Intervento di Carla Mussi, tratto da “Dove va la poesia? – riflessioni sul presente”, a cura di Mauro Ferrari

DOVE VA LA POESIA COP fronte ridotta

      Dove va la poesia?

A che titolo posso intervenire su “dove va la poesia”? Non sono un “letterato”, un critico, un accademico, e provo un certo imbarazzo ad autodefinirmi poeta. La modalità prevalente, anche nei lettori più accorti, mi pare che sia più condizionata dalla lettura del curriculum dell’autore che dall’attenzione alla parola poetica. Io stessa mi accorgo di riservare talvolta una accoglienza diversa sulla base di questa banale osservazione. Del resto, la grande editoria, salvo rare eccezioni, pubblica solo critici che scrivono poesie, e spesso molti poeti si “travestono” da critici per ottenere una maggiore visibilità e rendersi più “credibili”.  Ma è appunto la ricerca della visibilità a dominare  su tutto, in un generalizzato clima di sfiducia verso il testo poetico.

Credo profondamente che l’atto poetico sia una manifestazione di disadattamento. Purtroppo le scienze sociali hanno conferito a questa parola una connotazione negativa, considerando il disadattamento una malattia da curare. Credo invece che l’incapacità o la volontà di non adattarsi contengano una grande opportunità di vedere oltre gli schemi, i luoghi  comuni, le convenzioni. Il disadattamento può travolgere, ma l’adattamento può annientare.  In questo senso, credo che questa modalità di “adattamento”, così funzionale alla visibilità, stravolga la natura stessa della poesia, relegandola a un ruolo di “servizio”.  Eppure il novecento si è caratterizzato anche soprattutto per poeti e intellettuali che hanno consegnato, attraverso il loro disadattamento (talvolta tragicamente, come nel caso di Pasolini o di Antonia Pozzi, altre volte semplicemente per la loro marginalità nel mondo letterario, come per Sandro Penna o Giorgio Caproni),  una chiave di lettura nuova, sia dal punto di vista del linguaggio, sia in termini di “rivelazione” del presente.

Ci sono poi forme di disadattamento apparente della scrittura, che oscillano sulla soglia del compiacimento, proprio perché la ricerca primaria è quella della visibilità. Ma credo comunque che l’atto poetico nasca come manifestazione di disadattamento. Ciò che all’origine si manifesta già come intenzione non è che il servizio  da rendere alla nostra visibilità.

Questa sorta di complesso di inferiorità che vive  il poeta, è lo stesso che attraversa il linguaggio quotidiano che abbiamo acquisito.

Abbiamo dato il primato a tutto ciò che viene percepito come scienza, schema interpretativo codificato, spostando nel linguaggio non specialistico, spesso impropriamente, parole provenienti dalle scienze sociali. Non parliamo più di tristezza, di malinconia, di dolore. Il triste è diventato un depresso, la parola sentimento ci procura un senso di vergogna ( mentre si parla molto di emozioni, sfera emotiva) e, dopo il Franti di De Amicis, non esiste più nessuno che possa essere definito “cattivo”.

Eppure le scienze sociali per crescere come chiave interpretativa dell’uomo e della società, hanno avuto bisogno della poesia, non c’è testo che non si apra con un riferimento letterario. La poesia viene prima.

In realtà viviamo in un palcoscenico dove cerchiamo costantemente un oblò di luce che illumina la nostra figura ma non fa intravedere lo sfondo, che è la nostra provenienza, ciò che ci costruisce, un impasto di oggetti, paesaggi e memoria che raccontano molto di più della nostra immagine illuminata. La poesia è lo sfondo, a cui restituire il compito del racconto.

Credo che dovremmo riappropriarci della fiducia nei confronti della parola poetica, perché penso che il rischio più grande che tende a snaturare la matrice originaria dell’atto poetico sia legato al perseguimento dell’adattamento.

Questo riguarda chi scrive ma anche quanti lavorano intorno alla poesia, critici, editori, lettori.

Dare un ruolo primario alla lettura del testo, valutarlo e interpretarlo a prescindere da altro, è essenziale. Sembra una affermazione banale, ma credo che pochi di noi siano davvero “liberi” nella lettura del testo.

Il poeta, in questo senso, può esercitare il suo arbitrio. Può scegliere di dare il primato alla sua visibilità adattandosi con tutti i mezzi per conquistarsi un posto nel coro, o mantenere vivo il luogo originario da cui la poesia scaturisce.  Può scegliere  di esserci, di comunicare, e anche desiderare di essere riconosciuto, ma sapendo di appartenere prima di tutto alla poesia e sentire come orizzonte un “abitare poeticamente la terra” verso cui tendere.

Esprimersi in contesti come questo,  sapendo di essere “percepiti” ingenui o fuori luogo da qualcuno, è un rischio da correre, a patto che si utilizzi il proprio personalissimo linguaggio senza tentare di appropriarci di schemi che non ci appartengono ma che percepiamo più “accettati”, sperando di suscitare spunti autentici di riflessione, davvero utili ad uno sguardo libero sulla poesia.

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

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