Delia e la telenovela delle cinque

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thumbnail_cover-besaronEffetti collaterali

di Pablo Besarón

Traduzione di Livio Santoro

vol. 23 collana Gli eccentrici, Ed. Arcoiris 2016

 

Delia e la telenovela delle cinque

Non so se cominciare dicendo che ho rivisto Delia due mesi dopo la sua morte. Non so nemmeno se lamentarmi del fatto di non averne parlato con nessuno, ma lamentarsi non cambia ciò che è stato. Forse la cosa più semplice sarebbe raccontare che Delia era una signora di circa ottant’anni che abitava al mio stesso piano, il ventiduesimo. Vedova da tempo immemorabile, viveva da sola e aveva un figlio che andava a trovarla ogni quindici giorni. Il figlio arrivava con le buste del supermercato e si fermava un paio d’ore, prendevano il mate insieme, guardavano le fotografie dei nipoti. E dopo due settimane, quando i viveri erano finiti, tornava di nuovo con la spesa dal supermercato.

L’affitto dell’appartamento lo pagava lui. Il portiere mi aveva raccomandato Delia in caso avessi avuto bisogno di fare l’orlo dei pantaloni, cucire maglioni o rammendare vestiti. Nei giorni in cui faceva molto freddo, Delia suonava al mio campanello per chiedermi di comprarle le medicine contro l’ipertensione, il bismuto o le pastiglie di Dorixina.

L’ultima volta che l’ho vista prima di venire a sapere della sua morte, suonò agitata alla mia porta. Il suo televisore non prendeva nessun canale, la telenovela delle cinque stava per cominciare, aveva bisogno di aiuto. L’appartamento di Delia aveva due ambienti; mi riportava a un’altra epoca con il suo odore di naftalina, le tazzine di porcellana, le fotografie color seppia nelle cornici di legno intagliato e le poltrone decorate ad arabeschi. Il segnale dell’antenna non era configurato. Risolsi la questione e me ne andai.

Una volta, rincasando dopo aver camminato senza una meta precisa (camminare sotto le intemperie in un tempo che sta fuori del tempo, come mi piaceva pensare), sentii il portiere dire a una vicina che l’appartamento di Delia era stato messo in affitto. Lei era morta due mesi prima, suo figlio aveva receduto il contratto, e l’appartamento era vuoto. La notizia mi rattristò. Non chiesi nulla e me ne andai.

Una sera, entrando nel palazzo, mi sembrò di vedere Delia in attesa dell’ascensore. Dico che mi sembrò, anche se non c’erano dubbi: gli occhiali di tartaruga, il maglione beige a crochet, il modo in cui si sfregava le mani. Arrivò un ascensore, e lei entrò rapidamente. Il portiere che mi aveva annunciato la sua morte si trovava all’entrata del palazzo. Forse avrei dovuto dirgli qualcosa.

Aspettai l’altro ascensore. Un uomo entrò prima di me. Non lasciò che fossi io a chiudere la porta, anche se entrai per ultimo. Scese alcuni piani prima di me, dandomi il tempo sufficiente per domandarmi se fosse il caso di suonare al campanello di Delia. Desistetti.

Quel giorno, alle cinque meno dieci del pomeriggio, suonarono al mio campanello. Era la stessa Delia di sempre: gli immancabili occhiali, il tono inquieto della voce, la richiesta di aiuto per l’inizio imminente della telenovela delle cinque.

Ancora una volta, il televisore non era configurato. Non so se le si fosse staccato il cavo, ma dovetti riprogrammare i canali. Quando ebbi risolto la questione, cominciò la telenovela.

«Si fermi a vederla con me, figliolo» mi propose.

Non mi sembrò una cattiva idea, dunque accettai.

Era una telenovela colombiana. Si chiamava Por siempre Ana.

