Il sedici maggio 1941, dalla lontananza dei nostri giorni e anni sappiamo ora che le restavano da vivere soltanto tre mesi e mezzo, Marina Cvetaeva scrive alla figlia nel lontano lager del Nord:
«Abbiamo una radio e ascoltiamo tutti i programmi serali. Si prendono anche stazioni lontane e io a volte mi metto ad applaudire come una pazza. Lo faccio essenzialmente quando le cose dette sono espressioni di buon senso. E’ una grande rarità e io stessa, lo sottolineo, sono un insieme folle di buon senso. E’ esattamente questo la POESIA ».
A quel tempo, ma anche molto prima, nel periodo del suo ritorno in Russia dall’emigrazione, lei aveva già scritto tutte le sue cose,( « Ho scritto tutte le mie cose. Avrei potuto certamente scriverne ancora, ma liberamente posso non »), a parte alcune eccezioni di scarso rilievo.
Come disse prima di morire un altro poeta, Michail Kuzmin, « la cosa più importante è terminata, sono rimasti soltanto i dettagli ».
Per questo si è tentati di ritenere questo frammento della lettera della Cvetaeva come una sorta di testamento non premeditato: un tratto finale tracciato nell’ultimo istante, sotto il peso schiacciante di una vita di stenti. E’ difficile valutare se occorra crederci troppo: l’unica possibilità per la Cvetaeva di scrivere e di pensare era una linea ascendente fatta di formule fulminee.
Sono formule, queste, che nascono « a proposito di », come risposta istantanea a una richiesta interna o esterna, e per questo spesso si escludono, si negano o si respingono l’un l’altra. E’ meglio, allora, analizzarle da una certa distanza, mentre si muovono, fissando un punto di convergenza o di divergenza, sottolineandone il comune e immutabile centro di gravità, verso il quale tutte le diverse posizioni si ritrovano mescolate. Inoltre, il metodo di scrittura della Cvetaeva presuppone delle soste continue e continui sovraccarichi. Il tracciare infinite linee finali sotto la spinta delle differenti circostanze che la sua vita o quella degli altri le presentava, era per lei una cosa naturale e entusiasmante: un modo per proiettarsi di slancio verso nuovi testi e situazioni.
Quando nel 1939, alla vigilia della partenza per l’Unione Sovietica, la Cvetaeva trascrive sul suo quaderno i versi di colui che da sempre era stato il suo nemico letterario, Georgij Adamovič, aggiunge sotto « versi non miei, ma in alcuni punti potrebbero esserlo », questo gesto di solidarietà poetica non cancella la frase contenuta in una lettera di tre anni prima ( « ho scoperto che non di pane aveva bisogno, ma di un posacenere pieno di mozziconi: non io, ma Adamovič e & »).
Ciò che è estraneo rimane tale, ciò che è suo rimane suo. Ogni affermazione risulta essere conclusiva: al di fuori di una logicità iniziale, riconferma la priorità di una dozzina di differenti verità celesti davanti alla linearità di una verità terrestre.
Cos’è, allora, che dobbiamo leggere come una sentenza finale: l’articolo che trabocca un freddo ( ma allo stesso tempo ribollente) disprezzo sul Rumore del tempo (Šum vremeni) (del 1928) di Mandel’štam, o la Storia di una dedica ( Istorija odnovo prosviščenija), ricordi, scritti nel 1931, dipinti con un tono di tenerezza da sorella o di madre?
Le dichiarazioni della Cvetaeva possono fungere sia da accusa che da difesa. Il suo discorso, ogni frase presa separatamente, è come un ponte sospeso, una statica costruzione aerea gettata in fretta a congiungere il punto immobile- l’autore con la materia descritta sempre in via di mutamento.
Ogni frase è un piccolo modello di un sistema più grande, un modesto testamento che può sempre acquistare di pregio. La lettera del 1941 è una delle tante.
Tuttavia, si ha il desiderio di analizzare con più attenzione questa formulazione, guardarla presso una fonte di luce: in fin dei conti, cos’è mai il buon senso di cui si parla, se non ciò che la Cvetaeva ha respinto per tutta la vita? Quella voce da lei così tenacemente disprezzata della moltitudine, della maggioranza trionfante. Tale combinazione di parole merita attenzione, poiché, evidentemente, né questa ponderata ragionevolezza, né la finezza del significato devono coincidere con il ritrito common sense dell’esistenza quotidiana, con la banale saggezza di uso comune.
Del resto, in qualche maniera, la vita e la morte di Marina Cvetaeva, nonostante la sua disperata resistenza, hanno avuto dei punti in comune. Sia nel senso di una loro rapida e definitiva trasformazione in mito letterario, uno dei più importanti per il XX secolo russo, sia in un senso più sostanziale: i momenti cruciali del destino della Cvetaeva sono risultati inevitabilmente tipici ed emblematici, portando ad un’estrema e cocente chiarezza l’incompatibilità della vita con le circostanze dell’esistenza: l’emigrazione, la realtà sovietica, quella letteraria e il suo essere donna.
Emblematici ( « il mio caso è emblematico ») non solo per il XX secolo con le sue morti al dettaglio, ma anche, per quanto ciò possa suonare esagerato, per l’esistenza umana come tale.
Partendo dalla morte ( così come nel sogno- dal momento del risveglio), la vita umana si getta verso il suo punto iniziale, assumendo così una compiutezza finale e una lucidità della struttura che solo ora si è manifestata.
Nel caso della Cvetaeva, la struttura, come concetto tenace e distruttivo del destino, è talmente evidente che si può semplicemente non vedere altro.
La prima cosa che veniamo a sapere ( « ciò che è maturo », come afferma nella sua prosa la madre su Napoleone) è la diade versi- suicidio.
Sembrerebbe una cosa normale: le biografie drammatiche emanano sempre una luce banale così da renderle adatte per un consumo di massa (Puškin-duello, Mandel’štam-morte nel lager, Brodskij- deportazione-Premio Nobel). Nel destino postumo della Cvetaeva però, il suicidio supera di gran lunga i versi, anzi ne prende il posto. Come ha scritto M.L.Gasparov : « Il lettore attuale conosce prima il mito della Cvetaeva e solo dopo, come un’appendice non necessaria, i suoi versi ».
E’ tristemente vero ed è proprio questa particolarità del caso Cvetaeva, che pur irritando molti, richiede tuttavia un’interpretazione.
In realtà, noi riceviamo nelle nostre mani due testi, che si commentano e integrano l’un l’altro, tanto più che non possono esistere separati: « l’opera » ( le raccolte liriche, i versi, i poemi, le piéces, la prosa) e « la vita », dove ciò che la stessa Cvetaeva ha scritto ( una raccolta enorme di lettere, di brogliacci, di appunti di diario) costituisce appena un terzo.
Ad altre voci (dei testimoni-contemporanei) è affidato l’onore di un’ingrata missione: quella di agire loro malgrado come fossero gli interlocutori discreti del Giobbe biblico, a turno compassionevoli o biasimevoli, pur rappresentando nella conversazione la parte dell’ordine, con una disposizione delle cose che però non è stata decisa da loro.
Fungono da superficie alla quale la Cvetaeva non ha saputo aggrapparsi; il naturale corso degli avvenimenti cui lei è stata solo un intralcio.
In altre parole, queste voci siamo noi stessi, che presupponiamo di vivere nelle condizioni createsi in questo o quel secolo. E in forza di tale parentela non possiamo non esprimere per lei la nostra compassione, come non si può non compatire Pasternak quando, parlando della morte della Cvetaeva, disse: « Persino i piatti non riusciva a lavare senza quell’atmosfera tragica dal tocco dostojevskjano ».
La sua biografia è nota a tutti, per questo mi permetto di parlarne en passant, a grandi linee, evidenziandone soltanto le cose essenziali: i punti logici, i temi irrisolti (e non risolvibili).
Come epigrafe al suo primo quaderno Dopo la Russia (Posle Rossii), la sua ultima raccolta di versi pubblicata nel 1928, quando la sua produzione lirica stava ormai se non proprio dissecandosi almeno cambiando di direzione, la Cvetaeva prese una frase di Tred’jakovskij, modificandola un po’ a suo piacimento:
« Dal fatto che il poeta è un creatore non consegue che sia un bugiardo: la menzogna è parola contro la ragione e la coscienza, mentre l’invenzione poetica è, secondo ragione, la cosa come poteva e doveva essere ».
