Le “Quattro novelle” di Celati- sui concetti di ‘vacillamento’ e ‘sospensione’ (Pina Piccolo, trad. di Maria Pia Arpioni)

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Nell’ultima immagine che qualcuno avrà di loro, essi saranno in un grande pianoro tra le montagne, entrambi 

in costume da alpinisti e con bastone da alpinisti, in procinto di avviarsi verso le montagne innevate sul fondo. 

Cammineranno di buon passo e sempre con espressioni di lieta attesa, per andare dove? Dove?  

Ma chi può dirlo dove un uomo sta andando?Spesso si crede di saperlo, ma è un errore.[1]

 

Un’immagine di movimento senza meta e tuttavia salvifico conclude la quarta novella di Celati nel suo libro del 1987, Quattro novelle sulle apparenze. Nonostante il tono profetico e quasi trascendentale, l’impresa del pellegrino non è legata a una redenzione, né ha un fine o un punto di arrivo prestabiliti. Il movimento non è strumentale, è fondamentale e indispensabile di per sé.

L’immaginazione visiva ricorre esplicitamente in tutta l’opera di Celati e nella maggior parte dei casi la sua “materia prima” è il movimento. Nelle Quattro novelle due casi particolari di movimento sono messi in rilievo: vacillamento e sospensione. Entrambi denotano una mancanza di progressione agevole, un avanzamento difficile o un blocco nel movimento. L’occhio di Celati si sofferma pertanto su ciò che è ostacolato, difficile, problematico.

“Vacillamento” e “sospensione” sono termini con un significato duplice: descrivono fenomeni fisici e psicologici allo stesso tempo e si collocano all’intersezione di movimento ed emozione. Se consideriamo dunque la predilezione di Celati per una narrazione che fa appello alle emozioni piuttosto che alla razionalità, la scelta di questi specifici tipi di “movimento” potrebbe non sembrare casuale.

Sia Guido Fink che Franco Marcoaldi,[2] commentando le Quattro Novelle, hanno sottolineato come l’autore si focalizzi su perplessità e vacillamento e le hanno messe in relazione a uno stato di incertezza che l’autore vuole infondere nel lettore, come «una liberazione dalle pressioni sociali, che ci costringono sempre ad ancorare i nostri pensieri a qualche forma di illusoria certezza».[3]

Concordando con Fink e Marcoaldi sull’intenzione dell’autore, questo intervento intende esplorare le occorrenze pre-metaforiche di “vacillamento” e “sospensione” nelle Quattro novelle, collegandole soprattutto alle osservazioni di Calvino sulla “visibilità”.[4]

La questione del visibile sembra particolarmente pertinente nell’analisi delle novelle sulle apparenze di Celati. Forse, rimanendo in superficie rispetteremo l’avvertimento dell’autore, tratto da Kafka, che dietro le apparenze ci sono solo altre apparenze,[5] ed eviteremo la trappola di proiettare intenzioni, che secondo Celati si conoscono solo in relazione alle apparenze.[6]

Secondo Calvino, l’immaginazione visiva acquista un’importanza maggiore dell’espressione verbale quando la letteratura si libera dal dover fare riferimento all’autorità o a una tradizione come sua origine o finalità. Rifiutando le prevalenti nozioni di immaginazione come strumento di conoscenza di tipo razionale e come comunicazione con l’anima del mondo, Calvino definì la “sua” immaginazione come repertorio di ciò che è possibile, di ciò che è ipotetico, di ciò che non esiste e non è mai esistito, ma potrebbe essere esistito.[7] Prosegue quindi affermando che è indispensabile a qualsiasi forma di conoscenza attingere a questo bacino di molteplici possibilità. [8]

Il genere di immaginazione visiva di Celati è in linea con la definizione di Calvino, dal momento che combina indifferentemente cose esistenti con cose che potrebbero esistere e con altre che non sono mai esistite.

Anche considerando l’evoluzione della sua scrittura e del suo immaginario, dal ritmo e dal movimento da cartone animato di Le avventure di Guizzardi al più lento Narratori delle pianure, il lettore può percepire l’occhio cinematografico del narratore nell’atto di cercare e visualizzare prima che la narrazione nasca, e presentare i protagonisti come visti dal di fuori, quasi come su di un set: «Immaginiamo adesso lo studente di letteratura e la giovane donna inviati in missione di vendita. […]»; «a questo punto si possono immaginare i pensieri che vengono in mente all’uomo baffuto»; «adesso li vediamo piantati nel bel mezzo di un vasto piazzale […]».[9]

Restando nell’ambito del tema delle apparenze, negli anni Ottanta Celati ha lavorato a stretto contatto con un gruppo di fotografi che stavano registrando i cambiamenti del paesaggio italiano.[10] Fra di essi vi era Luigi Ghirri, il fotografo che ha scattato le immagini di copertina di quasi tutti i libri di Celati.

