brani da “Condizioni di luce sulla via Emilia” (Gianni Celati, selezionati da P. Piccolo e M. P. Arpioni)

imgp4313

Per questioni di copyright abbiamo potuto scegliere  solo un numero limitato di i stralci  dalla novella “Condizioni di luce sulla via Emilia”, forse la più lirica delle “Quattro novelle sulle apparenze”. E’ un racconto lungo 20 pagine con personaggi e situazioni che  vengono menzionati  nei brani e  uno svolgimento che si dipana in diverse stagioni  nel corso di un anno. Ci auguriamo che  questi assaggi di scrittura possano incuriosire abbastanza i lettori stimolandovi a leggere l’intera raccolta; l’ultima edizione è quella proposta da Quodlibet nell’anno appena terminato: http://www.quodlibet.it/libro/9788874628728.

 

Io e Luciano Capelli abbiamo incontrato molte volte il dipintore d’insegne Emanuele Menini, e molte volte abbiamo ascoltato i suoi pensieri sulla condizione delle cose lungo la strada dove abitava, la via Emilia.

Emanuele ha vissuto vent’anni su quella strada, ed essendo anche pittore di paesaggi sapeva bene come la luce viene giù dal cielo, come tocca e avvolge le cose.

La strada dove Menini abitava passa per alcune città di media grandezza e arriva fino al mare, percorrendo una tra le pianure meno ventilate della terra. E’ una linea divisoria tracciata non so quanto tempo fa fra le terre alte e le terre bass, che non presenta mai orizzonti molto lontani, perché è chiusa su un fianco dal profilo collinare e sull’altro da campi coltivati che spuntano quasi ad altezza d’occhi.

Il profilo collinare sale per calanchi e crinali verso montagne a tratti spopolate, spesso brulle, con boschi dove a volte vagano desolati cacciatori in cerca d’una selvaggina scomparsa. E’ questa linea di montagne che blocca tutti i venti dell’est, le correnti ascensionali che vengono dal mare, rendendo quelle zone così scarsamente ventilate.

In certe giornate limpide, salendo sulla montagna e guardando verso la lunga strada, si vede una fascia bluastra o perlacea secondo le stagioni, sospesa sulle pianure quasi in permanenza. Quella è la nube entro cui si vive da queste parti, una nube dove ogni luminosità si disperde in miriadi di riflessi.

Un traffico di automezzi in file continue scorre per molte ore al giorno lungo la strada, per gran parte del suo percorso. E per gran parte del suo percorso si viaggia tra due quinte formate da cartelloni pubblicitari, lunghi capannoni industriali, stazioni di servizio, empori di mobili e lampadari, depositi d’auto in esposizione, depositi di carcasse d’auto, bar, ristoranti,  palazzine a colori vivaci, oppure quartieri d’alti palazzi sorti in mezzo alle campagne […]

Ciò che vedeva in quel momento era un impasto d’aria, dove si muovevano ombre annegate nella luce dispersa. Menini diceva: “Luce scoppiata in disfazione”.

Proseguendo al di là del cavalcavia, ogni mattina attraversava il punto in cui la nube è più densa perché la strada è più stretta, tra quelle case basse con piccoli negozi. Qui gli  utobus che spesso occupavano tutto l’asfalto, e la gente in attesa dell’autobus, la gente che andava a far la spesa o entrava nei bar, tutti erano avvolti da movimenti di fluttuazione con gorghi e risucchi più intensi. E nella fluttuazione compressa in uno spazio stretto, il dipintore d’insegne cominciava a percepire un tremore nell’aria che rendeva ogni cosa instabile, vacillante attorno a lui e vacillante anche lui insieme agli altri. […]

 

A Emanuele Menini, in quanto pittore di paesaggi, interessava soprattutto capire come appaiono le cose che stanno ferme, quando sono toccate dalla luce. Osserva dunque ogni giorno come apparivano le cose sulla lunga strada dove abitava andando verso il suo bar al mattino e poi fino al capannone dove lavorava, non lontano dal bar. […]