La biografia della Cvetaeva, così com’è stato per la maggioranza di coloro che sono nati a cavallo del XIX e XX secolo, si è sviluppata essenzialmente nella logica del non dovuto, al di fuori di qualsiasi aspettativa, contro ogni qualsiasi rappresentazione del possibile.
In tali condizioni, la sopravvivenza dipendeva dalla disponibilità e dalla capacità di cambiare: abituarsi al non dovuto, vivere nel suo ritmo vertiginoso di adulazione davanti al futuro.
Il posto naturale della Cvetaeva , la cui innata bontà era come una carezza contropelo ( «una tra tutti- per tutti- contro tutti! »), mentre il cuore la predisponeva verso tutto ciò che proveniva, parlava o era vinto dalla terra ( « mi è più caro il passato-di tutto ») era tra la maggioranza dei condannati. Di tutti coloro, cioè, che non sanno o non vogliono usurpare il diritto alla parola di colui che viene dal futuro.
I suoi vicini naturali per storia non erano gli artefici ma i semplici abitanti : donne, vecchie, protagonisti della piccola storia e facili vittime della grande storia.
***
Marina Ivanovna Cvetaeva nacque a Mosca il 26 settembre (il settembre russo, secondo il vecchio calendario e come lo chiamava lei stessa) del 1892. Quel che ancora le rimaneva da vivere, lo passò immersa nella sua infanzia, attingendo da essa come da un baule dei tesori, scegliendo ciò che serviva e lasciando tutto il resto a giacere sul fondo, come un capitale non convertibile, una riserva d’oro di modelli , di risposte a tutte le domande.
L’infanzia spartana della bambina moscovita, proveniente da una famiglia di professori, con il padre che al di sopra delle teste guarda rapito il ritratto solenne della sua prima moglie, con una madre che al di sopra del pianoforte rimira la sua morte prematura, con la dacia di Tarusa e l’inverno moscovita, si poggiava su un tenore alto e sufficientemente crudele, fatto di linee parallele di divieti e bisogni repressi.
Fu però come doveva essere qualsiasi infanzia, pienamente felice, abbastanza perché « la nostalgia per il mio mondo prima dei sette anni » rimanesse per tutta la vita l’unico posto dove MC si sentisse veramente a casa, e il desiderio di erigere un monumento a questo periodo prima dei sette anni,fosse una delle principali, realizzabili e irrealizzate, libertà creative.
« Sono pronta a rinchiudermi per due anni (lo giuro) nella più completa solitudine <…> NB! con solo un cortile, dove posso passeggiare, e con le sigarette. Due anni, nel corso dei quali, mi costringerei a scrivere una cosa bellissima: la mia infanzia (prima dei sette anni- Enfances)- ecco: mi costringerei!- non posso non » ( dal taccuino del 1932).
La madre, Marija Aleksandrovna Mejn, morì quando le sorelle Cvetaev, Marina e la sorella minore Asja, avevano rispettivamente 13 e 11 anni. Con la sua morte la struttura dell’impianto familiare si inclinò del tutto. Al posto delle forzate lezioni al pianoforte arrivarono le ore di libertà, e il ritratto di Napoleone messo nella nicchia al posto dell’icona; l’imperativo materno « così deve essere », ben presto venne sostituito da quello coniato dalla figlia « ne ho il diritto ».
La cosa interessante non è tanto il disegno esteriore di questo distacco dall’infanzia, così simile in ogni epoca: alcuni ginnasi cambiati nell’arco di un anno, assenze da scuola, letture ininterrotte nella fredda soffitta, le prime amicizie letterarie, la prima storia d’amore- anch’essa profeticamente di carattere letterario. Colpisce, piuttosto, come dall’esistenza generale ( «alla moda ») si faccia strada un assortimento di preferenze ormai già superate e dal carattere intenzionalmente infantile.
Napoleone- Marija Baškirceva- Rostand- i romanzi di Lidija Čarskaja, tutti libri e eroi dei primi anni dell’infanzia, che già allora erano passati attraverso il filtro dell’appartenenza al mondo antico o a quello da fanciulla..
I cambiamenti o le fratture prodottisi nella cerchia di letture della Cvetaeva ce li saremmo aspettati agli inizi della sua vita letteraria, di cui parleremo più avanti. Ma né l’amicizia con Ellis, un poeta simbolista della cerchia di Andrej Belyj, né l’improvvisa e appassionata amicizia con Maksimiljan Vološin le impediscono di ( anzi la costringono a) difendere e sostenere il suo modo di essere: la letteratura della frase, quella di cappa e spada, alle quali ricollegava il suo concetto di heroica, quel concetto di vita-secondo-verità trasmessole dalla madre, una vita da vivere in maniera elevata.
Questo pathos ( lo scegliere e il ribadire le sue cose, in controtendenza con ciò che è accessibile a tutti e/o che è attuale) contrassegnò gli inizi del suo destino di scrittrice e, come risultò, anche la sua perenne strategia: la solitudine, l’opposizione a qualsiasi parentesi artistica, a qualsiasi ambiente letterario o quotidiano che le presentava la vita.
E per quanto la vita fosse dura come non mai, questo statico ergersi-contro divenne ben presto un scontro aperto ( o chiuso-celato per molti decenni nell’archivio della Cvetaeva), un tiro al bersaglio mobile. Questo credo fu da lei pronunciato nel 1908 in una delle lettere del periodo giovanile: « <…> contro la repubblica per Napoleone, contro Napoleone per la repubblica, contro il capitalismo in nome del socialismo…contro il socialismo. Quando sarà introdotto nella nostra vita, contro, contro, contro! »
La Cvetaeva se ne discostò solo una volta, a metà del 1920, quando il suo lavoro per un istante risultò o parve essere attuale, inserito nel contesto letterario, e non estorto da esso.
Ma tutto ciò non durò a lungo.
La conseguente conferma della sua diversità per molto tempo sembrò necessaria anche perché la cornice esteriore del suo destino personale, all’inizio, apparve alla Cvetaeva non abbastanza drammatica, eccessivamente fortunata, « troppo rosea e giovanile », così come la sua giovane freschezza, come gli occhiali lasciati una volta e per sempre, nonostante la forte miopia.
Quello che, qualche anno dopo, durante l’incontro con Andrej Belyj, diverrà per lei la parola d’ordine di un comune passato dal sapore familiare- «Voi. La figlia del Professore Cvetaeva. Io il figlio del professore Bugaev.Voi– la figlia di un professore, e io il figlio di un professore. Voi-la figlia, io-il figlio », era il sintomo di un qualcosa di tipico e per questo odiato: una signorina moscovita di buona famiglia « con continue richieste » e con le sue poesie.
I suoi sodali e le sue cose la Cvetaeva li riconosceva dall’impronta di solitudine e di estraneità; ne Il diavolo (Čërt) scrive della sorella adottiva: « lei dopo l’Istituto Ekaterinskij entrò nella scuola femminile Guérié <…>, e poi nel partito socialdemocratico, e poi come insegnante al ginnasio Kozlovskij, e poi in una scuola di danza- in generale passò tutta la sua vita ad entrare da qualche parte. Mentre il primo indizio delle favorite (del diavolo N.d.T.) < e di lei stessa.- M.C.> era il totale isolamento, sempre e da ogni luogo- estraniamento ».
La Cvetaeva entra in modo diverso, passo dopo passo distanziandosi da qualsiasi consesso sociale o comunità. 1912 « … finora mi hanno sgridato solo Gorodeckij e Gumilëv, entrambi membri di una corporazione. Se ne facessi parte io stessa, non mi sgriderebbero, ma io non ne farò parte ». 1918:
«Io sono effettivamente, fino al midollo, al di fuori di ogni ceto, professione, rango. Dietro lo Zar- gli zar, dietro ai poveri-i poveri, dietro di me- il vuoto ». 1920: « Ho nostalgia di Blok, come si ha nostalgia di qualcuno che in sogno non si è riusciti ad amare fino in fondo. Cosa c’è di più semplice? Avvicinalo: io sono quella…Promettimi pure che in cambio avrò tutto l’amore di Blok, non mi avvicinerei comunque. Sono fatta così ». 1926: « Non ho mai fatto parte di nessuna corrente letteraria e mai ne farò parte ». 1932: « Non somiglio a nessuno e nessuno mi somiglia, perciò darmi dei consigli su questo o altro è senza senso ». E il 1935, l’anno delle penultime valutazioni: «Io stessa ho scelto un mondo di non- umani- cosa sto qui a lagnarmi??? »
Il suo debutto letterario dimostra già la fermezza e il rigore di questa direzione intrapresa, da cui non deviò mai per tutta la vita: il primo libro, quasi infantile, della Cvetaeva, Album serale (Večernyj Al’bom), venne pubblicato a sue spese con una tiratura di 500 esemplari. Questo gesto ha quasi lo stesso significato adesso come allora: o un’estrema ingenuità dell’autore, o un livello estremo di sfida, il rifiuto dei consueti meccanismi della crescita letteraria, l’avversione o l’indifferenza per qualsiasi valutazione professionale. Il gesto, per quei tempi, fu radicale, in quanto rappresentò un avvenimento raro per le persone della sua cerchia di amicizie e possibilità letterarie.