Durante un’intervista, rispondendo a una domanda sull’influsso della fotografia sulla sua scrittura, Celati disse:

 

L’approccio per immagini – o comunque il lavoro sul campo – mi sembra meno presuntuoso rispetto a quello dello scrittore che, chiuso nella sua stanza, crede di raccontare il mondo e ne dà solo un’astrazione. Il contatto con i fotografi mi rasserena, mi aiuta, anche, la loro attitudine a fare mente locale, che non vuol dire sintetizzare l’universo ma capire come non perdersi; orientarsi per riferimenti affettivi, secondo una segnaletica delle emozioni e non una mappa analitica.[11]

 

Perciò, uno sguardo di prima mano è un antidoto contro l’astrazione, qualcosa che può portare alla realizzazione di un orientamento emotivo, necessario per un viaggio come quello descritto alla fine del libro.

È interessante rilevare che la foto di copertina delle Quattro novelle [nella prima edizione del 1987, n.d.t.] corrisponde al brano di immaginazione visiva che ispirò le annotazioni finali di Celati riguardo al “viaggio”. Paradossalmente, il significato degli elementi di natura più visuale del libro sembra incongruo fino agli ultimi due paragrafi dell’ultima novella. A differenza della copertina dei Narratori, che immediatamente introduceva il lettore nei luoghi delle storie, questa copertina non è correlata alla realtà così com’essa è, bensì a una realtà potenziale che lo scrittore vuole suggerire come possibile via d’uscita per un uomo bloccato senza speranza in una determinata realtà.

Nella copertina delle Quattro novelle un paesaggio alpino estivo è fotografato da un punto in un ampio prato verde, i cui saliscendi sono individuabili dalle variazioni di tono dei colori. Vette innevate dominano in distanza, con gli orli frastagliati dei ghiacciai che spiccano contro un cielo nuvoloso. Due figure umane di mezza età sono fotografate di schiena da vicino. La coppia è abbigliata in stile alpino e indossa robusti stivali da trekking. Previdente dei bisogni futuri, la figura maschile trasporta uno zaino nero, e la figura femminile una felpa avvolta intorno alla vita. Si tengono per mano mentre camminano verso qualcosa, slegati da sentieri e destinazioni precise. Nella fotografia il loro passo è sospeso, e tuttavia l’immagine suggerisce un grande senso di dinamismo.

Riprendendo il ragionamento sul duplice significato di vacillamento e sospensione, sarebbe importante a questo punto ampliare l’idea e tentarne forse una definizione. In ambito fisico, la parola “vacillamento” descrive un movimento incerto; implica uno spostamento inconcludente nel senso della direzione. Allo stesso modo, in ambito psicologico, corrisponde alla perdita di certezza e determinazione. L’analogo concetto di perplessità, che è uno degli stati mentali preferiti da Celati, evoca in aggiunta un senso di stupore.

Su un piano fisico, il termine “sospensione” richiama qualcosa di appeso o teso tra i punti A e B. In senso figurato, implica una cessazione o interruzione, dunque un blocco nel movimento, nel tempo o nella fiducia. Il suo derivato “suspense” si riferisce a un’emozione caratterizzata da un intensificarsi di attenzione, concentrazione e ansia relative all’attesa di un esito decisivo.

Come vedremo, entrambi i fenomeni in ambo i significati sono frequentemente presenti nel libro. Nel loro significato legato al movimento, essi appartengono al mondo delle superfici, dell’apparenza, con cui sono alle prese i nostri eroi; nel loro significato emozionale, essi si riferiscono a possibili atteggiamenti o soluzioni.

