Julio Monteiro Martins e gli scrittori- 2 scritti apparsi in Sagarana (Amara Lakhous e Julio Monteiro Martins)

terrazza

In questo quarto numero del contenitore di scritture dal mondo “La macchina sognante” che segna un anno dall’inizio della nostra avventura vorremmo mettere in evidenza l’importante contributo degli scrittori e delle scrittrici, senza i quali il contenitore non esisterebbe.

Partendo dallo scrittore che ha ispirato molti di noi “macchinisti”, cioè Julio Monteiro Martins, dalla cui opera postuma abbiamo tratto  il nostro nome, proponiamo due scritti, il primo apparso all’inizio dell’avventura di Sagarana, cioè nel 2000, nel numero 2 della rivista e che registra un dialogo tra Julio e lo scrittore nato in Algeria,  Amara Lakhous, forse il più noto di quelli che sarebbero diventati gli scrittori della migrazione che scrivono in italiano (e in realtà Amara Lakhous ha continuato a migrare e vive attualmente negli Stati Uniti, e ha imparato a scrivere in ancora un’altra lingua). Nel secondo pezzo,  “La corsa ad ostacoli” l’editoriale  del numero 42 di Sagarana, scritto molti anni dopo, nel gennaio 2011,  Julio fa le sue considerazioni sul mondo che gli scrittori e  le scrittrici si trovano ad affrontare per affinare la propria arte, farla conoscere, conoscere quella degli altri.

Sono considerazioni valide tuttora, con piccoli aggiustamenti dovuti a evoluzioni o involuzioni che si sono verificate nei 5 anni intercorsi da questo scritto,  e in questo spirito le riproponiamo.

 

 ELEGIA DELL’ESILIO COMPIUTO*

Amara Lakhous


Perché ha pianto Julio Cesar Monteiro Martins?
Elegia dell’esilio compiuto.

Vorrei dipingere un quadro dove poter vivere
Paul Delvaux

 

Ha pianto Julio Cesar Monteiro Martins dall’angoscia della mancanza e della nostalgia, ha pianto come un qualsiasi bambino brasiliano a cui è stato impedito di partecipare al carnevale, perché il carnevale è un gioco pazzo, e solo gli adulti conoscono le sue leggi, o almeno così si racconta ai piccoli. Ha pianto il mio amico scrittore quando la sua memoria ha sorvolato i cieli di San Paolo e Rio de Janeiro, si è ricordato con un pizzico di sadismo gli ultimi istanti prima della partenza, anzi si è messo a torturare la sua memoria per ottenere tutti i dettagli: le fotografie degli amati infilate nella tasca, il profumo dell’ ultima amante, la danza della samba, gli alberi dell’Amazzonia… ecc. Smettila Julio, abbi pietà della tua povera memoria, e piangi finché …
Ha pianto Julio Cesar, le sue lacrime calde sono scivolate lungo i peli bianchi della barba, ha pianto e ha fatto piangere i presenti. E’ triste come tristi sono maledizione e follia. La terra di Dante per grande e leggera che sia gli pesa, ecco che si identifica nel fiume che Hölderlin ha eternizzato, e il fiume non torna alla sorgente e il suo destino è spostarsi continuamente fino a raggiungere l’ oceano/fine, l’oceano alla fine dei conti è la tomba del fiume.
La notte dello stesso giorno Julio Cesar mi ha informato della sua nuova avventura: ha cominciato da poco a scrivere nella lingua di Italo Calvino e fra qualche mese sarà pubblicato un libro di racconti in italiano, gli ho chiesto con esitazione e perplessità cosa sia successo al suo Portoghese mi ha risposto: non lo so.
Abbiamo consumato quella notte a discutere sul ruolo del linguaggio nella scrittura creativa, sulla responsabilità della lingua nell’elaborazione del pensiero, su Malek Hadad …
Alla fine, prima di salutarci, gli ho detto: Adesso ho capito, il tuo esilio, caro Julio, è compiuto, la differenza fra me e te e che tu vivi un esilio concluso (la separazione dal Brasile e dal Portoghese) mentre io vivo in un esilio incompiuto, sto combattendo la tentazione della lingua italiana, scrivo in Arabo e traduco quello che scrivo per uscire dall’isolamento, scrivo nella mia lingua d’origine perché è il ponte che mi lega alla mia memoria, al mondo di ieri, come diceva Stefan Zweig, e la lingua/ponte/sale che salvaguarda il prolungamento della ferita, che la ferita rimanga aperta, testimone del nostro scandalo, lo scandalo dell’ upupa che fa i suoi bisogni nel proprio nido.
Nel salutarmi Julio mi ha detto: godi del tuo esilio incompiuto, amico mio, però cosa ti accadrà se le corde del tuo ponte si spezzeranno?
Gli ho risposto senza esitazione: quel giorno piangerò come una volta ha pianto
Julio Cesar Monteiro Martins.