Un ulteriore passo che, secondo logica, seguì a quello sopra descritto, fu il disprezzo per la letteratura, il rinchiudersi a vita privata, o meglio in una non-uscita da essa. Ancora un gesto di magistrale disprezzo.
«Sono forse un poeta, io? Io semplicemente vivo, mi rallegro, amo il mio gatto, piango, mi agghindo- e scrivo versi. Ecco Mandel’štam, ad <esempio>, ecco Čurilin, ad<esempio>, loro sono poeti. Un simile atteggiamento era contagioso: per questo tutto mi stava bene e nessuno mi prendeva considerazione. <…> Per questo non ho e non avrò mai un nome ». Nel 1923, quando scrisse questa lettera a Pasternak, il ricordo, ormai a cose fatte, veniva dipinto dalla Cvetaeva con i toni a lei ben noti dell’amarezza- ma dieci anni prima una simile posizione ( «una testa con una scheggia ») sarebbe sembrata naturale. La vita le concedeva con piacere una tale possibilità.
In quello stesso anno 1923, la Cvetaeva scrive nel suo diario: « La vita privata, cioè la mia vita nella vita ( cioè nei giorni e nei luoghi) non ha avuto fortuna. E’ una cosa che devo capire e accettare e penso che un’ esperienza durata trent’anni ( poiché non è stata sfortunata subito) sia sufficiente. Le ragioni sono molte. La prima è che io-sono io. La seconda è l’incontro precoce con una persona bella come il sole, che avrebbe dovuto essere un’amicizia ma si è conclusa con un matrimonio. (E’ semplice: un matrimonio celebrato troppo presto con una persona troppo giovane. [Nota] 1933) ». Nelle minute di Teseo (Tezej) troviamo ancora un’annotazione che fa rima con la precedente: « Il matrimonio tra due persone entrambe belle è un tormento(martirio) eroico, volontario e reciproco ».
L’incontro precoce e il precoce matrimonio che saranno determinanti per l’intero corso della vita della Cvetaeva e probabilmente per il suo esito, furono uno dei regali migliori, ma, come avviene di solito, c’era anche un rovescio della medaglia. Sergej Efron, che una Cvetaeva diciannovenne incontrò nella Koktebel’ di Vološin e che fu scelto subito da lei come marito « per l’eternità- non sulla carta », era un giovane di straordinaria bellezza e generosità. Entrambe queste caratteristiche furono da lui portate come stimmate per tutta la vita, così piena di quelle circostanze che con la bellezza e la generosità avevano ben poco a che fare.
Il modo in cui la Cvetaeva raccontava a se stessa e agli altri la loro storia comune ne metteva in risalto in sommo grado l’ineluttabilità e il fatto di essere dei predestinati.
I destini dei due ragazzi, incontratisi sulla spiaggia di Koktebel’ (la narratrice propende a considerarli ancora più piccoli di quanto non fossero in realtà: un diciassettenne e una diciottenne), si fusero insieme come la metà di un puzzle: la solitudine, l’essere già orfani, il compleanno che festeggiavano nello stesso giorno. Nella serie delle storie d’amore della Cvetaeva (nel corso del tempo saranno sempre più a senso unico e di un tipo piuttosto virtuale) è difficile non notare un involucro di energica pietà, di una sollecitudine materna (del più grande verso il più piccolo), di tutto quello che lei stessa chiamava inclinazione: «desiderata-rimpianta-come malattia! »
Riuscì ad uscire da questa logica, a quanto sembra, solo una volta: nel dialogo epistolare con Boris Pasternak, dove il discorso sin dall’inizio ebbe come tema la parità, la pari sostanza delle forze.
Ma il fascino della donna maggiore in età, che la costringeva a scegliere persone e atteggiamenti che avrebbero potuto leggersi in questa chiave, chiamando ragazzino il coetaneo Rodzevič e i più giovani (Bachrach, Gronskij, Stejger), figlioletto (o « piccolo mio »), non ebbe mai la forza di rifiutarlo. Lei stessa capiva tutto questo, come sempre in modo più chiaro e sarcastico di tutti e tirò le somme nel 1936, nell’epigrafe al ciclo di poesie Versi per l’orfano (Stichi o sirote):
Camminava per strada un bambino,
Livido e tutto tremante.
Camminava per strada una vecchia:
Ebbe pietà dell’orfano.
Il ginnasiale Sergej Efron era al primo posto di questo elenco, con un ruolo determinante, e la sua vita (la giovinezza, la tubercolosi, il recente duplice tentativo di suicidio della madre e del fratello minore), lo resero agli occhi di lei un difficile compito : un obbligo che si doveva onorare.
Nel 1912, però, il duplice tema della condanna-predestinazione, legato nel retaggio cvetaeviano al nome di Efron, è presentato solo dal suo lato diritto, quello più felice. Questo loro trionfale e giovane essere compatibili, rivela alla Cvetaeva un nuovo registro di significato ( « e io che pensavo che è stupido essere felici, perfino osceno! E’stupido e osceno pensare così- questo è il mio oggi », scrive a Vološin). Arriva il tempo dell’esultanza: di grado superlativo, di esagerata ( « cioè- in tutta la sua altezza », come scrive nel Poema della Fine (Poema konca) ) ammirazione di sé stessa e di chi la circondava.
È proprio in questo periodo che i suoi versi diventano così chiaramente cvetaeviani e la sua voce acquista una libertà definitiva: la duttilità da guttaperca di uno strumento intelligente.
Questi cambiamenti nel senso della felicità significarono molto per la Cvetaeva. Soprattutto il fatto che il suo letterale « ne ho il diritto » dei tempi dell’ infanzia, acquistò il diritto di parola e si chiamò « è cosi che bramo vivere! ». La vita e i testi sono inondati di indizi terrestri (così avrebbe dovuto chiamarsi il libro di prosa diaristica da lei pensato negli anni ’20). Dai bauli recupera i vestiti della madre e della nonna, che, decenni più tardi, riemergeranno alla superficie come regalo d’addio ne Il racconto di Sonečka ( Povesti o Sonečke); sceglie e ordina un grammofono, ristruttura la sua casa con un fanale “subacqueo” azzurro e l’uscita sul tetto. Questa particolare vita privata che intenzionalmente conduce ad estraniarsi da quella letteraria ( che non conduce a nulla), è destinata ad essere meravigliosa: congeniale ai versi, che a loro volta sono destinati a testimoniare della vita: « trascrivete con più esattezza! Non c’è nulla che non sia importante! Parlate della vostra camera: ha soffitti alti o bassi e quante finestre ci sono, e che tipo di tende, c’è un tappeto e che genere di fiori? ..»
Qui, come già nel quasi diario Album serale, è lampante ciò che impedisce alla Cvetaeva di superare i limiti della sua biografia: la tenace volontà che ci costringe a cercare le caratteristiche della presenza dell’autore al di sopra (o trasversalmente) dei/ai testi.
Quello che, evidentemente, aveva in mente fin dall’inizio, qualcosa tipo reality show con decorazioni naturali, iniziò ad assumere un volume reale (saturo di vera vita).
Con gli anni, l’azione cominciò a ricordare un processo giudiziario in diretta, alla luce della coscienza, dove l’autore è presente a turno ora sul banco degli imputati ora su quello della pubblica accusa. Ma gli iniziali, felici anni cvetaeviani, le diedero la breve possibilità di concentrarsi sul mondo esterno, tra tutte le possibilità scegliendo subito la totalità.
Nella prosa memorialistica Una parola viva su un uomo vivo ( Živoe o živom), dedicata alla memoria di Vološin, la Cvetaeva ricorda i loro sogni sulle comuni mistificazioni letterarie, non realizzati, come dice lei stessa, solo per la sua onestà tedesca, « per la deleteria superbia che tutto ciò che scrivo lo sottoscrivo ».