 

Le novelle filosofiche di Celati

Le Quattro novelle sono innovative anche sotto il profilo del genere letterario. Dopo le prime novelle sperimentali della fine degli anni Sessanta e dell’inizio degli anni Settanta, e il passaggio alle storie molto brevi dei Narratori, Celati ora sperimenta con la novella. Recuperando in parte la lunghezza dei testi propria di questo genere, lo scrittore dispone di spazio sufficiente per mostrare le peregrinazioni inconcludenti dei suoi eroi. Ora che i loro andirivieni non sono limitati a tre o quattro pagine, l’occhio cinematografico di Celati può indugiare su un resoconto dettagliato, da commentatore sportivo, di strategie e movimenti. Il singolo focus sviluppato nelle storie brevi rimane, dal momento che l’autore pervicacemente registra non solo i cambiamenti nel protagonista ma anche nel suo ambiente e nella sua comunità, quali reazioni alle azioni o alle omissioni dell’eroe.

Secondo Lukacs, nelle forme epiche minori come la novella, il soggetto affronta l’oggetto in un modo che mostra maggiori dominio e autosufficienza rispetto a quelle maggiori.[12] Mentre il narratore si prefigge di annotare gli strani meccanismi delle coincidenze o un caso straordinario, è la soggettività dell’eroe «che estrae dall’incommensurabile infinità dell’accadere del mondo un frammento, gli dona vita autonoma in guisa che il tutto, da cui quel frammento è tolto, rifranga la sua luce nel mondo dell’opera quale realtà solo percepita e pensata dai personaggi, solo quale automatica risultanza di nessi causali astratti e rispecchiamento di una realtà che ha in sé le ragioni del proprio essere».[13]

Nella sua tendenza caratteristica verso l’impuro e l’ibrido, Celati modella questo frammento come una domanda filosofica, riuscendo così a combinare i vantaggi della novella con le esperienze di soglia dialogica degli eroi della satira menippea.

In tutte le storie, le vite quotidiane di protagonisti normali, anti-eroici, a volte anonimi (come lo studente e la giovane donna della terza storia, e il padre dell’ultima) sono perturbate in misura rilevante da un interrogativo filosofico relativo ad alcuni aspetti dell’esistenza che le persone danno per scontati. L’interrogativo non solo scuote il terreno sotto i piedi dell’eroe, ma costringe anche a una nuova configurazione degli altri personaggi, fornendo in tal modo lo slancio iniziale per la realizzazione di mondi possibili.

La prima storia prende in considerazione forse la più astratta delle domande, ossia il significato del linguaggio. Attraverso un tour de force wittgensteiniano, il nostro atletico eroe Baratto rompe la funzione di superficie della comunicazione attraverso il suo silenzio, aspettandosi forse di trovare qualcosa al di sotto dell’apparenza, ma invano. Il suo compito è realizzato attraverso la sospensione del discorso, intervallata dal suo correlativo fisico, l’apnea, ossia la cessazione del respiro. Il vacillamento di fronte all’abisso concettuale è sottolineato dalla sua manifestazione fisica.

Nella seconda storia, Condizioni di luce sulla via Emilia, il tremore appartiene non all’eroe ma all’ambiente. L’occhio del pittore Emanuele Menini è l’unico ad aver notato drastici cambiamenti nel paesaggio della valle del Po, non tanto gli ovvi cambiamenti fisici, ma piuttosto come questi stiano influenzando le condizioni di luce. Niente è più fermo; l’inquinamento nell’aria e la vibrazione del traffico impediscono al nostro eroe di trovare un punto immobile nell’intera valle. Egli pone la questione di quali siano le conseguenze di tutto questo tremore e vacillamento su coloro che abitano il luogo, mentre instancabilmente cerca l’immobilità (sospensione), solo allo scopo di trovarla e morire in essa prima di poterla catturare con il suo pennello.

Nella terza novella, I lettori di libri sono sempre più falsi, uno studente, frustrato dalle dichiarazioni inconsistenti dei suoi professori sulla letteratura, si chiede che cosa vogliono dire i libri ed è poi travolto dal vortice delle vendite porta a porta di libri, e successivamente dal mondo della critica letteraria. Il vacillamento in questo caso si verifica nella forma di una oscillazione pendolare, in quanto lo studente e la giovane donna, sua controparte meno critica, vanno e vengono dal loro appartamento alla periferia urbana vendendo, o no, dei libri. Il vacillare dello studente è un principio in base al quale egli dapprima è disgustato da coloro che si guadagnano da vivere dicendo di conoscere il significato dei libri, e poi li imita e ha successo ottenendo alcuni riconoscimenti per le sue recensioni. Le sue considerazioni finali sullo scrivere testimoniano il suo fallimento nella ricerca di una sostanza dietro le apparenze: tutto ciò che si scrive è già polvere nel momento stesso in cui viene scritto, ed è giusto che vada a disperdersi con le altre polveri e ceneri del mondo […]. Noi chiediamo di poter celebrare questo insostanziale, e il vuoto, l’ombra, l’erba secca, le pietre dei muri che crollano e la polvere che respiriamo.[14]