Questa volta Julio ha riso ed io ho riso con lui.

Roma, 8 agosto 2000

* Il testo è stato tradotto dall’arabo dall’autore.

 

Biografia dell’Autore

NON VIVIAMO IN UN PAESE, MA IN UNA LINGUA

Il mio nome è Amara Lakhous, un nome che in Italiano sembra femminile, così che spesso mi chiamano “Amaro” come molti nomi maschili italiani che finiscono per “o”, Paolo o Marco, nomi che io ho sempre amato. Non credo tuttavia di essere un uomo amaro perché oggi come oggi mi considero il primo oppositore ad ogni forma di amarezza.

Il mio cognome, invece, sembra esser appena arrivato da un registro dell’Anagrafe di Atena, ma io non sono greco, sono nato in Algeria nel 1970 da una famiglia numerosa di origine Berbere. Da bambino frequentavo le lezioni del Corano, perché all’inizio degli anni ’70 non c’erano ancora gli asili-nido nel mio paese. E in seguito ho frequentato tutti i corsi, dalle medie alle superiori ad Algeri, nella mia “Algeria bianca”. Mi sono laureato in Filosofia nel 1994, scoprendo subito che le mie grandi curiosità non potevano essere soddisfatte. Questa è forse la ragione per cui ho cominciato a pubblicare in riviste e in giornali nazionali, e per cui ho collaborato con la Radio di Algeri ad una trasmissione di informazioni culturali che era tra le più significative degli ultimi anni. Nel 1995 però il terrorismo fece dei giornalisti e degli intellettuali il suo principale bersaglio, con il pretesto che essi erano complici dello Stato. Io non ho avuto scelta: come potrei continuare a portare avanti la mia missione di intellettuale critico e fautore del libero pensiero in tale situazione? Questa è stata la ragione per cui, alla fine di quell’anno, ho deciso di lasciare l’Algeria e venire a vivere in Italia.

Como sono entrato in Italia? Le difficoltà per ottenere un visto per entrare nel paese erano tante che esse hanno contribuito fortemente all’illusione che io stavo lasciando l’inferno dietro di me per entrare in un paradiso che era così lontano e allo stesso tempo così vicino… Ma è stato grazie ad un amico che ho ottenuto il visto per partecipare ad un seminario sullo scambio interculturale all’Università di Roma. In questo modo ho potuto risparmiare la sofferenza e l’umiliazione di dover presentare un’infinità di documenti al Consolato Italiano ad Algeri per ottenere un visto di ingresso. Sono riuscito ad evitare, almeno parzialmente, che le scadenze burocratiche mi assorbissero completamente. Ma la fortuna era con me, e infatti nel ’95 il Presidente Dini ha promulgato un atto che ha permesso la regolarizzazione di tutti gli immigranti arrivati in Italia prima del 18 Novembre 1995.

Il mio amico Roberto, professore di Antropologia, cercò sin dall’ inizio di mettermi in allerta contro le illusioni, e cioè, contro l’idea che l’Italia era un paese dove era facile trovare un appartamento e un lavoro, in modo da avere una vita sicura e soddisfacente. Con questa consapevolezza della realtà, mi sono veramente impegnato ad imparare la vostra lingua, uno strumento indispensabile per l’integrazione. Per una persona che conosce il Francese come me non è stato tanto difficile, nonostante qualche difficoltà con la pronuncia di certe parole. L’associazione di volontariato laico (Casa dei Diritti Sociali di Roma) dove ho seguito il corso d’Italiano mi ha proposto di lavorare in un centro per immigranti. Ed è allora che la mia nuova vita è cominciata. Non ho perso di vista che il mio scopo centrale è quello di studiare. Mi sono iscritto all’Università di Roma nella Facoltà di Arti e Filosofia per studiare più profondamente gli argomenti che avevo studiato in Algeria.

