CACHAPAS Y CHIRIPAS. Due racconti di Lucia Cupertino

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CACHAPAS Y CHIRIPAS

di Lucia Cupertino

 

1

– Una cachapa e un succo d’ananas, grazie.

Guadagno l’angolino più tranquillo del bar en plein air, si affaccia su un appezzamento di terra abbandonato con qualche sparuta erbaccia, mentre dall’altra parte sfrecciano auto sgangherate. Prendo posto su di una sedia traballante. Resto assorta, facendo due conti. Intanto il formaggio fresco della cachapa sulla piastra comincia a sudare e la signorina la rigira una seconda volta.

Non dovrei trattenermi tanto per strada con tutti i soldi che ho addosso. Anche se sono l’equivalente di soli cinquanta dollari, anche se è ancora giorno, anche se ho cambiato i soldi da una amica del mio amico, anche se tutto si è svolto con la massima discrezione, anche così non dovrei. Perché ho lo zaino zeppo di bolívares. Se mi fossi portata qualche magliettina in più per il viaggio, non avrei saputo dove mettere tutte quelle banconote. Sono mazzetti di cinquemila bolívares da cento bolívares.

Mi distendo un po’. In fin dei conti non si può essere ogni momento ostaggio di tante paure, sono a meno di 400 metri dalla casa del mio amico e c’è ancora un bel sole a stamparsi sulla mia fronte. La cachapa è deliziosa, avvelenata da troppo zucchero bianco ma pur sempre deliziosa. Anche il succo non scherza, la signorina ha frullato un ananas lievemente più rotondetto e piccolo di quelli che arrivano sugli scaffali dei supermercati europei ma decisamente più zuccherino e tentatore.

Penso ai piani di cui si era parlato tutto il giorno. Sono ad un’ora e mezza in bus da spiagge da far strabuzzare gli occhi e il cuore, un paradiso decaduto su cui si aggirano gli avvoltoi dell’oro nero. Tocca vivere nell’epoca del nonostante tutto e allora, nonostante tutto, già mi vedo sguazzare contenta col costume turchese e la maschera, lontana da questa fornace urbana.

Dalla tasca tiro fuori uno di quei paccotti che ho spostato dallo zaino. Pagare è un’operazione colossalmente lenta: devo contare quindici biglietti con facce della storia patria locale, ricontarli per verificare che l’importo sia corretto, poi tocca alla signorina ripetere le mie stesse operazioni.

Mi rendo conto che sta calando l’oscurità. A rammentarmelo è proprio la signorina che prende ad indicarmi l’angolo in cui suo fratello è stato assalito qualche giorno prima da una moto, un tipo l’ha minacciato con un coltello estorcendogli tutto quello che aveva in tasca e il pacchetto che aveva tra le mani, dentro e con tanto di fiocco rosso c’erano delle cuffie, il regalo per il compleanno della signorina. Potrei mentire a me stessa ma a quale pro? Sono daccapo ostaggio della paura. Per di più, proprio mentre sto svoltando l’angolo i lampioni della strada si spengono tutti nello stesso istante.

Avevo dimenticato che oggi è lunedì e il taglio della corrente nel quartiere era fissato dalle sette alle dieci di sera. Qualche lampo rischiara il cielo, sta anche cominciando a piovere. Sin da quando sono bambina la pioggia instilla quiete nel mio spirito. Mi giunge all’orecchio un blues suonato da un pianista in uno di questi alti edifici condominiali, entra in sintonia con il ritmo battente della pioggia. Mi lascio alle spalle il saluto del signore che ha un posticino ambulante di chicha di riso e adesso sta guardando dalla finestra assieme alla moglie. Sono già nella strada in cui vive il mio amico con il mio zaino ancora colmo di bolívares e adesso anche mezzo inzuppato. Tutto torna ad essere tranquillo.

Neanche a dirlo, sento degli spari. E anche una serie crescente di fischi propagarsi per tutto il vicinato. Sobbalzo, non so se correre o fermare qualcuna delle persone che vedo scendere in strada e correre. Cosa saranno mai stati quegli spari? E quei fischi? Perché tutti corrono? Arrivano dei ragazzi con delle mazze rudimentali, le grida si moltiplicano, altra gente continua a correre finché un tipo con una violenta spallata mi fa cadere dal marciapiede. Riversa sull’asfalto assieme ai miei paccotti di bolívares che cominciano a sparpagliarsi a destra e a manca, ho le ginocchia sbucciate e un bernoccolo che lievita. I fari di una macchina mi illuminano la nuca, allora con tutte le forze che ho in corpo mi sollevo e cerco di raccattare i mazzetti che posso. Prendo a correre e m’infilo nel portone.