Nonostante la sua abituale riservatezza, mentre guardavamo la presentazione Delia mi raccontò la trama. Una donna (Ana) si sposa con un uomo (Carlos Alberto) molto facoltoso, titolare di una fabbrica di caffè. Sono molto innamorati e hanno tutta la vita davanti. Una volta lei intraprende un viaggio in aereo per incontrare suo padre, che vive nel nord del Paese. L’aereo va in avaria e precipita in mezzo al mare. Muoiono tutti tranne Ana, che si salva per miracolo. La corrente la trascina sulla costa. Perde conoscenza. Alcuni uomini la portano con loro. Quando si sveglia, si accorge di essere stata reclutata per lavorare in un bordello. Passa un bel pezzo della sua vita circondata da fatti atroci. Progressivamente, una dopo l’altra, le passano davanti, sconnesse, le immagini della sua vita trascorsa. Adesso non sa più chi sia. Riesce a fuggire dal bordello. Comincia a lavorare in casa di un latifondista produttore di cotone, che la tratta quasi come una schiava. Carlos Alberto si rifiuta di credere che Ana sia morta. Entra in depressione, si sente perso, comincia a bere, dorme tutto il giorno. Sua madre, donna molto credente, chiede a Padre Luis, che lo aveva battezzato, comunicato e sposato, di andare in aiuto del figlio. Questi si salva grazie al supporto spirituale, e si sente utile facendo opere di carità per conto della Chiesa. Tutti gli dicono di dimenticare la moglie, di rifarsi una vita, ma lui si rifiuta. Di notte sogna che Ana è viva, ferita, che chiede aiuto.

Nella puntata che vedemmo, Carlos Alberto prende un aereo per il nord del Paese. Una parapsicologa gli dice che sua moglie è viva, che lui dovrebbe dirigersi verso un paese al nord, sul mare.

Alle sei del pomeriggio mi congedai da Delia.

«Se le fa piacere» propose «la aspetto domani alle cinque».

Non vedevo una telenovela da quando ero ragazzo; la proposta mi sembrava allettante. Inoltre, condividere questo momento con Delia mi aiutava a smentire le chiacchiere del portiere e, a questo punto, sicuramente anche di molti altri. Era un modo per tenere in vita Delia.

La mia vita si ridusse ad aspettare ogni giorno che arrivassero le cinque del pomeriggio. Avevo trovato un senso al tragitto senza meta che mi accompagnava da chissà quanto.

Nella bacheca al piano terra si cercavano affittuari per l’appartamento di Delia. Arrivati a quel punto, mi sembrava una cosa di cattivo gusto.

Pensai di raccontarle qualcosa circa tutte queste chiacchiere, ma nella telenovela successero dei fatti importanti. Carlos Alberto va in giro nei primi posti della costa in cui si trovava la moglie dopo l’incidente aereo. Ogni donna che vede in spiaggia gli sembra Ana. Chiede informazioni alla gente del posto, finché incontra un pescatore che aveva visto quei bruti portarsi via Ana. Dopo vari giri di parole, il pescatore gli confessa il rapimento, e la puntata finisce così.

Col passare dei giorni, la telenovela andava avanti. Carlos Alberto segue le tracce della moglie, rischia varie volte la vita, uccide un uomo, viene catturato, fugge. Anna è costretta a fare sesso con il padrone, si rifiuta, viene punita, rinchiusa in una gabbia alle intemperie, alimentata per diversi giorni con acqua e pane secco.

Ormai si intravedeva il finale. Tutto andava confluendo in un punto in cui la felicità stava per imporsi. Anche il nostro rituale incontro alle cinque del pomeriggio avrebbe avuto termine. Che ne sarebbe stato di Delia, del suo appartamento, delle voci messe in giro dal portiere? Avrei preferito che la telenovela fosse eterna, una telenovela in cui l’amato cerca l’amata per l’eternità, gli sembra di incontrarla ma non arriva mai a scovarla.