Dopo i primi contatti più approfonditi con studenti italiani e con immigrati ho cominciato a capire che le nozioni che loro avevano del mondo arabo, ed in particolar modo della regione del Maghreb, era scarsa e superficiale. A questo punto mi sono convinto che avevo il dovere di dare un contributo presentando in un modo moderno e diverso il mondo da dove ero venuto. Ho dovuto usare tutto il mio potenziale intellettuale e soprattutto ho dovuto scrivere – mezzo che considero una forma di espressione immediata e democratica per gli intellettuali. Così ho dato avvio alla mia “missione” insieme a due amici, un palestinese e un marocchino. Abbiamo creato un programma nella radio italiana, una trasmissione di informazione culturale e di dibattiti (chiamata “Kalimat”, che significa “parole”) che affronta i problemi del mondo arabo. Questa esperienza nuova e complessa mi ha fatto cercare un’altra volta le note e gli appunti che avevo portato con me dall’Algeria, un breve romanzo scritto nel ’93 nel quale io descrivevo la società algerina che avevo lasciato, con i suoi limiti e le sue speranze. Questa collezione di sentimenti e di dati storici dovrebbe trasformarsi in un libro. La scelta più difficile non è stata quella di pubblicare o meno, ma quella che riguardava la traduzione. Per questa ragione ho scelto un’edizione bilingue, Italiana e Araba. L’Italiano è per me una seconda madrelingua, e come ha detto Cioran “non viviamo in un paese, ma in una lingua”. La pubblicazione del mio romanzo “Le cimici e il pirata” nel Maggio del ’99 portava avanti il principio di un grande progetto interculturale con lo scopo di promuovere la conoscenza della lingua Araba in Italia e della lingua italiana nei paesi arabi.

Una vera conoscenza reciproca è l’unico cammino verso una coesistenza umana degna e civile, e ognuno di noi può dare un contributo per la creazione di un “ponte” attraverso l’utilizzo delle proprie risorse culturali con l’obbiettivo di unire elementi variegati e diversi in un’unica nuova ed aperta società civile.


 

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Sagarana LA CORSA AD OSTACOLI

Julio Monteiro Martins

LA CORSA AD OSTACOLI

 

