Intervista a Franco Fortini (trascrizione intervista RAI 8 maggio 1993)

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Professor Fortini, proviamo ad iniziare in modo diretto, immediato, con la domanda essenziale: che cos’è la poesia

Rispondere è come se si volesse rispondere a “che cos’è l’uomo” o a “che cos’è il mondo”. Bisogna aggirare la difficoltà. Ammettendo che si sappia che cos’è il linguaggio articolato di cui ci serviamo e quali sono i diversi aspetti, le diverse funzioni che coesistono in ogni atto del linguaggio, si può dire che nel linguaggio umano c’è una funzione che tende a mettere in evidenza soprattutto, o almeno in modo particolare, il linguaggio stesso, ad attirare l’attenzione sulla forma della comunicazione. Ebbene questa è la funzione poetica.
Certo bisogna tener presente che quando si parla di poesia questa parola significa due cose: da un lato, appunto, un tipo particolare di discorso parlato o scritto che si distingue da altri modi di comunicazione; dall’altro, invece, un’attribuzione di valore per cui si dice “poesia” per dire qualcosa di bello, di importante, di riuscito, di meritevole di stima o di attenzione.
Nel parlare comune, “poesia” significa due cose: per un verso è un discorso, o ragionamento, o una comunicazione dove prevalgono elementi di ritmo e cadenze, di ripetizioni, di immagini che alterano i significati immediati e che gli conferiscono, oltre ai primi, anche significati interiori. Per un altro verso, quando noi diciamo “questa è poesia” intendiamo in genere qualcosa di elevato e di nobile, di rassicurante o di commovente o di rasserenante, di vivace, pungente ecc.
Facciamo un esempio. Se io dico: “Madre dei santi, immagine della città superna, del sangue incorruttibile conservatrice eterna” ecc. – con quello che segue nella Pentecoste del Manzoni – posso dare importanza al ritmo, ai gruppi di sillabe, al sistema di accenti e di rime e naturalmente posso anche sapere, oppure qualcuno ce lo spiega, che in questo caso l’appello è diretto alla chiesa cattolica. Invece se io dico: “Trenta dì conta novembre con april, giugno e settembre, di ventotto ce ne è uno, tutti gli altri ne han trentuno”, anche qui trovo ritmo – infatti sono quattro ottonari – e trovo delle rime.
Insomma, se devo chiedermi come classificare l’inizio di una delle più famose composizioni letterarie della lingua italiana, oppure di un soccorso mnemonico come quello che ci vuole informare di quali siano i mesi che hanno trenta o trentuno giorni non c’è dubbio che l’uno e l’altro devono essere considerati in questo senso: poesie o testi poetici. Si potrebbe obiettare che nell’un caso ci sono delle parole desuete, arcaiche, solenni, nell’altro caso no. Ma non è del tutto vero perché, per esempio, nel testo manzoniano ci sono delle parole come “superna” oppure delle inversioni – si dice: “del sangue conservatrice” invece che “conservatrice del sangue”- ma anche nel proverbio rimato troviamo per esempio delle parole in disuso come “dì”, oppure delle abbreviazioni o troncature come “april” invece di “aprile”.
Ecco, è a questo punto che viene avanti il secondo significato correntemente attribuito alla parola “poesia”. Nel primo caso c’è un oggetto sublime; si tratta niente di meno che della discesa dello Spirito Santo e poi soprattutto non ha nessun senso isolare questi primi versi che ho letto da quelli che seguono; mentre nella seconda è una canzoncina puerile con dei fini di sostegno alla memoria. Ora qui dobbiamo decidere: ci occupiamo della poesia come oggetto di bellezza, di commozione o di espressione o ci occupiamo piuttosto della poesia come oggetto verbale, ossia come un tipo particolare di comunicazione, sospendendo per il momento ogni giudizio di valore ?

Allora approfondiamo questo aspetto della poesia proprio come “oggetto” verbale. Che cosa è che chiamiamo una “poesia”?