« Marina! Nuoci a te stessa in modo incredibile. In te c’è materiale per dieci poeti, e tutti meravigliosi!… Non vorresti ( ) pubblicare tutti i tuoi versi sulla Russia a nome di qualcuno, ad esempio Petuchov?<…..> E poi ( quando si è del tutto sazi) <…..> ci saranno i gemelli, i gemelli poetici, diciamo i Krjukov, fratello e sorella. Noi creeremo ciò che ancora non c’è mai stato, cioè due gemelli geniali. Essi scriveranno i tuoi versi romantici.
– Maks!- cosa mi rimarrà dunque?
– Cosa ti rimarrà? Tutto, Marina. Tutto ciò che potrai essere! »
Un dialogo che vale la pena ricordare. All’insegna di questa seduzione (o di questa scelta), essere contemporaneamente dieci poeti insieme (ma mantenendo per sé il diritto alla firma), l’opera della Cvetaeva sopravviverà ancora per molti anni. Le metafore romantiche dei tempi della giovinezza «Bramo subito tutte le strade! », si realizzano qui con esattezza letterale, e questo non solo nel processo della scrittura, al momento della scelta di queste o quelle maschere linguistiche, importanti per la Cvetaeva « di prima dell’emigrazione ».
E’ secondo questo schema ( “vološinskiano”) che verrà creata una parte delle raccolte di versi della Cvetaeva quando lei era ancora in vita: il ciclo dei versi zigani (Verste II ( Versty II ) ), quello dei versi «bianchi» o dei volontari (L’accampamento dei cigni (Lebedinyj stan) ), quello dei versi «romantici» (Psiche ( Psicheja), le pièces ) e dei versi «russi»/ (Vicoletti ( Pereuločk), , Lo zar-fanciulla (Car’-Devica) ).
E’ caratteristico che nella cronologia reale (interiore) dell’opera della Cvetaeva , le cui tappe sono descritte nella lettera del 1935 a Jurij Ivask, una gran parte di questi libri non trovi una esatta collocazione: forse perché erano fin troppi i problemi esteriori che avevano suscitato la loro pubblicazione. O forse perché tutti i problemi che la Cvetaeva cercava di risolvere, già alla metà del 1910, avevano raggiunto un’ ampiezza maggiore ed erano esclusivamente di carattere letterario.
In particolare, la sua logica di allora ( «la brama di tutte le strade », il desiderio di ogni cosa e di riuscire a sopravvivere per tutti) aveva il suo quotidiano rovescio della medaglia, che solo in parte si riferiva alla letteratura, ma che era essenziale nella vita della famiglia della Cvetaeva.
« La sola mia certezza consiste nel mio diritto categorico a tutto, droit de seigneur. Se la vita nega tutto ciò, non sarò io ad oppormi, ma sarò solo profondamente delusa e non muoverò un dito per la ripugnanza », scrive la Cvetaeva alla cognata nell’autunno di guerra del 1916.
L’accecante e lampante solarità del suo stato d’animo e della sua esistenza di allora è legata al fatto che a nessuna delle persone a lei vicine venne mai in mente di confutare questo diritto- a –tutto, compresi i tentativi di parlare con varie voci e di vivere più vite simultaneamente.
La sensazione di una lieve dissolvenza, di surriscaldamento, come avviene d’estate quando l’aria concentratasi sull’asfalto inizia a diffondersi come nebbia, si ha leggendo la corrispondenza familiare degli Efron: la vita maldestra, ma pur sempre domestica, con la cura della piccola Alja, i pettegolezzi del mondo letterario, le trattative per la legna e le njanje, si affievolisce in modo regolare, permettendo di notare l’oggetto di turno dell’interesse cvetaeviano.
Anzi, sembra che gli interessi siano più di uno, (Sofja Parnok, Mandel’štam, Tichon Čurilin, Petr Efron, Nikodim Plucer-Sarna), e in genere la loro presenza non crea alcuna impressione di «lussuria omerica». I loro nomi balenano nella corrispondenza della Cvetaeva e Efron con le sorelle di quest’ultimo, come inevitabili circostanze di tempo.
Il fatto che su un simile sfondo Efron partisse inizialmente per il fronte come infermiere e in seguito per il servizio militare, si può spiegare con il suo reiterato e passivo spirito di sacrificio, anche se in questa storia si avverte un impercettibile sentore di subitanea decomposizione.
La Rivoluzione trasformò l’indicibile possibilità della separazione in una cosa reale, imposta dall’esterno, la rese di un’irreparabilità granitica con la quale non era possibile scendere a patti.
Per alcuni anni la Cvetaeva e Efron, che stava combattendo sul Don nell’Armata volontaria di Kornilov, non seppero nulla l’uno dell’altro e per questo si aggrapparono con più forza al ricordo di quel loro essere compatibili.
Il fatto che entrambi sopravvissero e riuscissero ad incontrarsi di nuovo, rese ancora più salda la loro unione, che fu, in egual misura, sacra e fatale.
***
Le condizioni della vita moscovita della Cvetaeva durante i quattro anni dopo la rivoluzione (la poetessa lasciò la Russia l’11 maggio del 1922), devono essere considerate come tipiche, solo per il semplice fatto che a condividerle erano tutta Mosca e l’intera Russia.
Anche la sua reazione a queste condizioni fu ugualmente tipica: dopo essere rimasta nella deserta casa moscovita, senza soldi ( il capitale lasciato da sua madre, con gli interessi del quale vivevano le sorelle Cvetaev, venne requisito nel 1918), senza aiuti regolari (la domestica sparì così come i soldi), con due bambini piccoli, la Cvetaeva cercò di continuare a vivere come prima.
La piega che prese questo tipo di vita avrebbe potuto spaventare lei stessa, se non fosse stata abituata a inserire la sua biografia nell’elenco dei grandi esempi letterari.
Tutto quello che le accadde nei primi inverni della rivoluzione fu incline a trattarlo come fosse un’ Avventura, come i capitoli drammatici dei romanzi di Hugo: la crescente povertà, l’appartamento che ben presto si trasformò in un’armatura personale, i tentativi di svendere per i villaggi quello che in realtà era minutaglia di poco valore, l’estrema precarietà della vita quotidiana e, nonostante tutto, l’imperante continuità della vita quotidiana.
La quantità delle cose da lei scritte in questi anni è sbalorditiva. Tanto più che così tanto non aveva ancora mai scritto: 87 testi poetici nel 1917, 152 nel 1918, 100 nel 1919, 111 nel 1921, 89 nel 1922.
Abbiamo di fronte una macchina lirica, a pieno regime ( stacanovista, come sarà chiamata più tardi), che sfornava incredibili quantità di prodotti di qualità, che lavorava indipendentemente dalle circostanze esterne o addirittura in modo inversamente proporzionale: quanto più produce tanto peggio sarà per colui che l’ha messa in funzione.
E’ la stessa macchina che si getta in questo periodo nei taccuini, elabora la materia prima come vita spirituale e intima. Per quanto la somma virtù della paternità dell’opera sia l’esattezza, qui conduce irrimediabilmente al massimalismo estetico dell’anima, che non anela a interagire con ciò che nel dato momento fa il corpo, ma che lo spinge al punto da renderlo l’oggetto per un esperimento e meno male che non arriva a stenderlo su un tavolo anatomico.
L’estrema scrupolosità d’analisi, scevra da ogni compassione, la crudezza delle deduzioni ottenute rimangono sul quaderno, finché il cuore e il corpo fanno ciò che vogliono, ubbidendo a qualsiasi loro capriccio, e questo significa che viene fornito al quaderno del nuovo materiale.
Nella nuova vita della Cvetaeva sono presenti tre costanti: il lavoro autonomo e indipendente della macchina poetica; l’ininterrotta successione di legami quasi casuali, da annoverarsi al capriccio o a temporanei ghiribizzi, ma nella sostanza vitali per il mantenimento della macchina in regime di lavoro; e l’odiata necessità di sopravvivere «nei giorni», con la quale però la Cvetaeva era sempre meno capace di fare i conti.
La grande quantità di soggetti d’amore da lei elaborati in questi quattro anni, il miscuglio di esistenze umane che cercò di utilizzare come comparse in un proprio dramma personale, le tornarono più tardi alla mente come un brutto sogno.