Immaginate una corsa ad ostacoli in cui ogni ostacolo è più alto del velocista. Così sembra il panorama attuale in Italia per quelli che desiderano pubblicare il loro primo libro o che fino al momento abbiano solo pubblicato per piccole case editrici, senza distribuzione. E questo a prescindere dai meriti dell’opera o del suo autore.
Nell’Editoriale di questa edizione – in risposta anche a decine di messaggi inviati dai lettori negli ultimi mesi a Sagarana chiedendo suggerimenti e soluzioni alternative a questo dilemma – cercherò di esporre punto per punto cosa sono questi immani ostacoli a partire dalla nostra esperienza, da questa “torre d’osservazione” privilegiata che è una rivista letteraria.
È chiaro che non ho la pretesa di esaurire in un testo così breve un argomento così complesso e in costante mutazione, ma presento su ciascuna “barriera” alcune mie “pennellate impressionistiche” che spero serviranno almeno per incoraggiare altre riflessioni e discussioni più approfondite.
La solitudine dello scrittore
Per tutto il Ventesimo secolo, e anche durante gli anni delle guerre mondiali, ci sono state comunità di scrittori in ogni paese, che si riunivano nei caffè, nei bar, nelle università e biblioteche, e anche clandestinamente, nei domicili privati o nei cortili delle carceri durante i periodi più repressivi.
Questa esistenza comunitaria è da qualche decennio scomparsa, nel processo in corso di atrofia e di chiusura della vita pubblica, in quella che è già stata definita la “società alveare”.
Tuttavia, la frequente comunicazione personale tra autori e tra le loro opere era indispensabile allo sviluppo della letteratura, quel misurarsi con i propri pari che offriva allo scrittore il senso della misura e le giuste risposte critiche, e forse anche una più solida coerenza ideologica.
La comunicazione via Internet di oggi solo parzialmente è in grado di colmare questa lacuna. È un surrogato freddo, impersonale e poco efficace paragonato alla lettura viva e al coinvolgimento diretto e genuino.
I corsi di scrittura
Forse cercando proprio di riempire il vuoto nel convivio pubblico e promuovere lo scambio tra giovani scrittori sono nati, prima nei paesi anglosassoni e poi in quelli sudamericani ed europei, i laboratori di scrittura creativa.
In Italia, dopo un periodo iniziale di diffidenza – prevaleva ancora il mito romantico dello scrittore “ispirato” e “geniale” – a partire dagli anni Novanta gli workshop si sono affermati e hanno proliferato. Forse anche troppo: con livelli di qualità molto eterogenei, gran parte di questi corsi sono poco professionali e tenuti da maestri poco preparati, che spesso non fanno altro che trasmettere le loro idee personali e idiosincratiche sulla scrittura o gonfiare l’ego degli allievi, tutti procedimenti di poca o nessuna utilità.
Ma anche quando l’allievo ha la fortuna di imbattersi in un vero workshop, con professori brillanti, esperti e motivati e riesce a trarne beneficio, alla fine non troverà lo stesso gli spazi editoriali per far fruttare i suoi progressi, se non li creerà lui stesso, rischiando così una frustrazione ancor più grave.
L’università
L’ambiente accademico italiano è indifferente, quando non ostile, alla creazione letteraria. Non ci sono mai stati corsi di scrittura all’interno dell’università – oltre a effimere esperienze a Roma una decina di anni fa –; non è possibile presentare un testo di narrativa come tesi accademica, al contrario di ciò che accade in alcune grandi università all’estero – ho seguito personalmente tesi del genere nell’Università dello Iowa e nell’Universidade Federal do Rio de Janeiro, tra le altre –, e chi frequenta corsi di Lingue, di Lettere o di Scienza delle Comunicazioni, come allievo o come docente, e scrive, non troverà mai all’interno di questi dipartimenti alcun spazio di accoglienza per la sua attività creativa, che dovrà essere sviluppata al di fuori della sfera accademica.
Sembra incredibile, ma l’ambiente universitario si ostina a ignorare le opere creative di quelli che lì, secondo loro, devono occuparsi d’altro. Chiaramente gli scrittori sono spesso invitati a visitare i diversi dipartimenti e a parlare a studenti e a professori, ma ognuno deve attenersi al proprio ruolo ufficiale, e l’unica opera riconosciuta è quella degli scrittori “esterni” in visita all’istituzione.
Le riviste letterarie
Sono gli indispensabili “laboratori” della vita letteraria, dove l’autore si presenta per la prima volta, dove si cimenta in generi diversi dal solito, dove si avventura in audaci esperimenti formali o tematici e dove ottiene i primi riscontri. E queste riviste sono praticamente scomparse in Italia.