Certamente oggi – non due o tremila anni fa quando, probabilmente, la questione sarebbe stata diversa – quando noi diciamo “una poesia” intendiamo una composizione, un testo non lungo dove sia possibile identificare un certo sistema che è indicato graficamente dagli “a capo” e poi anche da un congegno di pause maggiori, quelle che separano una unità ritmica da un’altra. Ebbene, queste possono corrispondere o non corrispondere alle intonazioni cosiddette naturali e in questo caso comunque le chiamamo “verso”.
 Ora, se io parlando o scrivendo faccio tornare ad intervalli uguali certi accenti e certi accenti tonici, si forma, come si suol dire, un’attesa tecnica. Prendiamo la comunicazione normale: “se mi dai quella mezza matita che è posata vicino al tuo libro, ti sarò molto grato, mio caro, e al più presto te la renderò”. Questo enunciato è un gruppo di quattro decasillabi e chi ascolta o legge si aspetta che il discorso continui ripetendo lo stesso schema ritmico. Molto spesso dei prosatori fanno uso di questi schemi ritmici con effetti vari.
Nel Cinquecento un retore veronese o padovano, Sperone Speroni, iniziava così una sua orazione: “Noi Padovani generalmente siamo allegrissimi non solamente per l’onor nostro particolare e per la pubblica utilità, onde noi siamo non poca parte, ma per l’onore di tutto il popolo”: era una serie di quinari con i quali egli credeva di dare sostenutezza al suo discorso. In epoca contemporanea è possibile vedere come certi scrittori, per esempio il bravissimo Silvio D’Arzi, abbia costruito un suo racconto in novenari abbastanza nascosti per cui il lettore non se ne accorge ma, insensibilmente, gli viene suggerito un ritmo. Questo è un procedimento che naturalmente i grandi prosatori hanno in qualche modo sempre seguito, e che spiega perché si sia potuto parlare di un “ron ron” per esempio per la prosa di Flaubert. Ognuno avverte che ci sono degli elementi di scansione anche nelle scritture in prosa.
Ora, se a questo punto alle ricorrenze degli accenti si aggiungono le ricorrenze sonore, certi nessi vocalici o consonantici che vengono chiamati nel linguaggio della retorica le allitterazioni, le omofonie, o le rime, l’attesa dell’ascoltatore e del lettore si farà sempre più forte, sia che essa sia adempiuta, sia che essa resti delusa. Prendiamo un esempio del Metastasio: “Se a ciascun l’interno affanno si vedesse in fronte scritto, quanto quei che invidia fanno ci farebbero pietà”. Sono quattro gruppi di otto sillabe legate anche da rime, ma se io invece di “pietà” scrivessi “commozione” che cosa verrebbe? Verrebbe: “se a ciascun l’interno affanno si vedesse in fronte scritto, quanto quei che invidia fanno ci farebbero commozione”: a questo punto avremmo una delusione nella nostra attesa. Però, attenzione: le cose possono diventare più complesse e due delusioni messe ad adeguata distanza e rimate tra loro non ci deludono più. Per esempio in questi versi sempre del Metastasio: “Sogna il guerrier le schiere/ le selve il cacciator/ e sogna il pescator/ le reti e l’amo./ Sopito in dolce oblio/ sogno pur io così/ colei che tutto il dì/ sospiro e chiamo”.

 Oggi è quasi naturale identificare la poesia con la poesia lirica, intendendo una espressione di sentimenti soggettivi, mentre noi sappiamo che la poesia come momento del linguaggio e dell’esperienza può trovarsi naturalmente nell’epica come nella drammatica, nella narrativa e persino anche negli scritti critici, nei diari, negli scritti epistolari, memorialistici. E’ così professor Fortini?

Certamente, è così. Però si tratta di sapere se la comunicazione è orientata all’informazione, alla narrazione, alla recitazione: se il soggetto che parla si ritira o no sul fondo; allora, in questo caso, potremmo parlare di “racconto”, di “favola”, di “leggenda”, di “scena teatrale”, di “monologo”. Facciamo un esempio. Se io dico: “Fuggii da casa col circo/ perché mi ero innamorato di madamoiselle Estralada/ la domatrice dei leoni” oppure “Il maestro ci aveva fatto ad alta voce, e come allora usava, la lettura: ‘Immagina un bambino che va solo in America, solo a trovare sua madre’”- e se io non so di dove vengano quelle parole e chi le sta pronunciando posso pensare che si tratti di due passi di conversazione di un uso televisivo, oppure di un appunto di diario. Se invece io so che le prime parole che ho ricordato sono l’inizio di una delle più di duecentotrenta immaginarie lapidi funerarie in un immaginario cimitero americano, quello di Spoon River, pubblicate nel 1915 dal poeta americano Edgar Lee Masters e che quelle parole si suppongono pronunciate da un defunto, ecco che allora gli elementi fonici e ritmici, le figure di discorso, la ripetizione, che erano servite per definire come poesia i versi della Pentecoste manzoniana o quelle del proverbio sui mesi, perdono una parte della loro importanza e sono altri elementi invece esterni al testo in quanto tale a intervenire. Per esempio il pathos che è connesso con la voce di un morto fra i tanti di un villaggio, quindi col mito e col brivido del morto vivente: siamo quindi al confine fra la lirica e il monologo.
L’altro esempio fatto viene da una poesia di Umberto Saba. È necessario mettere in evidenza che quelle righe che ci sembravano prosa: “il maestro ci aveva fatto ad alta voce, come allora usava, la lettura: ‘immagina un bambino che va solo in America a trovare sua madre’” invece sono organizzati in tradizionali endecasillabi, di cui è fatta la stragrande maggioranza della poesia italiana lungo otto secoli, e che quindi è come se, per dir così, ci venisse consigliato non di leggere “immagina un bambino che va solo in America” quale sarebbe l’intonazione colloquiale, bensì “Immagina – pausa forte, a capo – un bambino che va solo in America”.
Insomma noi oggi abbiamo la tendenza a sopravvalutare come poesia l’espressione dei sentimenti soggettivi, invece anche quella poesia moderna, come è il caso della poesia di Saba, che sembra essere un moto immediato dell’animo, è una intenzionale e organizzata finzione.

 Allora la definizione di “lirica” come “poesia dell’espressione soggettiva” non è più vera?

Certo che è vera. Però bisogna ricordarsi che, oggi, la poesia è capace di liricizzare, per così dire, il materiale meno soggettivo, meno emotivo. Ci sono degli autori delle avanguardie letterarie, soprattutto del periodo surrealista, che inserivano nei loro libri di versi interi passi di testi pubblicitari o frammenti degli orari ferroviari o passi dell’elenco del telefono, così come c’erano degli artisti che esponevano una ruota di bicicletta o una sedia contando sull’effetto di “spaesamento”.
Ora lo spaesamento effettivamente fa di un testo un altro testo, spesso può essere anche solo la sede editoriale quella che assegna a un determinato messaggio un uso non pratico. Quando pensiamo per esempio a certe celebri poesie di Ungaretti molto brevi, dobbiamo renderci conto che non si tratta soltanto di mettere in evidenza la loro ritmicità che suggerisce una lettura solenne e attonita, da oracolo o da voce sovraumana: questa non viene solo dalle indicazioni per la scansione che sono date dagli a capo, dall’isolamento delle parole, ma anche da tutto il più vasto bianco della pagina e, per dirla tutta, anche dalla collocazione in una serie che ci permette di indentificare questa come poesia. Come se si accendesse un segnale preventivo, una luce rossa che annuncia “qui poesia” e noi siamo quindi disposti a non trovare in questo testo un’informazione ferroviaria ma a interpretare quest’ultima come un nesso fonico o simbolico, cioè una poesia.

