territoriale con l’inclusione delle antiche terre, deve esserci la volontà politica, che finora non c’è stata.

-Oltre alle aste, qual è stato l’altro meccanismo di perdita territoriale dei Mapuche?

A differenza delle Province di Malleco e Cautín, nell’Alto Biobío e nelle Province di Arauco, Osorno, Valdivia e Chiloé, l’usurpazione territoriale è avvenuta attraverso molteplici sotterfugi notarili, con la presenza negli atti di vendita di Mapuche che non esistevano nella zona e che hanno ceduto vaste aree territoriali, con notai che a volte fungevano da notai, a volte da testimoni per l’acquirente, e a volte acquistavano a nome del proprietario.

È il caso delle terre Pewenche nell’Alto Biobío, dove il notaio Jervasio Sanhueza, già espulso dallo studio notarile di Nacimiento per aver venduto disonestamente terre indigene, si stabilì – facendo la stessa cosa – nello studio notarile di Los Ángeles, presso il quale “legalizzò” una serie di documenti in virtù dei quali le famiglie Anguita e Brito divennero proprietarie dell’intera valle del Biobío, e le famiglie Núñez e De La Maza fecero lo stesso nella valle del Queuco. Inoltre, è emerso che De La Maza era sindaco di Nacimiento e poi di Los Ángeles, e Rafael Anguita era sindaco di Los Ángeles.

La stessa cosa è successa a Valdivia, con Clodomiro Fonseca e il modo in cui il grande territorio delle pianure di Valdivia e della zona precordigliera, Lanco, Malalhue, Panguipulli, venne assegnato a cinque o sei privati. Lo stesso accadde a San Juan de la Costa, da Osorno al mare, quando il notaio Juan Segundo Ide assegnò le terre Huilliche alla sua famiglia diretta o agli Hille, agli Schilling, agli Hott, agli Angermayer, tutti imparentati tra loro. Come denunciato nelle Memorie degli Avvocati Protettori di Indigeni del Ministerio delle Terre e Colonizzazione, non si trattava di una questione sconosciuta.

Poi, nelle vendite di terreni ad Arauco, settimana dopo settimana, in un arco di tempo di due mesi, a gruppi di 20 o 15 Mapuche sono andati da Lleu Lleu a Lebu, a 100 chilometri di distanza, non c’erano strade, non c’erano autobus, non c’era niente, per vendere le loro terre. Per quale motivo? A firmare ipoteche, per quale motivo? A cambio di cosa? In cosa venivano investiti i soldi che si dice venivano loro dati? Non c’era un mercato in cui i peñi potessero partecipare e fare affari, per esempio, e investire in beni materiali, che senso aveva se non possedevano più la terra? Niente di tutto ciò aveva importanza, perché a Lebu e Cañete c’era la figura del notaio, che era Ramón Saavedra.

Anche lo stesso Cornelio Saavedra denunciò nelle sue Memorie del 1870 che “in generale, tali contratti sono falsati; che le terre confiscate in base ad essi o non appartengono ai presunti debitori o sono terreni abbandonati. La speculazione non era male; chiunque indossasse un mantello e parlasse la lingua nativa veniva preso, gli venivano dati uno o due pesos, in modo da far sì che potesse testimoniare di fronte ad un notaio di essere proprietario di grandi appezzamenti di terra e dire di aver ricevuto qualche migliaio di pesos”. Sebbene Saavedra non affermasse trattarsi di terre mapuche bensì statali, la metodologia di usurpazione utilizzata è la stessa.

A partire dal 1910, ciò che viene dopo questo processo, fatto di aste a Malleco e Cautín e di inganni notarili in tutto il resto del territorio, è l’inizio di un nuovo ciclo di violenza, con l’espulsione delle famiglie mapuche dalle loro terre ancestrali. Poi, a partire dal 1974, sono comparse le imprese forestali, la cui proprietà ha avuto origine nel processo sopra menzionato, era dunque originariamente illegittima. Oggi, sia i privati che le imprese forestali possono dire “ho il titolo legale”; va bene, saranno anche legali, perché la carta serve anche a questo, ma sono legittimi? No, non lo sono. Vengono da un inganno che fa parte della memoria mapuche. La legalità è più una questione di potere che di giustizia, tant’è vero che: la schiavitù era legale, l’apartheid era legale, la colonizzazione era legale, l’attuale codice sull’acqua in Cile lo è, persino la stessa costituzione degli anni della dittatura, apparteneva all’insieme delle cose legali dell’epoca, ma erano giuste, legittime? No.

– A ben vedere, il concetto di “occupazione illegale” è costantemente utilizzato dai governi e dalla stampa.