 

Nell’ultima novella, l’eroe non pone mai direttamente la domanda: «Che cosa significa essere padri?», dal momento che ha idee molto ben definite sull’argomento, e Abramo come modello. È irremovibile nella sua determinazione a separarsi dal figlio, ma tutti i suoi sforzi sono vanificati dall’indolenza della «giovane bestia».[15] Nella sua galleria di eroi, questo è l’unico al quale Celati conceda un finale felice inventando per lui un percorso di fuga, ossia l’alpe visibile in copertina.

Esamineremo più approfonditamente la prima e l’ultima novella così da poter analizzare la funzione del vacillare e della sospensione in relazione alla ricerca di ciascun eroe sulle apparenze.

 

Baratto, il grande “vacillatore”, o quando un atleta si rifiuta di parlare

La storia di Baratto ha inizio con una introduzione d’imitazione decameroniana, ma proprio questo è il punto in cui le reminiscenze letterarie finiscono per far spazio all’occhio cinematografico di Celati: «Racconterò la storia di come Baratto, tornando a casa una sera, sia rimasto senza pensieri; e poi le conseguenze del suo vivere da muto per un lungo periodo».[16]

In effetti, la storia si apre con una visione di movimento e gioco: Baratto, l’eroe, è mostrato mentre gioca a rugby con la sua squadra in un campo. Un presagio dell’imminente interruzione della comunicazione è fornita dal commento sportivo di Celati dei numerosi colpi mancati da parte dei compagni di squadra di Baratto. Frustrato dalla loro incompetenza, Baratto annuncia: «Non c’è niente da discutere. Siamo sempre stati dei brocchi, dunque è giusto che perdiamo».[17] Questa affermazione sull’inutilità della parola è l’ultimo atto con cui per un lungo lasso di tempo Baratto partecipa ai giochi linguistici; gli altri due enunciati che precedono il suo mutismo totale tradiscono la sperimentazione di infrazioni alle regole del gioco, un uso del linguaggio in cui lo scopo non è comunicare.[18]

Il primo atto di isolamento è fisico: Baratto lascia il campo. La sua sospensione dell’attività è subito dopo accompagnata da una sospensione della parola. Di nuovo su un piano fisico, dopo essersi appartato nello spogliatoio, Baratto smette di respirare e va in apnea, cosa che a sua volta gli provoca la perdita di equilibrio (un vacillamento) e la caduta a terra.

È interessante che a intervallare questi episodi di sospensione fisica siano momenti di vuoto psicologico. Il primo di questi avviene in seguito a una risposta non consequenziale di Baratto all’allenatore.[19] Il secondo si verifica quando egli ripete l’esperimento con un poliziotto che l’ha fermato perché non indossa un casco. In quel contesto, Baratto aveva tentato un uso esplicativo del linguaggio che escludeva gli aspetti ritualistici della parola, i quali esigono che ci si scusi per una infrazione subito dopo essere stati fermati e contestati per non indossare il casco. Baratto dice: «Ho caldo alla testa, deve essermi salita la pressione»;[20] poi interrompe la respirazione a mostrare che sta aspettando una risposta, ma non ricevendo alcun riscontro della propria affermazione se non la ripetizione dell’ordine, riprende a respirare e persiste nella sua infrazione.

Analogamente, il vacillamento si verifica quando egli è messo di fronte a un vuoto. In seguito, durante la stessa serata, dopo aver portato a termine tutti i compiti rituali, incluso guardare la televisione, egli diviene consapevole che la cessazione della parola ha portato a uno svuotamento della mente, a una interruzione del pensiero. Questa scoperta e l’opposta connessione fra pensiero e parola, che inizialmente lo avevano reso perplesso,[21] lo conducono successivamente al vacillare fisico. Più avanti ancora, nel corso della stessa settimana, Celati mostra Baratto mentre osserva lo spigolo di un edificio sotto il quale c’è una discarica ed è afferrato da una sensazione di vuoto cosmico: «Passando di lì, Baratto s’è fermato ad osservare quello spigolo. Solleva una gamba, grattandosi col piede il polpaccio dell’altra gamba, e resta così in bilico a vacillare con aria meditativa e un occhio chiuso».[22]