A questo punto, ha ancora senso distinguere tra poesia lirica e poesia non-lirica?

Certo, il nostro secolo ha una sorta di “imperialismo” della lirica per cui, tra l’altro, Benedetto Croce aveva sostenuto che ogni poesia è poesia lirica. Ma da qualche decennio c’è un rigetto di questa nozione di lirica, in quanto si parla di poesia come di testi autosufficienti e intimamente coerenti all’interno dei quali prevale la funzione poetica.
Io vorrei prendere l’esempio di una brevissima poesia di Brecht che ha anch’essa un’epigrafe. “Qui giace/ Karl Liebknecht/ che combatté contro la guerra. Quando fu assassinato/ la nostra città c’era ancora”. Si noti che di fronte a un testo come questo viene a mancare quasi del tutto l’idea corrente che la poesia sia intraducibile perché il baricentro, il peso di questi versi non è interno ai versi stessi, è esterno: consiste nel sapere dei destinatari, dei lettori. Per esempio se i lettori non sanno che questo Liebknecht è un rivoluzionario socialista tedesco che è stato ucciso da militari della destra nazionalista tedesca alla fine del 1918, insieme a Rosa Luxemburg; e se non sanno che “la nostra città” di cui si parla è Berlino e che la distruzione di questa città nella seconda guerra mondiale è avvenuta ventisette anni dopo la morte di Liebknecht, questa poesia ci diventa incomprensibile. Tutte le nozioni storiche, morali e politiche che premono intorno a quelle quindici parole – “Qui giace Karl Liebknecht che combatté contro la Guerra, quando fu assassinato la nostra città c’era ancora” – premono intorno a queste parole non diversamente da quanto faccia per esempio la teologia intorno alla poesia cristiana o la mitologia classica per poter capire il canto di Ulisse di Dante. La “guerra” che ha distrutto la “nostra città” di cui si parla nella poesia non è quella contro cui si batté Liebknecht però il suo assassinio è stato un passo verso quella distruzione; ma questa non sarebbe ancora una poesia, la si avverte, anzi essa diventa una poesia, se si capisce che il rapporto di causa e di effetto per la morte del dirigente rivoluzionario e pacifista e la distruzione di un’intera capitale crea un personaggio, non quello dell’assassinato, il personaggio di colui che parla. Quest’ultimo passa da un pensiero all’altro, “qui giace Liebkneicht che combatté contro la guerra – pausa – quando fu assassinato la nostra città c’era ancora”: c’è lo stupore e la tristezza di questa scoperta e di questa connessione tra epoche diverse. Chi parla non è l’autore Brecht, è un suo personaggio, il visitatore della tomba, il berlinese che fra sé e sé ripercorre sinteticamente un cinquantennio di storia. È questa la forza poetica dell’epigrafe. Naturalmente poi non conta molto che la città sia stata ricostruita, anche Troia fu ricostruita: dalla distruzione di Troia a quella di Berlino l’umanità ormai in proposito ha una lunga esperienza.

Ma allora a chi si rivolge la poesia?

Ecco, qui bisognerebbe ricordare una cosa che è stata detta da un famoso critico canadese in modo paradossale ma anche in modo molto serio, che definiva la poesia lirica come quel genere di poesia nella quale l’autore “finge” l’assenza di pubblico, finge di parlare o di scrivere per se o tutt’al più per un “tu” o per un “voi”, come destinatari immaginari o reali, come destinatari di una epistola, come ascoltatori di una orazione. Insomma non c’è poesia lirica che non implichi la costituzione di una persona almeno a cominciare da quella che parla. Ora questa persona però non è intesa nel senso anagrafico; è colui che lo scrittore o il parlante finge sia l’autore. Insomma bisogna cercare di evitare l’inganno della identificazione che è così corrente scolasticamente. Quante volte noi diciamo: “allora Dante dice a Virgilio”. No, Dante non dice nulla a Virgilio. Dante dice che un personaggio che egli chiama “Dante” si rivolge a un personaggio che egli dice “Virgilio”. Quando noi diciamo: “Petrarca dice che…” o “Leopardi lamenta che…”, bisognerebbe dire: “Il personaggio che il poeta Petrarca ha scelto come enunciatore suo, come suo portavoce o altro che sia e di cui ha costruito la figura dice che la signora Laura, ecc.”. Oppure Leopardi ha costruito una o più figure di personaggi eroici infelici ai quali fa pronunciare la propria composizione; queste figure possono avere un nome reale, storico – per esempio Saffo o Bruto – possono essere dei personaggi immaginari, possono essere il “pastore errante dell’Asia”, o possono altre volte dire “io”: ma in questo senso si equivalgono.

E’ difficile pensare a un giovane adolescente studente che non si sia cimentato, perlomeno una volta, con la scrittura di una poesia. Ecco, perché in ogni età, cultura e condizione si scrivono versi?