Molte delle cose dette sopra si possono spiegare soltanto avendo presente la necessità impellente della Cvetaeva di guardare alla sua quotidianità come a un testo non scritto da lei ( non solamente da lei), come l’inconscia considerazione che secondo le leggi della costruzione della trama ogni seccatura prima o poi ha una fine, e in conclusione tutto si deve raddrizzare da solo, senza la sua diretta partecipazione ma obbedendo al senso dell’autore per la misura e la giustizia.
Come ben sappiamo tutto questo non accadde né allora né mai: una delle lezioni che la Cvetaeva imparò a proprie spese e che fu pronta a condividere con gli altri, « Nella vita <…..> nie-n-te è possibile, -nichts-rien ».
Nel novembre del 1919, sedotta dalle voci su un meraviglioso orfanotrofio di stato per bambini, dove la cioccolata si sprecava ( ed evidentemente, sperando in un po’ di respiro e di tempo libero da dedicare al quaderno, al cuore e all’anima), vi porta le sue due figlie, Ariadna di sette anni e Irina di due.
Ritorna il tema dell’Avventura, « e va la grande avventura della tua infanzia »»: con queste parole la Cvetaeva cerca di rendere più facile la separazione per sé e la figlia maggiore.
Nell’orfanotrofio fa freddo e le due bambine si ammalano, ma la madre chissà perché ritarda a riportarle a casa. E questo fino alla fine di gennaio, quando lo stato di salute di Alja si aggrava e occorre portarla via.
La piccola Irina rimane all’orfanotrofio e muore il due o il tre (secondo il vecchio calendario) febbraio. Viene sepolta da qualche parte in una fossa comune e la Cvetaeva non partecipa alle esequie.
Le conseguenze di questa catastrofe ( di cui la Cvetaeva non percepì subito la piena e estrema gravità), che per lei rimase per sempre sommersa ( da non pronunciarsi mai ad alta voce, o già in versione tagliata se destinata « ad estranei »), sono incalcolabili.
La quantità che lei stessa permette di far arrivare fino al quaderno è chiaramente insufficiente ( in particolare se si raffronta con il grado di elaborazione di altri soggetti, molto più secondari).
Siamo di fronte a una non comprensione e a un sordo sconcerto: perché è successo questo? Perché questa bambina è venuta al mondo?
Irina con una camicetta sporca, che non serve a nessuno, è il ricordo ulceroso del fallimento dell’essenza di madre e di donna.
Non avendo saputo amare una ordinaria figlia minore, concepita in modo diverso dalla bambina-prodigio Alja, e avendola portata al di fuori dei limiti dell’esistenza personale, coscientemente o incoscientemente (la seconda scelta è la peggiore) avendo scelto una delle due (la possibilità di una tale scelta sarà affrontata più tardi ne La favola della Madre (Skazka o Materi) ) , Marina risultò essere « un assassina di bambini di fronte al tribunale » della propria coscienza, e per la prima volta di fronte a se stessa aveva pienamente torto.
Cosa accadde ancora? Una brusca svolta esistenziale, sia interiore che esteriore. Con tutte le sue forze spirituali la Cvetaeva si dedica a Efron, come se fosse scampato da una casa in fiamme o da una nave che sta affondando, poiché nelle qualità della sua onestà morale lei non dubitava. Nel loro rapporto è proprio a lui che viene assegnato il ruolo di giusto, una bussola etica che indica il cammino più sicuro.
E’ sostanziale anche il fatto che nei suo versi e ricordi l’immagine dell’uomo diventi sempre più stilizzata : il Cigno, il Combattente, San Giorgio-volontario. Ma la certezza che nella nera mezzanotte, per un ultimo aiuto è possibile rivolgersi solo a lui , viene da lontano: i versi citati sono del 1916.
Ora la Cvetaeva non sa neanche se Efron sia vivo, e quello che è pronta a promettere a lui e a se stessa, è una vera e propria fiaba, d’importanza vitale: lei vorrebbe partorirgli un bogatyr’.
« Se Voi siete vivo, io sono salva. <…..> Avremo un figlio, lo so, e sarà un meraviglioso eroico figlio, poiché noi stessi siamo degli eroi ».
L’improvviso e disperato sogno del figlio è tra le prime reazioni alla morte di Irina. Forse la vide come una chance simbolica per riportare indietro questa morte, ri-elaborarla, meritarla, diventare una vera ( « giusta » ) madre, con i pannolini al posto dei versi.
Quando venne l’ora riuscì ad esserlo di nuovo, e persino in maniera eccessiva: la sua terza, appassionata e pesante maternità (potremmo definirla conclusiva), fu esattamente questo: un lavoro estenuante, un servizio quotidiano, la fonte di centinaia di ansie e paure, la più importante delle quali fu forse l’atavica paura di non riuscire a farcela ancora una volta.
Nel 1921 la Cvetaeva viene a sapere che Efron è vivo e che il loro incontro non è più solo un sogno. Tutto ciò agisce su di lei come la cancellazione della condanna. Nel lasciare la Russia, la chiude a chiave dietro di sé, la lascia alle sue spalle così come la memoria personale sul passato, in nome di una nuova vita più dritta. I suoi versi, scritti all’estero, usciranno nel libro dal titolo Dopo la Russia.
***
I versi Mestiere (Remesla), scritti a Mosca tra il 1921 e il 1922, e pubblicati a Berlino nel 1923, presentano già un brusco cambiamento di scrittura. Sono versi che si cantano, come nella fiaba russa, con una voce nuova, più temprata. Non vuol dire però che il « vecchio stile » smise di piacerle: nel quaderno del 1929 Marina ricorda con parole affettuose l’anno 1920, « quando già scrivevo bene!»
Questa sua voglia di cambiare non riguardava la maniera, ma il destino: i nuovi versi negano
( scuotono) il vecchio modo di pensare e di vivere.
La molteplicità della maschere linguistiche, la spuma verbale, l’insolita e ostentata ogni-possibilità della lirica cvetaeviana subiscono un repentino calo.
Al posto di dieci poeti (nelle lettere indica un altro numero- il sette) ne subentra solo e soltanto uno.
Il modo di percepire, appreso dalla Cvetaeva nei versi giovanili, lo sguardo che rendeva roseo ciò che contemplava, l’oggetto prescelto che aumentava sempre più di dimensioni: tutto ciò viene sostituito da altro.
Il grado di incremento è lo stesso, ma la luce è quanto di più impietosa esista: davanti a noi c’è l’occhio a raggi x, sempre vigile e perennemente aperto, di un sapere crudele e lacerato su se stessa e il mondo, che penetra la superficie alla ricerca della struttura.
La critica contemporanea accolse questo cambiamento di rotta della Cvetaeva come era da aspettarsi: con una levata di scudi.
« Mancano totalmente quadri vivi e immagini chiare, il mondo visibile e sensibile è come se sparisse e noi ci troviamo immersi in qualcosa di immateriale e quasi senza forma » ,- scrive Evgenij Znosko- Borovskij su « Volja Rossii » a proposito di Mestiere (coscientemente scelgo una delle recensioni più ordinarie, di quelle che più direttamente e semplicemente recepiscono quello che sta avvenendo).
La svolta- rivoluzione vissuta dal meccanismo artistico della Cvetaeva divenne definitiva, mentre la posizione da lei scelta, di vedere ogni cosa con gli ultimi occhi, alla luce di un giudizio universale e di una postuma fermezza etica, acquisì una definitiva immobilità.
Una tale posizione è estremamente imbarazzante sia per l’autore, sia per i suoi lettori: è una particolarità che ancora adesso, per quanto la riguarda, è di grande attualità.
Immaginiamo il classico attaccabrighe, un uomo sgradevole che in una autobus affollato si lamenta a voce alta del pigia pigia, che mentre sta in fila si lagna della sua lunghezza e che inveisce contro il sole perché picchia troppo forte. Questo suo comportamento perentorio non suscita simpatia, al contrario appare privo di tatto e di fondamento.
In cosa si differenzia dalla maggioranza silenziosa? Per questo suo sapere, genuino o mendace, di ciò che appare « come cosa che così dovrebbe essere ».
La certezza nel suo diritto insito in questo suo « come deve essere ». La decisione di rendere pubblica l’ingiustizia. Quello che per noi è una sua disgrazia o una colpa, per quest’uomo è invece una somma virtù: è il rifiuto di adattarsi alle circostanze, la nefasta impossibilità di abituarsi all’ingiustizia, la fede in un registro dei reclami, « nell’ Ultimo giudizio della parola ».
L’ostilità che la Cvetaeva suscita in molti è dello stesso tipo.