La ricerca personale di Baratto ha vaste ramificazioni sociali, poiché il suo comportamento inusuale e l’isolamento dalla comunità linguistica inducono alla discussione sul suo stato mentale e sui vantaggi di non parlare. I pareri vanno dal pratico (il barista del luogo gli invidia la liberazione dalla responsabilità di dover rispondere[23]) all’intellettualistico (il preside della scuola dove Baratto insegna così descrive l’apparenza del suo silenzioso istruttore: «sembra un’ombra che passa senza darsi il pensiero d’essere un’ombra. Un apparire che è già uno scomparire. Come se niente in lui si agitasse per comprovare qualcosa»[24]).

Tuttavia questo singolo accadimento getta il caos nella routine di coloro che lo circondano. Egli diviene un catalizzatore per la formazione di nuovi raggruppamenti e comunità di parlanti che in altre circostanze non si sarebbero formati (una immaginazione visiva di mondi possibili). Lungi dal ritrarsi dalla società, durante il suo stadio muto, Baratto porta a compimento tutte le funzioni di un individuo integrato, ma lo fa in un modo che ne rivela la natura di rituale vuoto (per esempio, va in banca e poi a comprare delle verdure solo per lasciarle intatte a imputridire nel frigorifero[25]). Continua ad andare al lavoro, anche dopo che il preside gli ha concesso un congedo, e deve essere allontanato a forza dai locali.

I suoi vicini più adulti lo “adottano”. Essi hanno trovato in lui un ascoltatore compiacente e presto fanno a meno dei loro rituali televisivi, dal momento che riempiono le loro serate raccontando a turno le proprie vite al silenzioso Baratto.

Il gruppo di conversatori gradualmente si allarga a includere la più improbabile combinazione di interlocutori: un medico solitario e depresso, una bionda seducente e sciocca, un professore tedesco e un sollevatore di pesi. La sospensione del linguaggio da parte di Baratto sembra aver dato spazio a una proliferazione di narrazioni, a un fervore comunicativo non privo di conflitti e malintesi. Dal momento che le chiuse della comunicazione sono state aperte, la peculiarità di Baratto passa quasi inosservata fino a quando, una sera fatale in cui viene organizzata una seduta spiritica, gli entusiasti conversatori intendono coinvolgere anche i morti nella loro impresa comunicativa. Mentre attendono ansiosamente le voci del vasto aldilà, da dietro un divano provengono suoni inarticolati: un Baratto dormiente sta rispondendo alle domande del medium. In questa situazione grottesca, trovano espressione i “pronunciamenti oracolari” di Baratto sul linguaggio: «le frasi vengono e poi vanno, e fanno venire i pensieri che poi vanno. Parlare e parlare, pensare e pensare, poi non resta niente. La testa non è niente, succede tutto all’aperto».[26]

Coerentemente col personaggio, le prime parole da sveglio di Baratto hanno a che fare con il corpo: «mi è venuto male al menisco».[27] Tuttavia, a questo uso in apparenza naturale del linguaggio è subito contrapposta una domanda a doppio taglio: «Ho parlato bene?», come un ricordo del viaggio da cui chi parla è tornato.

Questa enfasi sulla forma, piuttosto che sul contenuto, è stata preannunciata dal suo incontro e fascinazione per alcuni turisti giapponesi. Durante una vacanza col suo collega Bertè, Baratto è catturato dal dignitoso contegno di un gruppo di turisti giapponesi, che comunicano con inchini e rituali (un vacillare della testa). Essi presto includono l’italiano nella loro compagnia e accettano senza eccessive difficoltà la sua comunicazione gestuale alla quale essi rispondono mescolando parola e azione. Il suo incontro con una cultura che non separa di molto rituale e sostanza della parola agisce come fase di transizione consentendo a Baratto di venire a patti con la constatazione che il linguaggio è privo di sostanza. Mentre continua a compiere gli altri rituali di vita, analogamente egli può estendere la sua accettazione del rituale anche alla parola (indipendentemente dall’illusione condivisa che il linguaggio non sia rituale ma comunicativo).

Come abbiamo visto, i moti vacillanti e la sospensione di Baratto non sono sostegni alla storia, strumenti per farla progredire o rallentare. Essi sono piuttosto parte integrante del suo significato ed esito.