Effettivamente con la successione delle tendenze letterarie e delle tendenze culturali o, diciamo ideologiche, degli ultimi due secoli a partire pressappoco dall’età della Rivoluzione francese, la scrittura in generale e la scrittura poetica in particolare sono diventate uno strumento di introspezione, sono diventate una via alla ricerca della propria identità. Insomma ogni scrittura che non abbia delle finalità puramente pratiche, sembra guidare alla scoperta di se stessi: allora scrivere versi diventa, in misura minore, anche tenere un diario o scrivere delle lettere reali o immaginarie. Scrivere versi diventa un modo rapido, un modo economico e, ahimé, un modo illusorio di risparmiarsi una crescita psicologica o un trattamento psicanalitico. Per esempio è diffusa l’idea che le scritture poetiche private siano alcunché di gratuito che uno può fare o può non fare, invece ci si accorge che questa è la conseguenza del fatto che le classi dominanti a partire dall’inizio dell’Ottocento avevano investito la categoria degli intellettuali di quelle funzioni che erano state nei secoli precedenti propri della casta sacerdotale, e esaltarono all’interno di questi intellettuali i letterati e i poeti come dei portatori di qualcosa di particolarmente rilevante, libero, gratuito, sublime e hanno continuato a mantenere questa sorta di illusione attraverso l’educazione di massa, attraverso i media audiovisivi, nonostante che appunto l’educazione di massa e i media audiovisivi, l’industria culturale dei nostri tempi, abbiano tolto ogni mandato sociale, ogni compito collettivo al letterato. So benissimo che mi si dirà che questo non è del tutto vero. Certo, fittiziamente vengono mantenuti, ma vengono mantenuti con una funzione analoga a quella che hanno i corazzieri al Quirinale. Il poeta si lascia adulare grazie ai suoi supposti rapporti col mondo dell’invisibile e dell’inconscio, come vedremo supposti, ma non del tutto falsi. Insomma per risolvere dei problemi affettivi, morali, psicologici, religiosi, metafisici è meglio non fare assegnamento sulla scrittura dei versi. Se si scrivono o se si leggono dei versi senza qualche coscienza critica o storica della tradizione letteraria per un verso e della loro destinazione, della loro collocazione nella realtà di oggi, si fa una strada falsa, non dimenticando che una letteratura di consumo di apparente immediatezza esiste ed è quella che troviamo per esempio in molte forme pubblicitarie, nell’uso della parola nei testi pubblicitari o nelle canzoni di consumo. Anzi è molto educativo, è molto importante leggere e considerare i testi delle canzoni per vedere a quali antecedenti di metro, di linguaggio, di argomento, di situazioni essi si richiamino. Per chi conosca questo settore della nostra cultura è facile vedere dietro le parole dei cantautori più moderni come si ritrovano, come si leggono in filigrana cose che fanno parte della tradizione letteraria recente o remota. Leopardi, per esempio, pensava, sognava, immaginava che in ere remote c’era stata una vicinanza della lirica con la poesia cosiddetta popolare e diceva: “la poesia è l’espressione libera e schietta di qualunque affetto vivo e ben sentito nell’uomo” e dispiace dirgli che si sbagliava, si sbagliava moltissimo e lo dimostrava lui stesso con l’altissimo livello di autocontrollo critico che poneva nella sua opera di poeta, e quindi anche nel continuo ricorso che egli faceva alla tradizione letteraria. Insomma l’arte della lirica è cosciente di se stessa, è bisognosa di un’atteggiamento critico-culturale per non essere ignara del deposito di lingua e di forme alle quali attinge necessariamente.

Può provare a spiegarci qual è la differenza tra un linguaggio normale, il linguaggio della comunicazione, da quello della persuasione oratoria, oppure da quello poetico?