È così e la considero una grande presa in giro, per usare un eufemismo, è di una sfacciataggine senza pari il fatto che si discuta al Congresso una legge di “usurpazione” e che i Mapuche che recuperano terre ancestrali vengano puniti in quanto usurpatori. Invece, è molto chiaro che l’usurpazione trae origine, neppure così lontana, dagli antenati degli attuali proprietari dei coloni, winka o privati, eppure si parla di usurpazione mapuche. Piñera ha sempre parlato di usurpazione, ma che diamine! L’usurpazione ha avuto un suo sviluppo molto chiaro e ha preso avvio nel 1860-1870, è lì che inizia, non è una novità.

Se ne discute e d’altra parte si punisce, ora con le nuove leggi, con il nuovo glossario Conadi (ente governativo sulle politiche indigene, ndr) che indica che non saranno riconosciuti i diritti territoriali per quelle comunità che occupano territorialmente un appezzamento di terra in qualità di terra ancestrale, in quanto con quell’occupazione o recupero territoriale, le stesse terre verrebbero escluse dal processo di compravendita. Nel 2020, c’erano 500 comunità che avevano soddisfatto tutti i requisiti per ricevere un ampliamento legale delle loro terre e non sono state rispettate, sono ancora in lista d’attesa, l’anno scorso è stato speso l’8% del budget del Fondo delle Terre del Conadi, non c’è la volontà politica per affrontare seriamente la richiesta territoriale Mapuche da parte dello Stato cileno, e a partire dalla Legge Indigena 19.253 del 1993, la questione territoriale è risolta a livello di mercato. Non è una risoluzione politica, non va in quella direzione. Oggi esiste anche l’ettaro/conflitto, che vale sette volte di più di un ettaro normale.

Lo trovo assolutamente spudorato e ribadisco che, finché non ci sarà la volontà politica di occuparsi di questo processo nella sua reale portata, non ci sarà alcun risultato positivo. Credo che l’unica volta in cui la situazione territoriale dei Mapuche è stata affrontata politicamente come un problema di Stato e non di mercato, risale al processo di riforma agraria. È stata l’unica volta in cui lo Stato ha detto: “Guardate, c’è un sacco di terra che è stata usurpata al popolo Mapuche, dobbiamo occuparcene, come possiamo farlo? Per ogni appezzamento di terra sono stati formati insediamenti, cooperative, centri di produzione a maggioranza mapuche, e per fare questo è stata rivista la storia della terra espropriata, è stato fornito un sostegno economico, con prestiti agevolati, delle modalità di compravendita dei prodotti realizzati da ogni insediamento, da ogni cooperativa, ed è stata migliorata la qualità della vita, alla fine aveva funzionato. Poi è sopraggiunto il colpo di Stato militare del 1973 ed è stata la fine del processo.

Quindi, quando si sostiene che la rivendicazione dei Mapuche è dovuta al fatto che lo Stato ha usurpato il loro territorio e lo ha ceduto a privati, non ha senso che lo Stato stesso venga a dire che la soluzione al problema territoriale dei Mapuche è rappresentata proprio dai titoli che lo Stato ha ceduto, attraverso i quali i Mapuche sono stati ridotti territorialmente.

– E la Conadi lo utilizza come metodo di risposta, uno dei problemi di fondo finisce per essere quello dei titoli di concessione?

Appunto, la domanda da un milione di dollari è: cosa facciamo con i Mapuche e le loro terre? E lo Stato, i diversi governi al potere e la classe imprenditoriale propongono sempre come soluzione l’elaborazione di un catasto delle terre che mancano ai titoli di concessione, alle riduzioni, che si chiamano così per un motivo, in totale saranno circa 40.000 ettari, non di più. Quello che propongo qui è una diagnosi, questo è il modo in cui la proprietà della terra è stata costruita nel territorio mapuche e questo tipo di costruzione è stata un’espropriazione, un’usurpazione, fanno parte della memoria mapuche e, fondamentalmente, costituiscono la base dell’argomentazione per i processi di recupero territoriale delle terre ancestrali.

– Come pensa che il futuro governo (Boric, ndr) possa affrontare questo tema?

Nell’accordo di Nueva Imperial, hanno promesso il riconoscimento costituzionale dei popoli indigeni, la firma della Convenzione 169 e la creazione di una legge indigena. Il riconoscimento costituzionale che ancora non esiste, il karma di Diego Portales, che il Cile è uno Stato unitario, che è composto solo da cileni, che non ci sono altri popoli. Poi è stata firmata la Convenzione 169, ma con riserve, si applica solo nella misura in cui non contrasta con la legislazione nazionale, non ha alcun peso; e la Legge indigena riconosce che le terre indigene sono solo quelle che sono state consegnate dallo Stato cileno: nessuno dei tre elementi è stato soddisfatto nella sua reale portata.