 

Padri infuriati e sospensione

Diversamente dalle altre tre novelle, Scomparsa d’un uomo lodevole inizia senza un’introduzione al personaggio e alle vicende, in medias res. Essa non prende la forma di una storia raccontata o vista da un narratore esterno, ma piuttosto la forma più interiorizzata di un memoriale scritto in prima persona, «un memoriale scritto nella lingua dei miei padri».[28] Questa descrizione suscita la risata dell’impertinente figlio adolescente, francese, dello scrittore, mentre rivela il significato quasi sacro che riveste per l’autore.

Il singolo focus su un frammento di realtà come visto dalla soggettività del narratore diviene qui inesorabile; il lettore viene quasi soffocato dall’intensità del sentimento da parte del Padre. Il suo inequivocabile punto di vista permea la narrazione di tutti gli eventi.

Quanto Baratto era l’incarnazione del corpo a corpo fisico con il fenomeno astratto, tanto qui il Padre è l’incarnazione di un Principio semi-astratto, lo Scopo, in lotta con la manifestazione di una Carne debole e facilmente condizionata. Quest’ultima è impersonata dal Figlio, un adolescente indolente e goffo che è facilmente irretito dalle superfici luccicanti di moto Yamaha o dai ritmi incantatori di vocalist blues, che ripetono senza fine tristi melodie sconosciute. La disperazione del Padre è rivelata dalla prima pagina del diario:

 

Ho pensato che un tempo ero giovane e adesso ero un uomo fatto, con un figlio che si grattava la testa davanti alle cromature d’una moto Yamaha, solo perché il sole vi rifletteva i suoi raggi facendole brillare in modo illusorio. Sul canale del parco è passata una piccola chiatta con un transistor rumoroso, e mi è venuto il pensiero: Come una barca dei morti che fanno musica. Era una domenica mattina e mi sono accorto che non c’era più niente da fare; parlo per me naturalmente, degli altri me ne frego.[29]

 

L’immagine del canale implica la presenza dell’acqua, che è uno degli elementi visivi più potenti in questa novella. Il Padre, infatti, un robusto difensore della solidità, ravvisa nell’acqua la materializzazione di un principio avverso. In una delle sue prime annotazioni, egli paragona la mancanza di scopi del Figlio al movimento dell’acqua:

 

[…] Ho la sensazione che lui sia come l’acqua, che va da qualche parte per forza maggiore, ma senza alcuna propria intenzione. E spesso mi sono chiesto come potrà egli cavarsela un giorno tra finanzieri e affaristi […]. L’acqua scorre e quelli sono come macigni che rotolano dall’alto, facendola deviare in stagnanti pozzanghere, forse per sacrificio lustrale alle divinità dei loro commerci.[30]

 

In seguito, ribadendo la sua diversità dal Figlio privo di direzione, egli lo paragona di nuovo alle fluttuazioni dell’acqua.[31] Ironicamente, è ancora attraverso l’acqua, l’informe, travolgente sostanza, che si stabiliscono le condizioni che porteranno il Padre su un sentiero differente.[32] Vacillamento e sospensione erano stati resi con una rappresentazione fisica in Baratto, ma nell’ultima novella essi sono ottenuti soprattutto attraverso gli strumenti della scrittura, quasi un riflesso della predilezione del Padre per l’interiorità.

La sospensione è qui raggiunta principalmente per mezzo della suspense. L’autore del memoriale scrive note diaristiche più o meno lunghe, registrando il suo stato d’animo in relazione alle vicende grandi o piccole riguardanti suo Figlio. Quelle importanti si verificano sempre «una domenica», ma il lettore non riesce a comprendere se si tratti della stessa domenica, o di un’altra. È come se il tempo fosse sospeso, e il flusso abitudinario dei giorni si interrompesse per fare strada a «una domenica». Insieme a un’interruzione del tempo in quel caso si verifica un’interruzione dell’azione: fin dall’inizio il Padre si identifica con l’Abramo biblico, sa che suo Figlio dev’essere sacrificato, ma tutte le strategie di liberazione, dal tentato omicidio allo sfratto, sono puntualmente sventate e lasciano il Padre in una posizione sempre più isolata.

Il Padre non deve vacillare nella sua risoluzione, ha un obiettivo da raggiungere e non può tollerare coloro i quali, come suo Figlio, non hanno uno scopo preciso nella vita.[33] Conoscere l’inesorabilità del padre lascia il lettore nel costante timore per il destino della “giovane bestia”, un timore accentuato dalle frequenti interruzioni del flusso narrativo delle note diaristiche. Quando parla di “quella domenica”, ci aspettiamo di scoprire a un certo punto che qualcosa di tragico è avvenuto, qualcosa di irreversibile, ma le nostre aspettative sono ugualmente disattese.