Molte di quelle cartacee hanno smesso di circolare a metà degli anni Novanta (ed erano tante quelle che servivano solo a scambi di favori, del tipo “io pubblico te e tu pubblichi me” che la loro scomparsa è stata compianta alla fine soltanto dagli stessi proprietari e dai loro amici). Hanno poi subito un ulteriore colpo di grazia quando le librerie Feltrinelli, che riservavano degli scaffali interni, vicini all’entrata, alle riviste culturali – e sono state le ultime a esporle e a venderle – li hanno soppressi. Al loro posto, dalla fine degli anni Novanta, sono nate le riviste on-line, come Sagarana o El-Ghibli, ma meno numerose.
Oltre al fatto che il “prestigio” della carta stampata riflette un preconcetto duro a morire, è difficile valutare la vera visibilità di queste nuove riviste. Per esempio, fino a che punto servono da vetrina per l’industria editoriale o sono invece una risorsa importante per la massa dei lettori? Purtroppo non credo che le case editrici abbiano finora sviluppato la sana abitudine di navigare tra i siti letterari in cerca di nuovi talenti o di bei testi. Per quanto riguarda il pubblico delle riviste on-line si tratta comunque di un pubblico di nicchia, limitato e non di rado autoreferenziale, isolato dall’ambiente editoriale professionale. Questo spiega perché autori che hanno grande visibilità in Internet continuano ad essere inediti in forma cartacea, o almeno non presenti nelle vetrine delle librerie, e viceversa, autori di successo editoriale non siano ospitati assiduamente nella Rete.
I concorsi letterari
I concorsi per opere inedite o per autori esordienti praticamente non esistono oggi in Italia, nonostante siano – o dovrebbero essere – lo strumento più efficace per far emergere nuovi valori. Ciò che esiste, e  in tale abbondanza da far insospettire che servano ad altri scopi meno nobili, sono i premi letterari, promossi dai comuni, dalle fondazioni e associazioni, da cooperative o da imprese private, che destinano una cifra annuale per premiare opere pubblicate nell’anno precedente, nei casi dei piccoli premi spesso come scusa per portare nei comuni decentrati gli autori più alla moda, oppure per fare un “regalo” a un autore locale prescelto, che in futuro sa di doverlo ricambiare a chi lo ha segnalato quando sarà dall’altra parte del banco.
Quanto ai grandi premi letterari italiani, quelli più noti e prestigiosi, con la consegna dei premi trasmessa in tarda serata dalla tv di Stato, già da molti anni hanno i loro risultati “lottizzati” tra alcune grandi case editrici e spartiti tra gli autori dei loro cataloghi.
Dall’altra parte, mascherati da concorsi per esordienti, ci sono parecchi concorsi-truffa che chiedono una consistente somma di denaro come “tassa di iscrizione” e con questo stratagemma mettono su una piccola “industria” e fanno profitto ogni anno sulle vane speranze di chi lo accetta. Comunque il panorama generale non potrebbe essere più desolante.
Le agenzie letterarie
Immaginate una pasticceria che la mattina presto compra i suoi pasticcini in un supermercato e li rivende durante il giorno per il doppio del prezzo. Cioè, una pasticceria tutta vetrina, niente cucina. Così funzionano le agenzie letterarie in Italia. Prendono il “prodotto” già pronto – i diritti di opere recenti di scrittori già famosi, preferibilmente stranieri – e li offrono alle case editrici italiane.
Al contrario dei loro pari negli altri paesi, raramente accettano di rappresentare autori esordienti o comunque non ancora noti, in quanto, per loro, si tratterebbe di uno sforzo poco gratificante, una perdita di tempo insomma.
Ci sono anche casi di “agenti” che chiedono cifre piuttosto consistenti agli autori per rappresentarli o addirittura solo per leggere il loro originale. E poi si sa che è molto improbabile che un autore riesca a farsi pubblicare attraverso questi “agenti”, che provano a contattare le case editrici solo per dare una soddisfazione al loro autore-investitore, già prevedendo il risultato negativo, oppure non ci provano nemmeno.
In ogni modo, anche se arrivare attraverso un agente letterario è in teoria il modo più “professionale” di farlo, in pratica questo approccio, in Italia, si è dimostrato una strada non percorribile per i nuovi scrittori.
Le case editrici – la selezione