Innanzitutto bisogna dire che il linguaggio poetico è uno spazio chiuso su se stesso nelle singole opere, è una identità, un perenne ritorno di elementi, in esso tendono a prevalere la simmetria, l’armonia o al contrario l’asimmetria e la disarmonia che poi si ricompongono in altra simmetria; è un gioco calcolato di elementi variabili e di elementi invarianti. Di qui abbiamo la presenza costante della ripetizione, del raddoppiamento, del ritorno, del parallelismo che è uno degli elementi fondamentali della tradizione poetica dai tempi più remoti fino ad oggi e naturalmente poi c’è tutta una serie di livelli che va dalle scelte lessicali, alle figure foniche e ritmiche, allo svolgimento tematico, all’argomento, alle riferenze ideologiche che vi stanno intorno, etc. Ora, ognuno di questi livelli interferisce con ognuno degli altri e con tutti gli altri. Il lettore tende a commutare la propria attenzione ora sull’uno ora sull’altro. Una poesia breve, di versi molto ritmati, molto connessi da assonanze o da omofonie presenta innanzitutto una dimensione fonica o ritmica. Ecco per esempio alcuni versi di Marino Moretti: “Lenta lenta lenta va/ nei canali l’acqua verde/ e co’ suoi cigni si perde/ nella grigia immensità/ Oh dolcezza del mio cuore/ dei miei sensi un poco stanchi!/ Vanno i cigni i cigni bianchi/ sullo specchio dell’amore”. In una poesia senza rime, con ritmi meno insistiti, con pause ritmiche meno folte tenderà, invece, a diventare importante il tema, l’argomento, la vicenda. Per esempio: “Vent’anni è stato in giro per il mondo./ Se ne andò ch’io ero ancora un bambino portato da donne/ e lo dissero morto. Sentii poi parlarne da donne, come in favola, talvolta/ ma gli uomini più gravi lo scordarono, ecc.”. Naturalmente questi versi di Pavese hanno anch’essi un ritmo. Succede, tuttavia, che chi ascolta i versi di Pavese fa attenzione soprattutto al racconto della vicenda e dopo avverte che c’è una cadenza da cantastorie, da discendente di Omero. Invece chi ascolta i versi di Moretti ascolta prima di tutto la melodia e solo ad un secondo livello si accorge o può capire che stiamo parlando di un canale olandese. Insomma, tutta la poesia ha con se dei fini di persuasione, di esclamazione, di informazione e di emozione; afferma qualcosa, lo nega, lo chiama, ragiona ecc. Tutto l’intero discorso poetico è disposto in modo tale da evocare una separatezza da quei fini, in modo da mostrare una seconda finalità, è disposto in modo da costringere il lettore, l’ascoltatore ad avvertire una quantità di sintomi che negli altri discorsi non ci sono o che non sarebbero così importanti, come ad esempio la quantità delle figure retoriche o del discorso, gli effetti fonici, le scelte lessicali e così via, in rapporto con strutture che apparentemente sono simili a quelle che appaiono nella comunicazione non poetica. In un passo del vecchio Goethe si legge: “quando si hanno delle cose da dire si dicono in prosa, è quando non si ha nulla da dire che si scrivono poesie”, il che è abbastanza sorprendente considerando che chi diceva queste cose aveva scritto credo una massa di poesie sterminata per tutta la sua vita. E tuttavia c’era qualcosa di vero: quando non si ha nulla da dire nel senso di comunicazione, quale può essere la comunicazione prosastica, allora si adopera quel mezzo di comunicazione che dice altro da quello che direbbe la prosa. La poesia non vuole comandare, non vuole persuadere, non vuole indurre, non vuole dimostrare. Si impone con l’autorità dell’ istituzione letteraria che essa evoca o rivive, si impone con l’adempimento di un rituale, di un cerimoniale. Insomma, anche la poesia più apparentemente privata chiama in vita una parte della coscienza collettiva, allude al valore non individuale del linguaggio, produce un senso.

 Ma se allora il dire della poesia non è un dire strumentale, un dire fattuale o positivo , che cosa dice la poesia?

La poesia parla di qualcosa e nello stesso tempo parla di se stessa. La voce della poesia dice questo o quello, ma lo dice in modo che un effetto d’eco ci ricorda sempre che non la si può prendere in parola. Naturalmente questo irrita coloro che vogliono opinioni, vogliono scelte, sentimenti immediati. Ebbene questa sua ambiguità fondamentale è la sua lezione, una lezione insostituibile. Insomma, nella poesia ci si trova di tutto ma lo si trova ad una distanza tale che ricorda continuamente la necessità di prendere le distanze. Qualcuno alla fine del Settecento, scrisse che la poesia era un sogno fatto in presenza della ragione; forse sarebbe più esatto dire invece che la poesia è un ragionamento fatto in presenza di un sogno, cioè un discorso che in apparenza è un discorso come un altro cioè un discorso di amore, di dolore, di descrizione, di esortazione, di sapere, di sapienza che è fatto sotto lo sguardo di un fantasma sotto uno sguardo che tutto tramuta, tutto apparentemente lasciando intatto come accade appunto nei sogni.

 Se il dire della poesia non è un dire strumentale dobbiamo immaginare che la poesia non ha nessuna intenzione di agire sulla realtà?

Qui si tocca un punto molto importante e delicato. C’è stato per esempio Adorno che ha scritto che la specificazione formale di una poesia lirica si pone di per sé come antagonista al mondo storico-sociale che le sta intorno e ha affermato che quando all’interno di un testo le tensioni raggiungono un grado elevato di energia e di vitalità, la presenza dell’oggetto estetico la “poesia” nega e avversa e contesta tutto quello che è accettato nel quotidiano ripetuto. E’ interessante che Adorno prendeva come esempio una breve poesia di un autore romantico tedesco Moerike, che era una descrizione di un crepuscolo in una cittadina tedesca primaverile, quindi qualcosa che apparentemente non aveva nessun contenuto eversivo, né rivoluzionario. Ebbene – diceva Adorno – è proprio quella immagine che noi potremmo chiamare pascoliana per intenderci, che è un suggerimento di speranza di felicità che può avere nell’animo di chi ne partecipa un valore dirompente; è una promessa di felicità che tende a fare avvertire la insopportabilità del mondo schiavistico e volgare nel quale noi viviamo. Spesso – dice Adorno – ciò che apparentemente sembra il più lontano, il più remoto dall’appello all’azione e all’immediatezza, ha la funzione di mostrare l’insostenibilità del mondo che ci sta intorno, la stessa funzione che ha il bicchiere di grappa dato al soldato che deve uscire dalla trincea per affrontare il fuoco nemico. Certo aveva ragione quel grande scrittore e poeta cinese che negli anni Trenta circa diceva che una canzone battagliera anche di pessima qualità, come possono essere gli inni patriottici, serve benissimo per incitare gli animi, per commuoverli, ma che per battere il nemico – Lu Sun parlava degli ufficiali di artiglieria – è meglio usare i cannoni. E tuttavia esistono opere poetiche apparentemente lontanissime dall’impegno che hanno avuto la funzione di indirizzare gli animi ad azioni generose, a scelte moralmente ricche come è il caso per esempio della poesia di Leopardi, cosa che il nostro De Sanctis aveva visto benissimo. Appunto a questo proposito sarebbe curioso ricordare un dialogo fra il rivoluzionario russo Alexander Herzen e Giuseppe Mazzini a Londra poco dopo la caduta della Repubblica Romana quando a Mazzini, che obbietta alla poesia di Leopardi di non esssere sufficientemente animatrice di generosi sentimenti, Herzen invece risponde dimostrando che appunto è proprio questa sua apparente separatezza morale quella che ne fa la forza . Ne segue una scena molto bella in cui Aurelio Saffi, combattente della Repubblica Romana del 1849 e compagno di Mazzini, va con Herzen in una misera osteria londinese di profughi e di esuli a leggere le poesie di Leopardi. Se noi teniamo presente che il messaggio che in una poesia si indirizza al lettore è comunicazione di certi particolari contenuti, ma, nello stesso tempo è anche comunicazione di “altro” attraverso per esempio l’inconsueta inversione -“caro mi fu”- l’aggettivo antiquato, latineggiante “ermo”, l’anticipazione, anch’essa latineggiante “ermo colle” invece che “colle ermo”, allora non solo questo ma tutto il fatto che quest’intera affermazione è contenuta in una sequenza ritmica cui il nostro orecchio è abituato, il verso di undici sillabe, con una sosta sulla sesta sillaba “sempre caro mi fu/ questo ermo colle”. Questi elementi intervengono sul contenuto, sull’informazione che ci viene data; non la sopprime ma la muta: chi ascolta o legge non può non avvertire che gli vengono inviate anche altre informazioni.