Dalla finestra del settimo piano una brezza ristora i miei nervi. Ascolto qualche arpeggio blues e il dispiegarsi del suono delle sirene. Mi affaccio. Vedo gente pestare un uomo e gridare: al ladro, al ladro! Il mio amico mi spiega che nel quartiere ci si è organizzati e quando qualcuno avvista un ladro dà l’allarme con dei fischietti o con colpi di pistola, poi tutti corrono incontro al ladro e lo linciano facendosi giustizia da soli prima che arrivi la polizia, sempre che arrivi. Si racconta perfino di ladri bruciati vivi per strada come nei roghi della caccia alle streghe, rigorosamente con benzina perché quella è maledettamente economica, anche quando tutti i prezzi, e specialmente dei beni alimentari, sono alle stelle.

2

La nonna accende la luce in cucina.

Le chiripas, come si chiamano qui le blatte, hanno invaso i fornelli, il ripiano e il lavandino. Sembrano ballare una danza e, da buoni insetti futuristi, farlo a oltranza e a folle velocità. Tutto il cibo è stipato nel frigo, anche riso, pasta e farina di mais. Due filoncini di pane sono in salvo all’interno del microonde.

Picciridda mia, aquí está pieno de chiripas, picciridda ven, dammi na mano! grida isterica la nonna mettendosi le mani fra i capelli, tanto che un bigodino le salta dalla testa e finisce nella pentola con l’acqua messa a bollire per poterla rendere potabile. Prova schifo, strabuzza gli occhi.

– Coño de la madre, nuddu che me ayuda, acá una mierda de cristiano che te ayudara mancu pagato!

Ma nessuno risponde. Nuddu davvero. Il silenzio è quasi spettrale anche fuori da quelle quattro pareti, se si esclude la fastidiosa hit musicale del baretto all’angolo, frequentato da quattro vecchi decrepiti.

La nonna è nata in un piccolo paesino a pochi chilometri dai templi di Agrigento. I suoi genitori gestivano un’osteria, che prima della lunga guerra aveva permesso alla famiglia di vivere in una casa non grande ma perlomeno decente. Non c’era festa che non si celebrasse da Vincenzu. Poi arrivarono gli anni duri, a pane nero, razionamenti e digiuni, gli anni della morte del giovane zio combattente, dei campi abbandonati e dei bombardamenti a colazione. Vincenzu non poteva reperire né vino né avventori. Trovò una soluzione parziale al primo problema cominciando a farsi da sé un vinello della casa, allungato con non so cosa. Più complicato risolvere il secondo. Anche a guerra finita di soldi ne giravano pochi e qualche vino annacquato in meno aiutava a rimettere in sesto l’economia domestica.

La nonna prende una cucchiara di legno e cerca di salvare il difficilmente salvabile, in effetti mentre recupera il bigodino, un altro le casca dalla testa e finisce daccapo nella pentola. Allora, dopo aver maledetto una buona dozzina di santi, spegne la luce e si dirige in salotto. Lì comincia a srotolare uno a uno i bigodini.

E srotola anche dei ricordi quando il suo sguardo cade sul complesso di Casa Italia che svetta tra gli altri edifici. Quante partite a briscola e tressette avrà giocato suo marito lì? E quante volte avrà maledetto un’altra dozzina di santi quando lui rientrava troppo tardi e mezzo ubriaco? Non saprebbe dirlo. Ma tutto sommato erano anni buoni, suo marito era un buon marito, non le faceva mancare nulla, solo aveva qualche vizietto, continua a ripetersi. Quando erano fidanzati tutti questi difetti non si vedevano, altrimenti lei non avrebbe deciso di prendere con lui due biglietti di sola andata per il Venezuela.