I modi in cui le sue strategie di liberazione falliscono in altre circostanze sarebbero state comiche. Va portato ad esempio l’episodio della valigia, quando il Padre lascia in vista una valigia vicino alla porta del Figlio con un biglietto: «ECCOTI UNA VALIGIA, FIGLIOLO, E QUALCHE SOLDO, FAI CIÒ CHE VUOI, MA VATTENE DI CASA». Il messaggio combina un tono biblico con l’ordine inusuale che il Figliolo se ne vada di casa, che generalmente non ci si aspetterebbe da un Padre. Il Figlio naturalmente non si accorge nemmeno della valigia, non coglie durante la cena i commenti paterni sui giovani intraprendenti che lasciano casa per viaggiare in terre lontane, e così il Padre, frustrato, getta la valigia nell’immondizia. Con un capovolgimento grottesco, il Figlio alla fine nota la valigia e la usa per tenerci dischi rubati o scambiati.[34] Qui le svolte grottesche del destino non possono essere assaporate fino alla fine, quando il lettore ha verificato che non sono accaduti fatti tragici. Il divertimento è così ritardato.

La situazione di sospensione è infine alleviata da una curiosa vicenda del caso: la casa viene inondata a causa della negligenza del Figlio ed entrambi devono lasciare il loro rifugio.

Questo fatto segna l’inizio della fine degli “standard morali” del Padre. Senzatetto, egli è ora incline a vagabondare e a gustare le gioie dell’assenza di obiettivi. Tuttavia, a differenza degli altri, egli non riesce a mascherare i segni visibili del suo essere perduto. Dopo un’intera giornata di peregrinazioni attraverso “la grande città”, dai luoghi turistici al quartiere a luci rosse, egli scrive:

 

Nell’essere perduti noi ci aspettiamo che gli altri ci trovino, perché solo loro possono trovarci in tutto l’universo. Questo sì, ma il nostro lumicino non può essere ravvivato con troppa franchezza, c’è sempre il suo inutile segreto da rispettare.[35]

 

Il diario termina con il primo giorno del ritorno a casa di Padre e Figlio, entrambi alle prese con le stesse difficoltà, ma il Padre, scosso dai suoi precedenti vagabondaggi, è lasciato a riflettere sulla sua origine, identità e scopi.

A questo punto viene in soccorso Celati. La narrazione si disfa con l’immagine di una fuga possibile che il Padre può visualizzare e non avviene più in prima persona. Il Padre è mostrato un giorno di ritorno dal suo ufficio, dopo aver sedotto l’attempata segretaria, Agnese; tornerà a casa, adotterà l’abbigliamento e gli hobby del Figlio (il walkman), lascerà la città come «spinto da un impulso che punterà come una bussola verso il suo oscuro polo celeste».[36] Lui e Agnese verranno visti camminare verso un’alpe serena (la fotografia sulla copertina).

Tale vittoria del visivo sul concettuale, esemplificato da questo lavoro di Celati, è un ulteriore commento al dibattito sull’apparenza in opposizione all’essenza. Per Celati si tratta di una falsa dicotomia, ed è questo il senso della citazione da Kafka all’inizio del libro. In qualità di scrittore, Celati afferma: “Ciò che mi ha interessato, non è l’affermazione. Mostrare il vero o il falso. Ma il dire nella sua versione più semplice, come porre dinnanzi. Svincolato quindi dalle garanzie di una precisa differenziazione tra realtà e fantasia. Si tratta dunque di pensare appunto all’apparenza, come di ciò che viene a manifestazione.”[37]

 

Questa accettazione del visibile, dell’apparenza, non è un’impresa spensierata, priva di difficoltà, come Celati ha trasmesso al lettore attraverso queste quattro novelle. Dobbiamo aggrottare le sopracciglia e adottare un atteggiamento perplesso, desiderando di vacillare o essere sospesi di fronte a ciò che è venuto a manifestarsi o che potrebbe farlo, sia nella vita che nella pagina scritta.

 

[1] G. Celati, Quattro novelle sulle apparenze, Milano, Feltrinelli, 1987, p. 126.

[2] F. Marcoaldi, Sentimenti Celati, «L’Espresso», 11 ottobre, 1987, pp. 154-156.