Nessuna interpretazione esaurisce la poesia, ma nessuna poesia può fare a meno dell’interpretazione. Condivide questa affermazione?

Direi senz’altro di sì. Leggere una poesia, anche fra sé e sé o ad alta voce, è eseguirla, interpretarla e quindi anche modificarla, ricrearla. In una certa misura criticarla. Quando si dice che un testo poetico non è interpretabile solo a partire da se stesso si allude alla sua situazione nella cultura e nella storia. Chiunque legga una poesia, indipendentemente dal suo grado di coscienza o di conoscenza culturale rapporta le parole a una sfera di competenza e di risonanza che non è soltanto linguistica ma che è di tutta la sua mente, di tutta la sua coscienza, di tutto il suo inconscio. Anzi questo avviene in un modo diverso, e possiamo dire, per certi aspetti, più profondo o più coinvolgente di quanto non sia per altre forme di comunicazione linguistica proprio perché è ambigua, proprio perché ha un’apparenza informativa, comunicativa e persuasiva che viene modulata, per dir così, in una forma. Questa forma diventa deformatrice del messaggio e lo rende risonante come avviene nel sogno, in cui certe figure, certi personaggi sono dotati di doppie identità. Questo potere è stato attribuito alla poesia da tutte le più remote e diverse tradizioni della poesia e tradizioni culturali, e questo spiega anche tra l’altro l’equivoco continuo che c’è tra la sacralità di tipo religioso e la funzione del poeta. L’idea che il poeta sia ispirato dalle muse o dall’inconscio o da qualche demone segreto o dalla divinità è qualcosa che effettivamente accompagna direi tutte le tradizioni perché vi è stata un’epoca nella quale la funzione della poesia era quella di comunicare con una zona oscura, esterna alla cerchia illuminata dal fuoco della tribù, nella quale e dalla quale lo sciamano, il sacerdote e il poeta, il cantore facevano pervenire, dicevano che pervenivano i loro messaggi. Spesso mi è occorso di ricordare, in queste circostanze, il passo assolutamente straordinario della Odissea quando Ulisse ha compiuto la sua vendetta sui Proci, ha compiuto la terribile strage a colpi di frecce e tra i morti e gli agonizzanti si fa avanti il cantore, colui che in sostanza cantava narrazioni epico-liriche alla mensa dei Proci; gli si fa incontro, gli abbraccia le ginocchia, lo scongiura di non ucciderlo e lo scongiura di non ucciderlo dicendo: “sì, è vero io ho cantato per questi usurpatori ma l’ho fatto perché vi ero costretto e d’altronde sappi che io sono prontissimo a cantare anche per te; ma astieniti dal sangue di colui che in qualche modo è consacrato ad Apollo e che è quindi un personaggio sacro”. Qui troviamo nello stesso tempo affermata l’elemento di diciamo di grandezza e di miseria della tradizione letteraria, per cui per un verso c’è una sorta di invisibile tonsura sacra sul poeta, e nello stesso tempo c’è l’abiezione di colui che vive mendicando alla tavola dei padroni e dei potenti. Naturalmente Ulisse non uccide il cantore e da quel momento il destino del poeta e del letterato nella cultura occidentale è segnato.

 Se c’è una contiguità della poesia con la verità e con la sacralità e se nello stesso tempo si afferma che la poesia è portatrice di verità, qual è la differenza a questo punto tra la poesia e la filosofia, la poesia e la scienza?