Una delle immagini che mi ha più colpito dopo il mio arrivo in Italia è stata una pubblicità di una grande casa editrice su diversi giornali che chiedeva agli autori di non mandare i loro manoscritti perché loro non avrebbero più letto nessuna opera non sollecitata per esame, e che il plico sarebbe stato restituito ancora chiuso al mittente, in caso di invio non richiesto. L’annuncio la dice lunga sulla non disponibilità delle case editrici italiane a leggere gli originali che gli pervengono da autori che non conoscono o che non sono stati raccomandati da un contatto giusto. E infatti l’Italia è l’unico paese tra quelli che conosco in cui le case editrici non si degnano nemmeno di rispondere negativamente sulle proposte che ricevono dagli autori. Stanno in silenzio e basta. E lasciano gli scrittori in un’attesa perenne. Un comportamento cafone e incivile, seppur molto diffuso da queste parti. Ma tant’è.
Quello che si configura come ostacolo pressoché insuperabile è il circolo vizioso che si forma, anche nei casi di opera di indubbio valore: l’autore non la pubblica perché l’originale non è stato letto, non avendo avuto modo di farlo arrivare alle case editrici attraverso i mezzi adeguati, e non ha nemmeno un nome conosciuto dal pubblico che possa destare l’interesse della casa editrice, e non potrà mai averlo proprio perché non riesce a pubblicare, e via dicendo.
Ci sono sempre le case editrici a pagamento, ma sono tristemente note, conosciute dai critici e dalla stampa per la scarsa attenzione alla qualità del loro catalogo. Oltre a non possedere alcun potere contrattuale nell’ambiente, i loro titoli escono già bollati – a volte ingiustamente – come opere scandenti. Quindi, questa “scorciatoia”, oltre ad essere onerosa, è sconsigliata per la sua inefficacia. Anche l’altra strada, quella considerata legittima, è quasi sempre bloccata a priori.
Le case editrici – l’editing
Per non perdere l’opportunità della pubblicazione, non di rado gli autori, e non solo quelli esordienti, devono subire in silenzio un vero scempio delle loro opere, con la scusa di “un adattamento ai gusti del lettore”. In nome di un presunto incremento del potenziale commerciale del libro – che spesso non è nemmeno reale e non ingrossa le vendite – si operano dei massacri editoriali, il cui insuccesso in termini di vendite sta invece a dimostrare che il cattivo gusto non paga.
Tale operato è spesso imputabile a direttori editoriali senza alcuna formazione letteraria, oriundi dalle scuole di marketing, che riscrivono in peggio intere parti dell’opera, sfigurandola, svuotandola dell’ambiguità e della complessità in favore di strutture manichee e stereotipate. Spesso cambiano i finali per renderli più “lieti”, eliminano i punti che considerano “polemici” o “ideologici” per presentarli in modo più “appetibile” a un pubblico diversificato, e a volte cambiano anche il titolo stesso del libro – che non considerano come parte costitutiva e inscindibile dell’opera – in una qualche etichetta più “commerciale”, e di solito chiaramente più banale e più stucchevole. In sintesi, “castrano” l’originale in tutti i modi, incuranti del rispetto dovuto alle scelte autoriali. E pensare che soltanto qualche decennio fa gli editori delle grandi case editrici e delle collane erano letterati come Pavese, Vittorini o Calvino, protagonisti del clima culturale, che favorivano anche il mantenimento di un livello alto all’interno dell’editoria.
La concorrenza extra-letteraria
Le case editrici oggi non esitano a pubblicare con grande pubblicità finte opere letterarie scritte (o soltanto firmate) da personaggi noti nel mondo dello spettacolo che non hanno mai avuto niente a che vedere con questa attività. Loro sanno che la semplice presenza del nome di queste figure sotto il titolo in copertina (e in caratteri più grandi di quelli del titolo) può assicurare il successo commerciale del libro.
Così, comici, giornalisti sportivi, presentatori di tv, attori e cantautori vari, vip urlatrici, mistici religiosi, veline e ballerine sempre più spesso sorpassano gli scrittori nelle scelte editoriali. Quelli del marketing trovano una grande furbata “prendere un passaggio” dalla fama già acquisita del personaggio in altri mestieri, risparmiando un bel po’ in pubblicità, investimento che dovrebbe essere fatto invece nel caso del titolo di un giovane autore di talento ma ancora sconosciuto.
Basta un’occhiata veloce sui banconi delle librerie o delle edicole per verificare la proliferazione di questi prodotti, simili ma molto diversi dalla vera letteratura.
La divulgazione
