In questa raccolta poetica, che rappresenta il debutto editoriale di Valentina Falsetta e nei testi inediti scritti successivamente, si possono cogliere le deflagrazioni caratteristiche del passaggio tra l’adolescenza e l’età adulta, con il loro portato di memorie, rimpianti, gioie e sofferenze acutissime. I testi proposti, se facessero parte di una narrazione, potrebbero appartenere al genere dei “romanzi di formazione”, per la ricerca da parte della poeta, attraverso le proprie esperienze, di tracciare un proprio percorso, lontano da quello imposto o suggerito per lei dagli altri (gli adulti, gli amori, gli amici) e dalle convenzioni sociali. Il linguaggio utilizzato è preciso ed evidenzia una ricerca meticolosa del sostantivo o dell’aggettivo adatto, un percorso di ricerca in corso più maturo di quello che ci si potrebbe comunemente aspettare dall’età anagrafica dell’autrice.
Emerge dai versi la combattuta e faticosa costruzione della propria indipendenza emotiva, la scoperta del proprio valore intrinseco, liberandosi dal bisogno di accettazione o gratificazioni, tipiche di una società nella quale l’impronta patriarcale stenta ad essere intaccata. Un processo di svelamento di se stessa che vuole sfuggire dalla dicotomia dei ruoli imposti all’universo femminile: quello di “sesso debole”, bisognoso di protezione e tutela, oppure, all’apposto, di strega da tenere ai margini quando rivendica a tutto tondo la propria indipendenza.
Per la nostra poeta: “è atto politico comprendere l’inesistenza di ogni limite: si può essere donna, forte e debole, potente e vulnerabile, poetica e politicamente scomoda, giurista da manuale ed emotiva senza timore. Così, fra i distratti, avanza un’osservatrice aggravata”.
Minuzie
Date retta a me
fate le vostre cose
cercatevi un angolo di prato
un’ora tranquilla
un pasto che non sia troppo
severo
argomentazioni intense
due o tre minuti
di sorrisi con amici cari.
Non deve passare mese privo
d’una grossa risata.
Fate l’amore, se potete
se volete
trovate un fiore
una rosa senza fine,
apprezzatene pure le spine.
***
Costruire un fortino
Tutta la vita a dirti che sei cattiva,
stronza se ignori
devi essere
più comprensiva,
perdonare da brava
e non dimenticare di lasciare uno spiraglio
non sia mai che qualcuno
voglia tornare.
Mettiti a disposizione
le tue doti devono aiutare gli altri,
manda auguri di facciata
solerte replica a chi ti ama
nei giorni dispari.
Ho sbattuto porte con vigore,
sprangato finestre,
negato aiuto a chi non conosce
gratitudine,
messo fine all’illuminazione
gratuita.
Dalla Fotogallery: Film a fiori o ricordi con le camelie (prima immagine) – Carmine Lo Regio
TESTI INEDITI (estate 2022):
Dormono il cane intristito
e il gatto indisposto
dalla pedissequa igiene imposta.
Ricerco la mente attenta fra l’erba
credo nel tavor del polline
per aria vivo,
sono tuttalpiù inerme e in attesa
di chi mi accenda la parola
come alle auto parcheggiate nel piazzale.
Sto nell’attesa di giugno come
un tempo vivo fintamente:
che sia forse la realtà parallela
questa
e la vita altrove, mai
mai qui dentro la rosa gialla
o nel dialetto urlato agli animali
esiste tutto e non esiste
il nulla. Se taglio un dito
appaio reale come la rianimazione
nei lerci ospedali a sud dello stivale.
***
Venerdì venne a piovere
salimmo
dal penalista al crepuscolo.
La transumanza continuava
dagli anni neri sconosciuti
ai miei amici presenti,
montavamo con perizia d’intento
aste e riparavamo tetti bucati.
Il nero dell’umidità non transumava.
Rimaneva a ricordarci che eravamo
noi
sempre noi
gli uomini nuovi che s’erano fatti
soli. E dallo zero dovevamo
sempre tornare,
tornare.
***
Cosa rimarrà dei nostri giochi
della villa o di una stabilità
presi a mutuo?
Cantilenavo dalla stanza in appartamento,
l’eco nel corridoio che correva fino
al ferro battuto della testata
-ti voglio bene
quanto il mare, quanto il cielo-
a sei anni c’era la possibilità
di esistere per estensione dei vostri corpi
per conseguenza della peculiarità
di liti e storie familiari,
nel ponte fra la mia adolescenza
e la casa adulta
mi chiedo se non stia correndo
verso le nostre deflagrazioni
o forse rimanendo
negli imperfetti splendori
per lasciare modi alle analisi dei nostri
ciclopici disturbi.