Le verità teologiche, per esempio di Alighieri, le verità filosofiche e antropologiche di Leopardi, la visione dei rapporti umani quali si rivelano per esempio nella poesia di Giovanni Pascoli o in quella di Vittorio Sereni, non sono né da prendere letteralmente e quindi da misurare nella loro verità o parziale o integrale o falsità, né da considerare senza importanza. Ricordiamo che Croce, per esempio, la struttura teologica della Divina Commedia la considerava non poetica, pressoché inutile al suo senso poetico. Noi sappiamo assolutamente che non è così; questo non significa che noi dobbiamo necessariamente condividere fino in fondo il pensiero cattolico dell’Alighieri. Un celebre studioso americano, Singleton diceva: “il lettore non dimentichi mai che il poeta Dante Alighieri è un poeta cattolico”, ed effettivamente l’aspetto in questo caso teologico, di verità teologica, come anche le affermazioni di verità materialistiche in Leopardi, non sono elementi soltanto accessori, sono elementi integranti e integrali della poesia. Questi elementi sono inseparabili dalla rappresentazione, non sono delle verità vestite con un abito diverso, sono inseparabili dalla rappresentazione di questa o di quella situazione immaginaria che si tratti di parlare dell’oltretomba o della sera di sabato in un villaggio italiano, o del raccapriccio di morti in una valle toscana come nel tardo Pascoli o del brivido della trasformazione sociale della morte individuale nella poesia lombarda di Vittorio Sereni. Tutto questo non ci induce a cogliere dei letterari enunciati di verità: se io voglio cercare questi letterali enunciati di verità li troverò piuttosto, per esempio, nelle pagine dello Zibaldone leopardiano, nel De vulgaria eloquaentia o nel Convivio di Dante, o nelle prose di Pascoli o di Sereni che non nei versi; tuttavia mentre sarebbe assolutamente assurdo di prendere alla lettera le affermazioni teoriche o filosofiche di Dante e di Leopardi, il fatto che non si condivida, come ho detto, le idee di Dante sulla Trinità o sulla istituzione del Purgatorio né quelle del Leopardi sul pessimismo cosmico, non vuol dire che debbano essere considerati dei superati, degli inattuali, degli illusi perché quello che essi ci dicono a proposito di cose che noi possiamo considerare superate o false è qualche cosa di non superato e di vero.

Intervista dell’8 maggio 1993

 

ABSTRACT

Dopo aver isolato all’interno dell’universale linguaggio umano la “funzione poetica”, cioè quel tipo di comunicazione che attira l’attenzione su se stessa, Franco Fortini distingue due accezioni del termine “poesia”: il primo indica una particolare struttura formale del discorso, in cui prevalgono precise regole ritmiche, metriche ed acustiche; il secondo implica un giudizio di valore sul contenuto di un discorso dotato di bellezza, di capacità evocativa e di suggestione (1). Secondo Fortini per poesia si può intendere una composizione che determina un’attesa tecnica di un certo schema ritmico (allitterazioni,omofonie, rime) e che si può rintracciare anche in grandi prosatori come Flaubert (2). Contro la tendenza crociana a sopravalutare la poesia lirica come espressione del sentimento soggettivo, Fortini porta l’esempio del poeta americano Edgar Lee Masters e di Umberto Saba, che hanno scritto componimenti apparentemente prosaici che attingono liricità da elementi esterni al testo in quanto tale (3). Successivamente Fortini commenta la definizione di “lirica” come “poesia” dell’espressione (4) e per distinguere la poesia lirica dalla poesia non-lirica ricorda un’epigrafe di Bertolt Brecht (5). Secondo Fortini, poi, nella poesia avviene una finta comunicazione che parte da un soggetto che non va identificato anagraficamente con l’io poetante, ma con colui che l’autore finge essere il personaggio poetante, come se Dante dicesse che un personaggio che chiama “Dante” si rivolge a un personaggio che chiama “Virgilio” (6). Di fronte al fenomeno molto diffuso, soprattutto in età adolescenziale, della scrittura come strumento di introspezione e di ricerca terapeutica della propria identità, Fortini esprime delle perplessità e delle riserve, esprimendo un severo giudizio critico sull’attuale industria culturale e sulla letteratura di facile consumo, priva di un solido autocontrollo critico e di un riferimento sicuro alla tradizione letteraria (7). La poesia, dice Fortini, può privilegiare la dimensione fonico-acustica e ritmica o può richiamare l’attenzione sul “pathos” del contenuto: essa è un discorso polisemico e a vari livelli, in cui la persuasione, l’informazione, il riferimento ideologico, l’evocazione, il ragionamento, lo svolgimento tematico interagiscono vicendevolmente, portando il lettore a scegliere uno di questi codici, costruendo il “senso” poetico (8). La poesia parla di qualcosa e parla di se stessa: in questa sua ambiguità, secondo Fortini, sta la sua originalità (9). Questo non significa, però, che il discorso poetico non abbia efficacia pratica: Adorno, anzi, rintraccia una carica di impegno sociale e politico proprio nelle poesie meno eversive, perchè capaci di evocare un mondo ed una promesssa di felicità, facendo avvertire l’insopportabilità della quotidianità. Fortini, per questo, fa una sottile esegesi dell’ Infinito”di Leopardi, la cui poesie Mazzini giudicava non sufficientemente suscitatrici di slancio civile, mentre Saffi le leggeva ai profughi italiani a Londra (10-11). Riguardo al rapporto tra verità e poesia, ideologia ed arte, Fortini respinge la posizione di Croce che, ad esempio, riteneva la struttura teologica della Divina Commedia estranea alla sostanza poetica dell’opera e ritiene che la poesia possa formulare anche enunciati teorici e filosofici che fanno parte integrante del discorso poetico (12).