Sulla scia di quello che accade nei casi dei grandi premi, anche lo spazio per i libri nella grande stampa viene “lottizzato” tra le grandi case editrici, e le liste dei libri consigliati per l’estate o per i regali di Natale ne sono la prova. Durante il resto dell’anno si possono trovare qua e là recensioni di titoli di case editrici medie o addirittura piccole. Ma sono solo brevi recensioni “culturali”, mentre si smuovono mari e monti per certi titoli che devono essere promossi a tutti i costi per raggiungere le aspettative di vendita corrispondenti alle alte cifre che sono state sborsate per l’acquisto dei copyright. Allora si scatenano gigantesche campagne di marketing con interviste all’autore, anche negli show televisivi di prima serata, copertine dalle riviste patinate, citazioni di altri personaggi del mondo dello spettacolo, polemiche o scandali creati a tavolino e moltiplicati dai media, fino a grottesche foto del corpo intero in dimensioni naturali innalzate accanto alla porta delle librerie, come un fantasma a infestare il circo mediatico.
Con la progressiva chiusura delle piccole librerie e delle riviste letterarie, il pubblico è rimasto sempre più alla mercede di queste campagne di marketing per informarsi sui nuovi titoli, e privo di parametri critici per valutare la credibilità di queste informazioni, finendo così per lasciare condizionare le sue letture da queste astuzie mercantili. In questo modo la letteratura, manipolata dal marketing, diventa sempre meno letteratura e sempre di più un prodotto della cosiddetta “industria dell’intrattenimento”. E questa operazione di marketing avviene già con la letteratura infantile – pensiamo a “Geronimo Stilton”, ­– fino a quella degli young adults – pensiamo a “Harry Potter”, a “Il signore degli Anelli” e a “Twilight” – spesso in concomitanza con prodotti cinematografici promossi dal marketing internazionale. Così facendo si preparano intere generazioni a calcare questo modello di fruizione della letteratura.
La critica
Ben diversamente dal fermento critico che c’era ai tempi di Calvino e di Vittorini, che intervenivano sul presente, oggi sembra quasi che la critica si senta tranquilla di scrivere su un autore solo dopo che questi muore. È come se la morte lo sdoganasse, e solo la morte potesse farlo.
I critici, con rare eccezioni, non si prendono la responsabilità di intervenire nel caos editoriale dettato dal mercato ripristinando i veri valori letterari. Così, il mercato editoriale finisce per fare sempre da padrone per quello che riguarda la produzione contemporanea, mentre la critica scrive tomi e tomi su Dante, Tasso, Manzoni e Pirandello. Di quel che succede nel tempo presente quasi non parlano: né della letteratura “stanziale” né di quella “migrante” o come vogliate chiamarle, “letterature parallele” che isolate l’una dall’altra scrivono la storia dell’Italia di oggi. Di queste si occupano quasi esclusivamente i giornalisti nelle loro recensioni e gli uffici stampa delle case editrici.
La critica non dovrebbe fare l’assenteista in un periodo così complesso e cruciale. Inoltre, da un punto di vista diciamo “umano”, quello che la critica potrebbe fare per sostenere l’opera di un artista valido (e vivente!), sarebbe intervenire nel presente, per colmare la terribile e deprimente sottrazione che gli è comunque riservata per la lentezza congenita con cui si addensa un nuovo canone.
Le librerie
Un altro capitolo dolente è quello della scomparsa delle piccole librerie, che avevano, e che hanno tuttora un ruolo insostituibile nello sviluppo della letteratura. I bravi librai, che più che un mestiere hanno una vocazione, conoscono i loro clienti e organizzano la libreria in funzione delle loro preferenze, setacciando nel miscuglio amorfo dei media quelle opere – anche pubblicate dalla piccola editoria – che potrebbero interessargli. E poi sono dei veri consiglieri letterari, fanno circolare le informazioni, incentivano i giovani scrittori che li frequentano, suggeriscono strategie, mettono in contatto le persone, aprono il loro spazio alle presentazioni di nuovi titoli e poi li espongono e li tengono presenti in magazzino.
Possiamo chiederci quale delle mega-librerie che uccidono quelle tradizionali, che con la politica degli sconti e del dumping gli rendono impossibile la sopravvivenza, possono o vogliono assumersi questi compiti? Si comportano come i supermercati, comprano all’ingrosso e vendono al dettaglio prodotti per le masse anonime. Questo per non parlare delle crescenti vendite via Internet e dei supermercati veri e propri, l’Esselunga, la Coop, il Carrefour e addirittura il Media World che ora vendono anche libri, e le edicole, tutti concorrenti più grossi che rendono il mercato dei libri una sorta di giungla. Le grandi catene offrono molte copie di pochi titoli, vendono solo quelli che i media promuovono in quel momento, pubblicati sempre dalle stesse grandi case editrici. Con questo andazzo la concorrenza predatoria rende impossibile la sopravvivenza delle librerie ma anche quella della media e piccola editoria, quella responsabile della pubblicazione di libri di qualità, di spessore, mentre le grandi si occupano dei best-seller – anche di quelli “sofisticati” – e della letteratura diciamo “pastorizzata”, innocua e superficiale.