Quindi la cosa fondamentale è la volontà politica di affrontare le questioni di fondo della rivendicazione, che oggi si esprime, tra l’altro, con la militarizzazione dei territori. Per me, un elemento fondamentale per il nuovo governo è far cessare gli stati di eccezione, il processo di militarizzazione è grave e, anche se risale a molto tempo fa. L’altra cosa è affrontare il problema territoriale in tutta la sua ampiezza, che, a mio parere, inizia con il riconoscimento dell’origine della proprietà privata, tenendo conto della vera origine del cosiddetto “conflitto mapuche” e anche del fatto che i mapuche stavano bene prima che lo Stato arrivasse a prendere possesso dei loro territori, e quindi è lo Stato che ha creato il conflitto, è un conflitto tra lo Stato e il popolo mapuche, e non il contrario.

– Dovrebbe essere cruciale anche capire cosa accadrà all’industria forestale?

Naturalmente, bisognerebbe fare un’analisi critica, storica e fondata di come le imprese forestali sono arrivate nel territorio mapuche, che è qualcosa di sordido come l’appalto del litio di questi giorni, anche se ci sono coincidenze, come la presenza di Julio Ponce Lerou, in entrambi i processi. Egli, in qualità di capo della CORFO (agenzia governativa di sviluppo, ndr), è stato al vertice del processo di Controriforma Agraria: l’esproprio dei terreni è stato, infatti, revocato e in seguito questi sono stati assegnati alle imprese forestali a un prezzo irrisorio, poi è stato emanato il decreto 701, che ha sovvenzionato il 75% delle piantagioni, un affarone, e anche di questo lo Stato cileno deve assumersi la responsabilità, perché ci possono essere governi diversi, ma c’è un filo conduttore: la presenza dello Stato cileno e dei suoi “progetti paese”. dall’occupazione del Wallmapu fino ad oggi.

foto M

-Infine, ha commentato che il libro non ha avuto copertura da parte dei grandi media tradizionali cileni, perché secondo lei?

Perché ci sono interessi in gioco. I media egemoni sono parte del processo di espropriazione, El Mercurio, El Correo del Sur, El Diario Austral, sono parte dell’espropriazione attraverso l’uso mediatico del terrore, della paura, della diffusione di una certa immagine dei Mapuche. Stiamo parlando di una storia negata, resa invisibile, che non fa parte della storia cilena, che non viene insegnata a scuola, nelle università. Ci sono molte persone interessate affinché la verità storica rimanga in silenzio, perché fa parte della storia sporca del Cile, questo spiega perché non c’è alcun interessamento da parte loro, e lo capisco, non riesco a immaginare altro tipo reazione.

 

Riguardo il macchinista

Lucia Cupertino

LUCIA CUPERTINO (1986, Polignano a Mare). Scrittrice, antropologa culturale e traduttrice. Laureata in Antropologia culturale ed etnologia (Università di Bologna), ha conseguito un Master in Antropologia delle Americhe (Università Complutense di Madrid) con tesi sulla traduzione di fonti letterarie nahuatl. Vive da tempo tra America latina e Italia, con soggiorni più brevi in Australia, Germania e Spagna, legati a progetti di ricerca, educativi e di agroecologia. Scrive in italiano e spagnolo e ha pubblicato: Mar di Tasman (Isola, Bologna, 2014); Non ha tetto la mia casa - No tiene techo mi casa (Casa de poesía, San José, 2016, in italiano e spagnolo, Premio comunitarismo di Versante Ripido); il libro-origami Cinco poemas de Lucia Cupertino (Los ablucionistas, Città del Messico, 2017). Suoi lavori poetici e di narrativa sono apparsi in riviste e antologie italiane e internazionali. Parte della sua opera è stata tradotta in inglese, cinese, spagnolo, bengali e albanese. È curatrice di 43 poeti per Ayotzinapa. Voci per il Messico e i suoi desaparecidos (Arcoiris, Salerno, 2016, menzione critica nel Premio di traduzione letteraria Lilec – Università di Bologna); Muovimenti. Segnali da un mondo viandante (Terre d’Ulivi, Lecce, 2016) e Canodromo di Bárbara Belloc (Fili d’Aquilone, Roma, 2018). Membro della giuria del Premio Trilce 2018, Sydney, in collaborazione con l’Instituto Cervantes. Cofondatrice della web di scritture dal mondo www.lamacchinasognante.com, con la quale promuove iniziative letterarie e culturali in Italia e all’estero.

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