***
Se avvicini la tagliola
passo passo come la più bella
delle volpi regina d’astuzia
mi distacco e a ritroso
me ne ritorno fra il fogliame.
Ma se al contrario venissi
all’uscita della tana
eccomi come Alice, bambina
potrei ancora avere fede
sostenere con fare convinto del capo
che una pura volontà nell’avvicinarsi
esista, compatta e speranzosa.
I burberi per diffidenza sono disattenti,
te lo dico, a gesta di tipici racconti:
con la dolcezza che stilla
goccia a goccia,
solo lì tornano all’umana
tenerezza che nel primordiale abbondava.
***
Eri la lampada rossa presa dall’etnico
accesa, sempre accesa a tarda notte
e quando ho spento dal pulsante
dimenticato
la casa è divenuta
la desolata alla fine del quartiere.
Non importava che fosse luce cattiva.
Non importava fosse l’amplificatore
di queste disfunzioni da guarire.
Era festante, come ceramica giapponese
che s’infrange
e sussurri e imprechi
tanto era bella e rara
e preghi e ringrazi
tanto era dolorosa la venerazione.
Ma pure le luci cattive mancano
quando scende l’ombra della sera,
quando l’estate non s’infrange
sulle caviglie.
***
Guarderò il collo solcato
con accettazione o disgusto?
Pizzicherò gli zigomi,
innalzerò il contorno occhi con le dita?
Mi guarderò in video di anni passati,
avrò forse nello sguardo compassione
tenerezza o giudizio mesto?
Accendo il lume a Buddha riardo
l’incenso al sandalo,
provata la vita vorrei un giorno
solo un giorno o anche un minuto donato
in cui tutto fosse chiaro e sciolti
i malesseri della noia
gli amori
forse utili sempre,
almeno più dei pomeriggi pini
marittimi.
Alle cinque del mattino mi sveglia
un blocco delle gambe e l’afa aderisce;
sono io il sottovuoto, la lastra di marmo,
la sibilla di addii irreversibili.
Di nuovo
accendo ceri, fumigazioni
smetterò di cercare nei grimori
– lasciati in pace, per carità –
invece riprendo il filo, lo arrotolo
apro il cranio,
rimescolo.
***
Il nostro clima cambiato, tropicale
dice il signore in bermuda gialli
l’apocalisse sarà così
dice l’undicenne esaltato
guarda lì l’incendio esteso
e le fiamme alte sangue cattivo irrorato
nei polmoni
brucia e decade, paralisi
di tubi e carreggiate
gigli sulle dune, cactus desertici
nulla più fiorisce, né sboccia dal bulbo
chiuso:
forse domani a sinistra
l’albeggiata rivolta.
Nulla più fiorisce, solo tu
tieni la vita
mantieni i crolli,
mi giri i giorni.
***
Tuona, e si chiude il cielo.
È pioggia a fine controra
nell’attesa dell’arancio e della porpora
ed è la sola, lei
che si lascia andare al piacere
al flusso naturale, inevitabile.
S’ingravidano le chiome sotto il peso
dell’acqua
si riempiono i focolari dimenticati concavi
s’aprono le persiane i doppi vetri
di tutti i piani, spalancato
pure l’ingresso.
Con acrimonia io guardo
e ad ogni piovasco
vestita di stupore, la naturale
predisposizione all’apertura
al ricevere nutrimento
come campo incolto ed erba
alta mossa dall’aria che sibila
al suo aratore
vieni, inarcati, insinuati e segui
la piega. Così, vorrei.
Invece non m’apro, né invoco né sussurro.
Qui c’è una misera
matrona una e trina nell’alibi
che tiene
alla porta un uomo di cobalto.
***
Almeno una volta vorrei essere acqua.
Un’acqua calcarea e cattiva che corrode
dall’interno e scava nei polsi,
che non mi possano bere le mucche
né i polli né il tuo bambino
né possa starti nella bocca
fra i denti e sul palato.
Almeno una volta, una,
vorrei essere inconsumata.
Note biografica
Valentina Falsetta è nata a Catanzaro nel 1999. Studia giurisprudenza, dal 2014 gestisce il suo blog personale e collabora con alcuni quotidiani regionali. Osservatrice aggravata è la sua prima pubblicazione.