Tratto dall’intervista “Che cos’è la poesia?” – Milano, abitazione Fortini, sabato 8 maggio 1993 – RAI

 

 

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Nel parlare comune, “poesia” significa due cose: per un verso è un discorso, o ragionamento, o comunicazione, in cui prevalgono elementi di ritmo, cadenze, ripetizioni, immagini che alterano i significati immediati delle parole e che gli conferiscono anche significati interiori. Poi c’è un altro significato: quando noi diciamo: “questa è poesia”, intendiamo dire qualcosa di elevato e di nobile, di rassicurante o di commovente o di rasserenante, di vivace, pungente, ecc. 
Una poesia breve, di versi molto ritmati, molto connessi da assonanze o da omofonie, che cosa presenta prima di tutto? Presenta proprio la propria dimensione fonica o ritmica. Ecco per esempio alcuni versi di Marino Moretti:

“Lenta lenta lenta va 
nei canali l’acqua verde 
e co’ suoi cigni si perde 
nella grigia immensità 
Oh dolcezza del mio cuore 
dei miei sensi un poco stanchi! 
Vanno i cigni i cigni bianchi 
sullo specchio dell’amore”

Prendiamo invece un esempio di poesia senza rime, con ritmi meno insistiti, con pause ritmiche meno folte: che cosa tenderà a venire avanti e diventare importante? Il tema, l’argomento, la vicenda. Prendiamo ad esempio alcuni versi di Pavese:

“Vent’anni è stato in giro per il mondo. 
Se ne andò ch’io ero ancora un bambino 
portato da donne e lo dissero morto. 
Sentii poi parlarne da donne, 
come in favola, 
talvolta ma gli uomini più gravi lo scordarono…”

Chi ascolta i versi di Pavese fa attenzione soprattutto al racconto della vicenda dell’emigrante, e solo dopo avverte che c’è una cadenza da cantastorie, da discendente di Omero. Invece chi ascolta quei versi di Moretti, che ho detto prima – “lenta, lenta, lenta”, ecc. – ascolta prima di tutto la melodia e solo ad un secondo livello si accorge o può capire che stiamo parlando di un canale olandese.

Mi faceva impressione, poco tempo fa, leggere un passo di Goethe vecchio che affermava: “quando si hanno delle cose da dire si dicono in prosa; è quando non si ha nulla da dire che si scrivono poesie”. Questa affermazione è abbastanza sorprendente, considerando che chi diceva queste cose aveva scritto una massa di poesie sterminata per tutta la sua vita. La poesia non vuole comandare, non vuole persuadere, non vuole indurre, non vuole dimostrare. Certamente la poesia si impone, ma riesce ad imporsi con l’autorità dell’istituzione letteraria che essa evoca o rivive, con l’adempimento di un rituale, di un cerimoniale.

In altre parole si può dire che anche la poesia più apparentemente privata chiama in vita una parte della coscienza collettiva, allude al valore non individuale del linguaggio, produce un senso. Tutte le forme del codice poetico, non solo le forme liriche, sono state all’origine forme di comunicazione: poi la storia della cultura le ha trasformate, le ha redistribuite e una parte di quelle forme di comunicazione sono state messe da parte, sono divenute il modo poetico di comunicare.

Ripubblicati per gentile concessione dalla plaquette  “Allegati dal Porto dei Poeti 2013”, trascrizioni da interviste RAI.

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Nato a Firenze nel 1917,  Franco Fortini ha vissuto in quella città gli anni giovanili, entrando in contatto sia con i protagonisti della stagione dell’Ermetismo, sia con gli intellettuali che prima della guerra hanno fatto la storia della cultura italiana, da Montale a Noventa e Vittorini. Dopo aver partecipato alla Resistenza in Valdossola diventa redattore del “Politecnico”, dal 1948 al 1953 lavora alla Olivetti, per la quale continua a collaborare come copywriter fino agli anni ’60; scrive per riviste e quotidiani, tra cui “Officina”, “Quaderni rossi”, il “Manifesto” e il “Corriere della sera”. Nel 1985 gli viene conferito il Premio Montale – Guggenheim per la poesia. È morto a Milano nel novembre ’94. La produzione di Fortini comprende la saggistica, la poesia, la narrativa, sceneggiature, traduzioni in versi ed in prosa dal francese e dal tedesco.
Tra i suoi titoli principali, per la poesia: Foglio di viaPoesia e erroreComposita solvantur. Per la narrativa e la diaristica: Asia Maggiore, I cani del Sinai; per la saggistica, Dieci inverniVerifica dei poteriL’ospite ingratoExtrema ratio. Ha tradotto Flaubert, Eluard, Doblin, Gide, Brecht, Proust, Goethe, Einstein, Queneau, Kafka.

 

Foto in evidenza di Micaela Contoli.

Foto dell’autore dal sito di Rai scuola it.

Riguardo il macchinista

Walter Valeri

Walter Valeri poeta, scrittore e drammaturgo è stato assistente del premio Nobel Dario Fo e Franca Rame dal 1980 al 1995. Ha fondato il Cantiere Internazionale Teatro Giovani di Forlì nel 1999. Successivamente ha diretto il festival internazionale di poesia Il Porto dei Poeti a Cesenatico nel 2008 e L’Orecchio di Dioniso a Forli' nel 2016. Ha tradotto vari testi di poesia, prosa e teatro. Opere recenti Ora settima (terza edizione, Il Ponte Vecchio, 2014) Biting The Sun ( Boston Haiku Society, 2014), Haiku: Il mio nome/My name (qudu edizioni, 2015) Parodie del buio (Il Ponte Vecchio, 2017) Arlecchino e il profumo dei soldi (Il Ponte Vecchio, 2018) Il Dario Furioso (Il Ponte Vecchio, 2020). Collabora alle riviste internazionali Teatri delle diversità, Sipario, lamacchinasognante.com Dal 2020 dirige i progetti speciali del Museo Internazionale della Maschera “Amleto e Donato Sartori”. È membro della direzione del prestigioso Poets’ Theatre di Cambridge (USA).

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