Tutto ciò è facile da capire se rimane nell’ambito di un aneddoto: «guarda qua,come siamo teneri! »
All’inizio del secolo scorso, la richiesta di condizioni particolari e di una scala di valori etici creata ex novo, rappresentava per gli artisti moneta corrente: ai poeti, come scrisse l’Achmatova, non si addicono in genere i peccati.
In questo senso, il caso della Cvetaeva, che non sapeva e non desiderava affrontare il peso dei giorni che incombeva su di lei, diviene generalizzato e indicativo. Lei è un soldato dell’esercito, rimasto ignoto; alle sue spalle ci sono centinaia, migliaia di uomini che non sanno adattarsi alla nuova realtà e non hanno abbastanza voce affinché il loro « no » venga ascoltato.
Non ci resta, quindi, che fare i conti con la storia, scritta da chi riuscì a farcela: chi festeggiò l’arrivo del nuovo, come Nina Berberova; chi ritenne necessario essere come tutti e d’accordo con lo stato delle cose, come Pasternak; chi scelse un posto in disparte e visse abbastanza a lungo per trasformarlo in un posto di forza, come l’Achmatova.
Ma le folle, precipitate nei buchi dei tempi ultranuovi non hanno né diritto di parola né a un difensore. Marina Cvetaeva, contro la sua stessa volontà, divenne come loro e per tutta la vita ribadì il carattere eccezionale del suo caso personale, fino a renderlo banalmente comune.
Per questo il suo destino è stato reso così eccitante dall’interesse postumo dei lettori, mentre i discorsi su di lei si svolgono inevitabilmente con modalità di scambio di giudizi tra amici.
Ogni tortuoso passo biografico di Pasternak, Kuzmin, Charms, mantiene comunque il lettore a debita distanza, rimanendo pienamente un affare personale dell’autore.
Quando si tratta della Cvetaeva, invece, parliamo di noi stessi, e non soltanto perché la sua vita porta il marchio di quell’atavica paura, della cui esistenza veniamo a sapere attraverso i più foschi timori personali.
La sua storia è un capitolo importante del libro invisibile dell’esperienza collettiva e, a differenza di altri libri, qui riceviamo un’ informazione di prima mano.
In questa cronaca familiare è tutto documentato nel modo più dettagliato: il decorso (e la fine) di questa vita può essere ricostruito secondo i giorni e le settimane, ogni moto dell’anima è fissato e studiato e nelle lettere, come nei diari, è riportato un elenco esatto delle disgrazie e delle offese.
E qui bisogna ricordare ancora una volta il meccanismo del reality show. Nonostante in questo caso, il finale sia già noto, ne siamo ugualmente catturati come se il discorso riguardasse i nostri stessi destini.
Non si tratta però del conflitto ( sempre reale e sempre fittizio) tra l’eccezione e la regola, tra il poeta e la folla, ma è semplicemente ciò di cui parla e su cui insiste la Cvetaeva, e il poeta ( come sofferente eccezione di ogni regola) risulta essere ognuno, non importa da che tipo di fitta folla sia spuntato fuori.
Questa voce è la voce infantile di un puro abbandono divino, di un’ultima disperazione, di un diritto calpestato per sempre, è un cenno fatto ad ognuno, poiché egli è un nostro sodale.
Su questo sfondo, dove ogni uomo è un Giobbe che presenta a Dio il suo conto personale, lui parla con la voce della Cvetaeva. E questo discorso offende sempre l’immaginazione e l’udito, come l’urlo alla grande nostalgia in Autunno di Baratynskij.
Rimanere col viso rivolto alla parete della propria camera della morte, è una cosa abbastanza straziante.
E’ più naturale preferire la poesia, che ci aiuta a voltare la testa da un’altra parte, anzi ancora meglio, a dimenticare l’esistenza della camera.
Ci sono autori che ci invitano a guardare dalla finestra ( miei cari, quale millennio è adesso nel nostro cortile?) o a esaminare i quadri animati.
La Cvetaeva è di altro tipo: è tra quelli che ci presenta la memoria mortale e null’altro.
E non sono molti come lei, per questo la sua testimonianza vale tanto oro quanto pesa.
***
L’emigrazione le fece capire la necessità, per la prima volta nella vita, di diventare un letterato di professione, cioè di procurarsi il pane con il lavoro letterario.
Se prima esisteva al di fuori di elenchi e contesti, pubblicando e non pubblicando secondo la sua volontà,ora è costretta a inserirsi in circostanze già accettate da tutti gli altri, a rendere il suo regime innato di non partecipazione e non allineamento da esteriore a interiore, ma non per questo meno evidente a tutti e ad ognuno.
La metà degli anni 1920 è il momento in cui sembra tutto riuscirle bene e Marina è uno degli autori che, rispetto ai tempi, è in una posizione di forza.
Per un breve periodo si ritrova a essere, senza volerlo, quello che aveva sempre cercato di evitare: la portavoce delle aspirazioni dell’epoca, il simbolo di una determinata generazione, più esattamente uno dei due simboli, perché il secondo fu Boris Pasternak.
Entrambi rappresentavano (è proprio in questi anni che le possibilità e il diapason di quella loro consonanza sono da entrambi così felicemente assimilati, come una cosciente affinità interiore) nella coscienza dei lettori l’attualità più fresca: una parola e un concetto così profondamente estranei alla Cvetaeva, a cui interessavano soltanto le cose che non invecchiano mai, oppure quelle invecchiate una volta per tutte.
Sia la Cvetaeva che Pasternak, nonostante i loro libri fossero usciti prima della rivoluzione, entrarono nel più ampio quotidiano dei lettori solo all’inizio degli anni venti. La loro poesia di stile nuovo, non era intorbidita dall’impegno politico, come fu nel caso di Majakovskij, e non sembrò ai contemporanei arcaica o da museo, come fu con i versi di Mandel’štam, anzi offriva la possibilità di una nuova letteratura non sovietica, non d’emigrazione, diversa: che ripuliva la gola e la vista.
Ma non durò a lungo.
A misura che la poetica cvetaeviana mutava e per il (relativo) conservatorismo e la comprensione generale si faceva più ostica, il carattere di novità acquisì agli occhi della cerchia letteraria una chiara tinta negativa. E quella stessa cerchia diventava sempre più rarefatta e la possibilità di vendere manoscritti sempre meno reale.
Uno dei punti di divergenza della Cvetaeva con i contemporanei fu una questione di principio, e cioè il rapporto utilitaristico e persino indulgente verso la lingua ( assai raro per la poesia di allora con il suo culto della qualità, ma anche di quella attuale, che per molti versi vive tra le coordinate stabilite da Brodskij, dove la lingua è una macchina che si autoregola e di propria volontà recluta autori per svolgere un determinato tipo di lavoro), considerata come uno strumento docile o una parte del proprio corpo con la quale non bisogna essere troppo cerimoniosi.
La lingua viene utilizzata o superata come materiale: è l’involucro esterno dell’unica vera essenza.
Trascurare l’esteriorità in nome del significato era per la Cvetaeva così naturale, che immancabilmente venne messa in imbarazzo dagli articoli critici in cui si parlava dei suoi versi come di giocattoli, costruiti in questo o quello stile, descrivendone solo la superficie senza arrivare al problema di fondo.
L’omertà extralinguistica del significato spiega gli sforzi profusi dalla Cvetaeva per far sì che i suoi versi potessero essere letti in francese.
Il lavoro titanico rappresentato dalla traduzione del poema Il prode (Molodec), che non suscitò alcuna eco, fu il tentativo di dare nuova vita a un’opera in una delle sue due lingue madri ( « il russo è più lingua madre del tedesco/Di tutte mi è più congeniale la lingua degli angeli »).
Nella letteratura dell’emigrazione ossessionata dall’idea di conservazione della lingua russa come un salvacondotto collettivo, una Russia nello zaino da viaggio, questa posizione ( « Il poeta non possiede una lingua madre. Scrivere versi significa trasferire le cose da un posto all’altro ») era singolare e profondamente estranea.
Il rapporto della Cvetaeva con Pasternak è la principale scommessa per la vita di questo periodo.
Il loro impegno interiore di « vivere l’uno fino all’altro » fu l’alveo lungo il quale fluì per anni il pensiero cvetaeviano, affondando gli scogli dei romanzi e delle passioni inevitabili, che per la loro piccineria e limitatezza confermavano l’esattezza della grande scelta.
Ma quanto si rivelò definitiva anche questa scelta!