La distribuzione
Le librerie che nonostante tutto sopravvivono ancora all’assedio delle grandi catene devono per di più subire inedite pressioni dalle ditte di distribuzione, soprattutto da quelle che rappresentano i titoli delle maggiori case editrici, quelle che sfornano il best-seller del momento, o che addirittura appartengono alle case editrici come un loro reparto.
Un esempio di queste pressioni: spesso la consegna dei titoli più ricercati dai lettori è condizionata dalla distribuzione all’acquisto di un numero consistente, quando non eccessivo di copie, e anche all’offerta di uno spazio predeterminato dalla distribuzione, tanti metri quadri di vetrina o di bancone destinati a quel titolo e al materiale pubblicitario ad esso collegato. Nel caso dei titoli più ricercati si rischia di ricevere le copie con grandi ritardi rispetto alla concorrenza o di non riceverle affatto. Si tratta di un vero e proprio ricatto.
Queste aggressive strategie di marketing finiscono per obbligare il libraio – anche quello più intellettuale – a spingere la vendita dei best-seller per non subire perdite che non sarà in grado di reggere, in quanto non potrà restare in vita solo con la vendita occasionale dei titoli della media e della piccola editoria. Poi, un altro meccanismo perverso fa sì che i distributori preferiscano presentare ai librai soltanto i titoli più in evidenza, pensando così facendo di ottimizzare il tempo dei loro venditori. Come conseguenza di questa politica, o non accettano più di rappresentare le case editrici piccole, oppure accettano ma poi non offrono i loro titoli ai librai, oppure accettano ma poi concentrano i loro sforzi di vendita su un unico titolo per casa editrice: quello che ritengono a più alto potenziale commerciale, abbandonando tutti gli altri. Questo spiega il motivo per cui di tanti titoli appena usciti non è possibile trovare nemmeno una sola copia in vendita in nessuna libreria. Ufficialmente il titolo è stato distribuito, ma in pratica non è mai stato presentato ai librai, e le copie sono rimaste nei magazzini nelle stesse scatole in cui sono arrivate, che dopo qualche mese verranno restituite ancora chiuse alle case editrici che le avevano consegnate.
Il pragmatismo dilagante
Alla fine della nostra lunga lista di “ostacoli”, torniamo alla dimensione umana dello scrittore con cui l’abbiamo iniziata. Ma stavolta non più dalla prospettiva individuale, di solitudine e isolamento, ma dalla prospettiva sociale ed economica.
Lo scrivere, nella quasi totalità dei casi, è un’attività non redditizia, anche a causa delle circostanze che abbiamo appena elencato, e così, per una generazione tagliata fuori dal mercato del lavoro e con gravi difficoltà di sopravvivenza economica, scrivere è qualcosa di difficilmente giustificabile. Declassato da arte o mestiere a hobby superfluo, nella visione pragmatica diffusa in questo modello di società, lo scrivere è visto sempre più spesso, all’interno della precarietà dell’economia domestica, come qualcosa di inutile, uno spreco di tempo e di energia, o addirittura come un’attività destabilizzante, fonte di conflitto nelle coppie e nelle famiglie, sovversiva riguardo agli imperativi finanziari.
Questa percezione spregiativa può contaminare la visione che lo scrittore ha di se stesso. Se non riesce a fare leva su forti convinzioni e una volontà di ferro, quasi mistica, del senso di quello che fa e della fede nella rilevanza della creazione letteraria per l’intera società, può finire per arrendersi a queste pressioni e abbandonare la propria scrittura, anche quando dà prova di avere un alto merito reale o potenziale.
Al di là di tutto quello che ho scritto qui, so anche che gli ostacoli sono sfide ed esistono per essere affrontati, e mi auguro che siano in tanti a superare questa corsa ad ostacoli e a preparare un presente e un futuro brillante per la nostra letteratura. Ma attenzione, caro scrittore: corri e salta e corri e salta senza cercare il traguardo, non riuscirai a vederlo, perché non si trova in un qualche luogo fuori di noi stessi. Un giorno, così, improvvisamente, ti accorgerai di averlo raggiunto, ma non sarà facile riconoscerlo allora, talmente diverso sarà da quello che immaginavi all’inizio della corsa.

Julio Monteiro Martins
Julio Monteiro Martins

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Foto in evidenza di Melina Piccolo, della terrazza del b&b “La Giogagia” di Modica, luogo conciliante alla riflessione e alla scrittura.

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

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