Era una mattina uggiosa del novembre 1953 e, dopo la già lunga odissea per raggiungere Napoli dalla Sicilia, si ritrovavano al molo del porto osservando la Franca C, la nave da crociera che li avrebbe fatti sbarcare dopo due settimane nel porto di Guaira, non lontano da Caracas.

In quegli anni per molti italiani il boom economico era ancora un miraggio, nell’attesa meglio cercare fortuna nelle Americhe, magari nel Paese che Amerigo Vespucci, osservando alcune palafitte indigene sul lago di Maracaibo, aveva battezzato la piccola Venezia o Venezuela.

Quanti baci aveva dato la nonna alla foto del presidente Marcos Pérez Jiménez! Aveva promosso un piano di immigrazione europea in Venezuela a cui avevano risposto in ordine di peso demografico italiani, portoghesi e spagnoli e qualche gruppo di romeni e greci. L’adattamento non fu duro, ma neanche così immediato; nei momenti più complicati la nonna amava farsi una risata ricordando la pasta con ragù che le avevano offerto nella traversata transatlantica col Franca C, l’acquolina in bocca e gli occhi lucidi che aveva. Questo per lei valeva il sogno di una nuova vita.

C’è poca roba interessante per la nonna in tv, il suo zapping è infruttuoso. A lei piacciono i programmi sui tribunali e le dispute familiari, mentre quel che trova è solo una sfilza di partite di calcio e serie per adolescenti. Spegne la televisione. Il rumore delle sue pantofole, assieme al ticchettio dell’orologio, l’accompagnano a letto. Anche il baretto è ormai chiuso, a giudicare dall’assenza della melodia fastidiosa.

Ma la nonna non riesce a prender sonno: è ostaggio dei ricordi. Dei floridi pranzettini della domenica ad esempio, del gelato assieme agli amici del marito che era diventato impiegato in una ditta di meccanica italovenezuelana, delle escursioni al lago, dei ritorni in Italia per salutare la famigghia, della prima bicicletta di suo figlio Giacomo, dell’automobile nuova fiammante. È ostaggio di tutta quell’abbondanza che oggi sente da più parti traballare.

Ma adesso è sola la nonna nella sua stanza, nella casa, fino alla morte. Anche la picciridda sua di 55 anni, che aveva giurato d’accompagnarla negli anni del declino, anche lei l’ha abbandonata. È andata via con una valigia, forse a Panama o in uno qualsiasi dei Paesi in cui potrà cominciare una nuova vita. La destinazione finale la sceglierà l’economia.

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Foto in evidenza di Adrián Pablo Alvarez

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Riguardo il macchinista

Lucia Cupertino

LUCIA CUPERTINO (1986, Polignano a Mare). Scrittrice, antropologa culturale e traduttrice. Laureata in Antropologia culturale ed etnologia (Università di Bologna), ha conseguito un Master in Antropologia delle Americhe (Università Complutense di Madrid) con tesi sulla traduzione di fonti letterarie nahuatl. Vive da tempo tra America latina e Italia, con soggiorni più brevi in Australia, Germania e Spagna, legati a progetti di ricerca, educativi e di agroecologia. Scrive in italiano e spagnolo e ha pubblicato: Mar di Tasman (Isola, Bologna, 2014); Non ha tetto la mia casa - No tiene techo mi casa (Casa de poesía, San José, 2016, in italiano e spagnolo, Premio comunitarismo di Versante Ripido); il libro-origami Cinco poemas de Lucia Cupertino (Los ablucionistas, Città del Messico, 2017). Suoi lavori poetici e di narrativa sono apparsi in riviste e antologie italiane e internazionali. Parte della sua opera è stata tradotta in inglese, cinese, spagnolo, bengali e albanese. È curatrice di 43 poeti per Ayotzinapa. Voci per il Messico e i suoi desaparecidos (Arcoiris, Salerno, 2016, menzione critica nel Premio di traduzione letteraria Lilec – Università di Bologna); Muovimenti. Segnali da un mondo viandante (Terre d’Ulivi, Lecce, 2016) e Canodromo di Bárbara Belloc (Fili d’Aquilone, Roma, 2018). Membro della giuria del Premio Trilce 2018, Sydney, in collaborazione con l’Instituto Cervantes. Cofondatrice della web di scritture dal mondo www.lamacchinasognante.com, con la quale promuove iniziative letterarie e culturali in Italia e all’estero.

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