Stavano tornando verso il solito bar, e Menini ha così esposto i suoi pensieri: “Caro Luciano, io credo che bisogna chiedersi cosa è luce e cosa è ombra, per non lasciare le cose da sole nella loro disgrazia. Vengo al punto: tu ne vedrai molti in giro che, se gli capita di guardare qualcosa che non si muove, diventano furibondi. Per loro la luce scoppiata è normale che ci sia, siccome va con il tremore e allora tutto si muove e bisogna essere sempre affaccendati. Be’, cosa possiamo noi dire di questi che non sentono più pace davanti all’immobilità delle cose? Tieni conto che sono i più.. Eh, cosa possiamo noi dire? […]

Alla fine dell’estate il dipintore d’insegne gli ha telefonato una sera, per chiedergli di annotare i pensieri che gli erano venuti in attesa che tornasse il signor scrittore. Al telefono ha detto: “Ascoltami bene, Luciano. Ombra e luce non stanno più bene assieme di questi tempi, per via dell’aria sporca che non dà buone ombre, e poi ci viene anche nei polmoni. E noi come ubriachi cerchiamo di rimediare, mettendo dappertutto colori netti e vivaci che si vedano meglio. Ma siamo sempre più ubriachi, siccome i colori vivaci ti fanno dimenticare le ombre e i crepuscoli, e ti rendono stupido, ecco il fatto.” […]

In caso d’incidente il dipintore d’insegne osservava questo: come apparivano le macchine fracassate all’incrocio, nella luce tutta ingolfata in strati d’aria densi di residui di combustioni, e come apparivano le persone uscite dalle macchine a discutere, anche loro piantate là nella piena luce scoppiata e gesticolanti come uomini furiosi, mentre altri automobilisti bloccati sul viale d’incrocio diventavano anche loro furiosi per l’immobilità che non sopportavano, e si davano a claxonare in lunghissime file di macchine incalzate dal tremore spasmodico che si spande per le periferie nelle ore di punta.

Osservando questi aspetti è arrivato ad alcune conclusioni. Quando c’era un incidente, uomini e macchine gli apparivano là fuori piantati nella luce e avvolti dai riflessi, in una grande solitudine sull’asfalto.

E nel suo pensiero lui vedeva che niente più della luce rende i corpi isolati nello spazio, mostra un loro isolamento definitivo simile a quello di un paracarro e di un vaso di fiori. […]

In autunno aveva preso l’abitudine di alzarsi molto presto. Non appena i primi camion cominciavano a scuotere i vetri passando sulla lunga strada, lui si alzava e usciva di casa a cercare di vedere l’immobilità di qualcosa nell’alba, prima che il tremore arrivasse nell’aria e cominciasse il movimento d’ogni giorno.

Durante una passeggiata che abbiamo fatto in un parco, nel mese di novembre, tentava di dirmi cosa cercasse nell’alba. Lui nell’alba cercava di stare in compagnia dell’orizzonte, cercava un’immobilità di dentro, che però può trovarsi solo fuori, nello spazio che si apre attorno a una cosa fino  all’orizzonte. […]

“Perché, come ha detto durante la nostra passeggiata, “L’immobilità uno non la vede mai. Ci pensa solo dopo di averla vista, quando sta per arrivargli addosso il tremore e tutto ricomincia a muoversi. Ma posso convincere io qualcuno che ho proprio visto l’immobilità con i miei occhi? No. Posso solo fare un paesaggio” […]

 

L’estate scorsa io e Luciano Capelli abbiamo voluto visitare il luogo in cui Emanuele Menini era stato trovato morto. Abbiamo visto la cabina telefonica da cui aveva parlato, e la palazzina in cui deve aver notato qualcosa che lo interessava per le sue ricerche, a circa trecento metri dalla lunga strada.[…]

La palazzina era misteriosa; da sola componeva un mondo d’immagini tutto diverso da quello della via Emilia, che passa lì accanto.  L’aria era pulita, l’ombra pomeridiana cadeva esattamente tra i due piccoli cipressi che inquadravano la porta, richiamando l’effetto d’un luogo perennemente indisturbato che danno i viali dei cimiteri.

di Gianni Celati, da “Quattro novelle sulle apparenze” Feltrinelli, 1987, per gentile concessione dell’autore, brani scelti da Pina Piccolo e Maria Pia Arpioni

 

Per saperne di più su Gianni Celati e il paesaggio, vedi http://www.doppiozero.com/rubriche/3/201608/luigi-ghirri-e-gianni-celati

Foto in evidenza di Davide Sani, per gentile concessione di OpenMultimedia – web design.

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

Pagina archivio del macchinista