[3] G. Fink, risvolto di copertina dell’edizione citata delle Quattro novelle.

[4] I. Calvino, Six Memos for the Next Millennium, Cambridge-MA, Harvard University Press, 1988, pp. 81-100. La scelta di esaminare le Quattro novelle all’interno di una cornice calviniana non è casuale. Nella prefazione a Finzioni occidentali (Torino, Einaudi, 1987), Celati rende omaggio al grande scrittore dalla cui opera e frequentazione trasse ispirazione e guida.

[5] Celati, Quattro novelle sulle apparenze, cit., p. 5.

[6] Marcoaldi, Sentimenti Celati, cit., p. 155.

[7] Calvino, Six Memos for the Next Millennium, cit., p. 91.

[8] Ibidem.

[9] G. Celati, Narratori delle pianure, Milano, Feltrinelli, 1985, rispettivamente alle pp. 70, 78, 85.

[10] Viaggio in Italia, a cura di A. C. Quintavalle, Alessandria, Il Quadrante, 1984. Celati scrisse Verso la foce per accompagnare una sezione di questo libro fotografico (ivi, pp. 20-35).

[11] M. Rusconi, Opera all’aperto, intervista con Celati, «L’Espresso», 22 gennaio 1989, p. 135.

[12] G. Lukacs, Teoria del romanzo. Saggio storico-filosofico sulle forme della grande epica [1920], introduzione di A. Asor Rosa, trad. e note di A. Liberi, La Spezia, Casa del Libro F.lli Melita, p. 60.

[13] Ivi, p. 61.

[14] Celati, Quattro novelle sulle apparenze, cit., p. 95.

[15] Ivi, p. 106.

[16] Ivi, p. 9.

[17] Ivi, p. 10.

[18] Cfr. ivi, pp. 10 e 11.

[19] Cfr. ivi, p. 10.

[20] Ivi, p. 10.

[21] Cfr. ivi, p. 12.

[22] Ivi, p. 15.

[23] Ivi, p. 16.

[24] Ivi, p. 25.

[25] Ivi, p. 19.

[26] Ivi, p. 36.

[27] Ibidem.

[28] Ivi, p. 107.

[29] Ivi, p. 99.

[30] Ivi, p. 101.

[31] Ivi, p. 104.

[32] Ivi, p. 115.

[33] Cfr. ivi, p. 105.

[34] Cfr. ivi, pp. 107 e 111.

[35] Ivi, p. 119.

[36] Ivi, p. 125.

[37] Marcoaldi, Sentimenti Celati, cit., p. 155.

 

*Traduzione a cura di Maria Pia Arpioni dell’originale di Pina Piccolo  Celati’s Quattro Novelle: on Vacillation and Suspension, «Italian Quarterly», autunno 1989, pp. 29-[37].LogoCC

 

 

Per saperne di più su celati: https://www.alfabeta2.it/2016/03/05/speciale-gianni-celati/

Maria Pia Arpionilaureata all’Università degli Studi di Padova sotto la guida del prof. Silvio Ramat con una tesi sulla poesia di Adriano Guerrini (1923-1986), in corso di stampa presso CLEUP di Padova con  prefazione di Silvio Ramat. Attualmente dottoranda in letteratura italiana contemporanea all’Università Ca’ Foscari (Venezia) con una tesi sulle rappresentazioni del paesaggio in Guido Piovene e Gianni Celati. Si occupa prevalentemente di letteratura italiana del Novecento e contemporanea e di visual culture, soprattutto in relazione ai temi dell’identità, del senso del luogo (anche in prospettiva ecocritica), della memoria e del lavoro. Collabora con il Centro Studi Città e Territorio (http://www.cittaeterritorio.eu/), del cui direttivo fa parte, su tematiche inerenti il rapporto tra paesaggio e società. In particolare ha collaborato, anche in qualità di membro del comitato scientifico, all’organizzazione del convegno internazionale “I paesaggi del vino nella letteratura e nel cinema”, svoltasi a Grumello del Monte (BG), nei giorni 6, 7, 8 giugno 2016.. E’ stata visiting scholar all’Università di Augsburg (Germania), da ottobre a dicembre 2015. Per le pubblicazioni ed altre attività accademiche e didattiche vedi il curriculum https://unive.academia.edu/MariaPiaArpioni/CurriculumVitae

 

Fotoin evidenza di Davide Sani, per gentile concessione di OpenMultimedia web-design

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

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