La loro corrispondenza, iniziata nel 1922 con toni subito alti, sin dall’inizio doveva mostrarsi molto più di una qualsiasi amicizia letteraria: un incontro tra pari ( Sigfrido e Brunilde, Achille e Pentesilea), una forza di cose che sono predestinate l’una all’altra e che congiunte,schiena contro schiena, si ergono a sfidare il mondo sul masso della parola « noi ».
Nella mitologia privata della Cvetaeva, dove la sorgente della poesia è impersonale e transpersonale, tutti i poeti ( a partire da se stessa fino a Orfeo) formano una sorta di casta di traduttori- traghettatori dalla lingua dell’angelo a quella acquisita dalla nascita.
Per dirla con le parole di Rilke, che avrebbe potuto considerare come sue « un poeta vive solo.E talvolta chi lo porta , va incontro a colui che lo ha portato ».
L’incontro con chi le era prossimo, nella sua coscienza divenne un avvenimento, atto a giustificare la vita intera e a spiegare tutti i precedenti insuccessi e le delusioni come una non coincidenza di specie, dell’intera umanità con la sua persona.
Anzi, solo l’incontro e la parità di un tale ordine superiore avrebbe potuto rompere il corso temporale prestabilito del suo destino, rendere innocuo il mito imperante sull’eterno legame-vincolo con Efron.
La comparsa e la presenza di Pasternak nei « giorni » cvetaeviani ( « in piena onestà di cuore, il mio primo poeta per la vita ») è il sentimento riconosciuto da entrambi dell’affinità su ogni fronte: un regalo di valore umano e di quella stessa diversa specie, che da solo richiamava alla vita il contesto di affettuosità, il sogno di una piena combinazione-unione.
Alla luce di questa unione, ora cercando di affrettare ora rimandando l’incontro futuro, entrambi vissero fino all’inizio degli anni 1930, quando il nuovo matrimonio di Pasternak, significò per la Cvetaeva privare di senso il sogno della loro reciproca consacrazione ( « Allora la mia rima organica in questo mondo mi rifiuto di cercare. Ma nell’altro mondo tutto è rima! » scrisse al poeta).
La scelta-svolta di Pasternak per le masse (che la Cvetaeva non aveva notato prima del «riuscirai ad amare i kolchoz » che il poeta le aveva rivolto nel 1935 a Parigi, quando si avverò il tanto atteso incontro che la deluse profondamente) fu un ulteriore e tremendo rifiuto, non solo di lei, ma anche della loro diretta predestinazione.
« Non capisci nulla, Boris (o liana che hai dimenticato l’Africa!), tu sei Orfeo che ha divorato le fiere: ma sono loro che ti divoreranno ».
L’Africa-lirica, « dimenticata » da Pasternak in nome della moltitudine senza volto e della bellezza– rappresentante di questa moltitudine, la lasciò in completa balia di un’eredità che non serviva più a nessuno e che con nessuno poteva condividere.
La lirica della Cvetaeva a metà degli anni 1930 era pienamente superflua anche per l’ambiente dei lettori: se negli anni 1921-1925 riuscì a pubblicare dieci libri poetici, la raccolta di versi che seguì uscì in stampa nel 1928 con molta fatica e fu l’ultimo libro da lei pubblicato ancora in vita.
In seguito pubblicare fu sempre più difficile : la gran parte, se non la maggiore, delle cose scritte nell’emigrazione rimase non letta. Dopo la pubblicazione dell’articolo Un poeta a proposito della critica, così drasticamente lontano dalle idee di allora sull’etichetta letteraria, le simpatie della comunità letteraria non furono dalla parte della Cvetaeva. Col passare del tempo il numero delle case editrici pronte a collaborare con lei si ridusse sempre di più e gli ambiti di questa collaborazione divennero sempre più angusti.
Non erano nuove poesie che chiedevano, ma poesie « comprensibili al lettore », cioè quelle che per l’autore erano già vecchie.
La prosa ( scritta « per guadagnare: la lettura a voce alta, cioè fortemente articolata , e in modo esplicativo <…..> per bambini di un anno ») veniva pubblicata ma malvolentieri e con tagli che rovinavano in maniera irrimediabile il pensiero dell’autore.
In alcuni casi la Cvetaeva , per motivi diversi, dovette rifiutare la pubblicazione e la cosa significò per lei non solo l’impossibilità di essere ascoltata, ma anche una disgrazia che colpiva direttamente la sua vita quotidiana: la perdita dei mezzi di sostentamento.
Nella situazione di estrema indigenza in cui viveva la famiglia Efron, questa impossibilità di adattarsi alla vita assunse un carattere tragico: la Cvetaeva non era idonea a lavori di altro tipo, o più semplicemente non poteva fare nient’altro ( tanto più che nel suo patrimonio verbale poteva -lei sapeva benissimo tutto questo). « Io non sono un parassita perché lavoro e non voglio nient’altro che lavorare: ma voglio fare il mio lavoro e non uno qualsiasi. Costringermi a fare un lavoro estraneo è senza senso, poiché non sono capace di fare altro che il mio lavoro e quello più sporco ( trascinare pesi, ecc.). Oppure lo farò in modo tale, che mi cacceranno », – scrive nel taccuino nel 1932.
In un tale situazione, sembrava ai suo cari, e a volte anche a lei stessa, che il posto adatto a lei, l’ambiente dove avrebbe potuto risuonare in tutta la sua forza (potenza) sarebbe dovuta essere la Russia Sovietica con la sua popolazione multimilionaria di nuovi lettori.
Per Sergej Efron verso la metà degli anni 1930 questa scelta si era già compiuta.
Il tema di un possibile ritorno in Russia incombe come un nube ( « vivo sotto la nube- quella della partenza ») sulla corrispondenza della Cvetaeva degli ultimi anni.
Sembra come se tutto la scacciasse e la spingesse via: la sovieticità crescente del marito e della figlia legati strettamente con la parigina « Unione per il rimpatrio », un’organizzazione diretta e finanziata dalla GPU-NKVD, la sensazione « che la forza è là », come scrisse nella lettera-saluto a Majakovskij; il carattere aleatorio della propria vita, trasformatasi improvvisamente in un vuoto.
Nonostante tutto ciò, la Cvetaeva si trova di nuovo in una situazione di opposizione, questa volta non soltanto di fronte alla logica della vita, ma anche di fronte alla propria famiglia: a suo marito, a sua figlia, e al figlio che stava crescendo sotto i suo occhi.
« ..il terrore di un Mur sovietico non più bambino, soddisfatto di sé, con la bocca piena dei luoghi comuni degli slogan », era solo una parvenza della sua mai superata paura del regno che la costringeva ad amare la maggioranza vincente: e di questa impossibilità di essere là un’unità ne aveva un’estrema e lucida consapevolezza. « Mi interessa tutto ciò che interessava Pascal, e non mi interessa tutto ciò che per lui non era interessante. Non è colpa mia se sono così spontanea, non mi sarebbe costato niente alla domanda «Vi interessa il futuro del popolo? »- rispondere : « Ma certamente ». E invece ho risposto: «No, …. in verità non mi interessa il futuro di niente e di nessuno, che per me è solo un posto vuoto ( e minaccioso !) »
Inizialmente decise di non andare ( la cosa più importante – per il bene di Mur », scrive a Pasternak nel 1933) in quel vacuo posto (nel paese del futuro vincitore); poi « meccanicamente, passivamente, con la volontà delle cose », inizia ad avvicinarsi sempre di più al limite estremo.
Nel 1937, dopo la partenza della figlia e l’improvvisa e segreta fuga del marito, coinvolto in un omicidio di stampo politico commesso all’estero dall’NKVD, comincia a sentirsi mancare il terreno sotto i piedi.
Vivacchia a Parigi sotto la sorveglianza, e forse con la sovvenzione dell’NKVD, ordinando febbrilmente l’archivio, cercando di sistemare presso conoscenti quei manoscritti che notoriamente non sarebbero passati al vaglio della censura sovietica ( « una metà non passeranno! »), in realtà occupandosi del suo postmortem, con un lavoro esteriore di archivista e commentatore.
La partenza, dettata dalle circostanze prodottesi, non è minimamente influenzata dalla volontà personale. Marina parte « come un cane », senza resistere, semplicemente.
Il 16 giugno del 1939, a Le Havre, la Cvetaeva sale sulla nave « Marija Ul’janova » che la porterà con il figlio a Leningrado.