Carlos Alberto scopre che il signorotto del posto compra donne dai trafficanti nascosti nella foresta. Lo viene a sapere da un ubriacone, ex impiegato del latifondista, in un’osteria d’infimo grado. All’uscita dell’osteria, Carlos Alberto lo ferma, gli mostra una foto di Ana. L’uomo, come se avesse visto un fantasma, cerca di scappare. Carlos Alberto lo blocca. Io non so niente, non la conosco, dice l’uomo, sconvolto. Mi lasci andare. Di fronte al denaro che gli viene offerto, acconsente a rilasciare informazioni. Carlos Alberto, con la scusa di essere un dipendente della compagnia elettrica (c’era stato un blackout in tutto il paese), entra nella casa in cui si trova Ana. Vede sua moglie vestita da serva. Ana, all’improvviso, recupera la memoria. Immagini del suo matrimonio, dell’incidente, di quando loro si erano conosciuti. Carlos Alberto le fa segno di tacere. Quando nei paraggi non c’è nessuno, cerca di portarla via con sé, ma viene scoperto dagli scagnozzi del latifondista, ci sono degli spari. Il latifondista prende le armi e il controllo della situazione. È sul punto di uccidere Carlos Alberto, trattiene Ana con la forza, la bacia sul collo. Entrano dei poliziotti (un vicino aveva denunciato le grida e gli spari), vedono il possidente che ha nel mirino il marito di Ana, gli intimano di abbassare l’arma, lui non lo fa. Due colpi al latifondista: uno alla nuca e un altro al petto. Gli amanti si ritrovano. Passano tre mesi. Una grande abbuffata su una lunga tavolata all’aria aperta in una delle piantagioni di caffè di Carlos Alberto. Lui annuncia che Ana è incinta. Brindisi, baci degli innamorati. Fine.

Delia sospirò, sentendo la fine sulla sua stessa pelle. Mi sembrò un buon momento per parlarle, ma non mi diede il tempo di far nulla.

«Alla prossima, figliolo» disse, indicandomi la porta.

La salutai senza troppa enfasi. Sospettavo che non l’avrei più rivista, ma almeno avevamo potuto condividere la fine della telenovela.

Nel corridoio ebbi un’intuizione. Scesi con l’ascensore, andai alla bacheca. L’annuncio del suo appartamento non c’era più. Eppure la bacheca non era vuota. L’appartamento che si dava in affitto era il mio.

 

foto besaronPablo Besarón è nato nel 1974 a Buenos Aires, dove si è laureato in Lettere. Su riviste letterarie, cartacee e digitali, ha pubblicato saggi su Omero, Esiodo, Petronio, Ovidio, Machiavelli, Shakespeare, Sade, Stendhal, Tolstoj, Conrad, Lascano Tegui, Cortázar e Borges (tra gli altri). I suoi scritti teorici vengono utilizzati nelle università di Spagna, Brasile, Messico, Cile, Venezuela e Argentina. Ha tenuto corsi di letteratura e di metodologia della ricerca. Ha pubblicato la raccolta di saggi La conspiración. Ensayos sobre el complot en la literatura argentina (Simurg, Buenos Aires 2009). Alcune delle sue opere sono state tradotte in inglese e portoghese. Effetti collaterali è la sua prima raccolta di racconti.

Foto in evidenza di Teri Allen Piccolo.

Immagine di copertina gentilmente concessa da Gli Eccentrici.

Foto di Pablo Besarón a cura dell’autore.

Riguardo il macchinista

Maria Rossi

Sono dottore di ricerca in Culture dei Paesi di Lingue Iberiche e Iberoamericane, ho conseguito il titolo nel 2009 presso L’Università degli Studi di Napoli l’Orientale. Le migrazioni internazionali latinoamericane sono state, per lungo tempo, l’asse centrale della mia ricerca. Sul tema ho scritto vari articoli comparsi in riviste nazionali e internazionali e il libro Napoli barrio latino del 2011. Al taglio sociologico della ricerca ho affiancato quello culturale e letterario, approfondendo gli studi sulla produzione di autori latinoamericani che vivono “altrove”, ovvero gli Sconfinanti, come noi macchinisti li definiamo. Studio l’America latina, le sue culture, le sue identità e i suoi scrittori, con particolare interesse per l’Ecuador, il paese della metà del mondo.

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