« Mi torcerò il collo a furia di guardare all’indietro: verso di Voi, il Vostro mondo, il nostro mondo…»- scrive a Anna Teškova il sette di giugno, qualche giorno prima dell’ultima lettera di addio.
Questo volgersi all’indietro, ormai decisivo e finale, verso quel mondo e verso se stessa in esso, come risolutiva resa dei conti, è per la Cvetaeva l’ultimo compito molto prima che la minaccia della partenza diventasse reale. I quaderni e le lettere degli anni trenta, di volta in volta, analizzano quell’enigma che fino alla fine non smetterà di tormentarla: la ricorrente sventura della sua vita terrena/ di donna.
Una parte dei suo scritti è in lingua francese: in quella lingua, cioè, dei dialoghi con se stessa, quella lingua che non presuppone altro lettore e interlocutore. Enumerando tutto quello che le era stato donato ( un nome, un aspetto esteriore, un dono), la Cvetaeva tenta, ma senza esito, di risolvere quell’equazione di cui non verrà mai a capo.
«Si avvicinano, terrorizzano, si nascondono. <…> La scomparsa è totale e definitiva. Lui sparirà senza traccia. Io resterò da sola.
Ed è sempre la stessa identica storia.
Mi abbandoneranno tutti. Senza una parola, senza un « arrivederci ». Sono venuti una volta e non verranno mai più. Hanno scritto, e non scriveranno mai più.
E sono qui, in un silenzio infinito, al quale non riuscirò ad abituarmi. Sono ferita a morte ( o meglio, toccata nel vivo, che è poi la stessa cosa), non sono mai stata capace di capire nulla, né perché, né per cosa ».
L’immane silenzio dell’abbandono, lo stupore della colpevolezza, sono gli stessi che troviamo nella breve annotazione del 1920: « Perché nessuno mi ama? Sono forse io la colpevole di tutto ciò? »
Il lungo e annoso addio, iniziato nella giovinezza, con la prospettiva, con quelle auspicabili possibilità che la giovinezza promette all’uomo, diventano definitive e umilianti per il loro carattere forzoso.
Mentre la prospettiva diretta risulta impossibile, si fa strada quella rovesciata.
L’unica casa rimasta alla Cvetaeva, che non riconosceva come tale ciò che le offriva il presente e guardava all’amato futuro con un sospetto giustificato, fu l’immutato e immutabile tempo della staticità perenne, in cui si gettò come se fosse tornata al focolare .
La nostalgia per il passato, che l’accompagnò per tutta la vita, negli ultimi anni rappresentò per lei un rifugio.
Il passato diventò non solo sinonimo di solitudine in seno ma anche l’esempio di un mondo migliore, la stessa appartenenza al quale testimonia della bontà dell’uomo o del fenomeno.
Ciò che era ormai trascorso veniva percepito come una riserva, un ultimo posto dove ancora era possibile trovare cose e qualità, e da lì lei le riconosceva come non appropriate per la nuova epoca: « la responsabilità collettiva del bene » e « il disprezzo per il provvisorio abito di carne ».
Nel voltarsi a guardare il suo ieri personale e esteriore, cercava e trovava in esso un sostegno vivo:
«… soltanto il piccolo Marcel riesce a calmare le mie sofferenze per la mancanza di delicatezza nel mondo che mi circonda, per l’appartenenza a quella generazione in cui ognuno cedeva il posto a una donna, non importa quanto fosse bella, in cui nessuno rimaneva seduto quando una donna era in piedi e, questo in particolare!, in cui nessuno parlava con voi, tenendo i piedi sopra la sedia ».
L’accenno a Proust non è casuale: il suo metodo di resurrezione testuale del passato fu la chiave di un nuovo modo di scrivere per alcuni autori russi, rimasti nell’epoca appena iniziata senza posto
( accanto alla Cvetaeva, ricordiamo anche Kuzmin, che nel 1934 scrisse « alla maniera di Proust » il suo ultimo diario sperimentale).
Il corpus della prosa retrospettiva ( chiamarla memorie sarebbe una grossa forzatura) della Cvetaeva, scritto negli ultimi anni, fu chiamato a coronare semplicemente un’azione magica: resuscitare (o almeno conservare, collocare nell’armadio ignifugo dell’eternità della parola) tutto ciò e tutti quelli che lei amava, procrastinare la loro esistenza rimanendo al loro fianco: là e così come avrebbe desiderato lei stessa.
« Quanto più vi riporto in vita, tanto più muoio, scompaio alla vita per volgermi a voi, e in voi morire. Quanto più voi siete qui, tanto più io sono là. E’ come se la barriera tra morti e vivi sia stata già rimossa, e gli uni e gli altri si muovano liberamente nel tempo e nello spazio e nel loro contrario. La mia morte sarà il prezzo della vostra vita ».
Al momento della partenza questo prezzo era già stato pagato. « Quante righe sono già state scritte! Non aggiungo più nulla. Con questo termino qui ».
Invece di descrivere quello che accade in seguito a Marina Cvetaeva, l’incontro con la sua famiglia, la vita sorvegliata nella dacia statale dell’NKVD, l’arresto della figlia, l’arresto del marito, lo strazio delle file davanti alle prigioni e quello provocato dalle organizzazioni degli scrittori, i primi giorni della guerra, la catastrofe dell’evacuazione, l’estremo isolamento e il suicidio in solitudine, riporto, parola dopo parola, una piccola parte della lettera aperta, scritta per la rivista infantile di emigrazione nell’inverno del 1937-1938 e allora non pubblicata.
E’ quella stessa identica voce d’addio del buon senso, che può definirsi anche verità celeste: la verità di una somma gentilezza e di una vera (che non cerca di esserlo) poesia. Io penso che questa voce lo sia realmente.
« Cari bambini,
Non penso mai a voi singolarmente: vi penso sempre come persone o non persone (come noi).
Dicono però che voi siate una razza particolare, che ancora subisce l’influenza del mondo circostante.
Per ciò vi dico:
– Non sprecate mai a vuoto l’acqua, poiché in quello stesso momento per la mancanza di questa goccia d’acqua nel deserto morirà un uomo.
-Nello stesso tempo, però, anche se io non ne sprecherò neanche una goccia, lui comunque non riceverà l’acqua!
– E’ vero non la riceverà, ma al mondo si compirà un delitto insensato in meno.
– Per lo stesso motivo non gettate mai via il pane, e se per la strada vi capita di vederne a terra un pezzo, raccoglietelo e mettetelo sulla staccionata, poiché non esiste solo il deserto, dove si muore per mancanza di acqua, ma esistono anche le baracche, dove la gente muore per mancanza di pane. Inoltre, è possibile, che questo pezzo di pane venga notato da un uomo affamato e lui proverà meno vergogna a prenderlo da lì, piuttosto che a raccoglierlo da terra.
Non temete mai un situazione ridicola e se vi capiterà di vedere un uomo in tale frangente:
1) cercate di aiutarlo a uscirne e se non vi sarà possibile, mettetevi nei suoi panni e andate verso di lui come verso l’acqua: in due una situazione ridicola si dimezza, una metà per ciascuno oppure, a mali estremi, fate finta di non averlo notato come tale.
Non dite mai che così fanno tutti: tutti fanno sempre le cose in modo sbagliato, e per questo che hanno tanto seguito <…> 2) tutti hanno un secondo nome: nessuno, ma non hanno una faccia : albugine
Se vi diranno, nessuno si comporta così (non ci si veste, non si pensa, ecc.) rispondetegli: – Io invece lo faccio.
<…>
Non dite mai « non è sciccoso », ma dite sempre «non è dignitoso ».. E’ in rima ed è notevolmente migliore (sia come suono che come resa).
Non arrabbiatevi troppo con i vostri genitori, ricordate che loro sono stati voi e voi sarete loro
Inoltre, essi sono per voi-i genitori, e per se stessi- io.
Non dissipate tutto ciò, questo loro essere genitori.
Non condannate a morte i vostri genitori prima dei (vostri ) quarant’anni.
Allora non ne avrete più il coraggio !..»
da Literaturnaja Matrica, Limbus Press, Mosca, San Pietroburgo, 2011.
Traduzione di Daniela Liberti
inedito, per gentile concessione dell’autrice
Ringraziamo vivamente Giovanni Perrino per averci fatto conoiscere l’autrice del saggio, Marija Stepanova, della quale in questo numero pubblichiamo anche le poesie, tradotte da Daniela Liberti, insieme a un bel saggio introduttivo ed intervista alla poeta.
Foto in evidenza di Teri Allen Piccolo.