Forse, per capire qualcosa di ciò che sta succedendo in Francia nelle ultime settimane, basta un semplice fotogramma. Un’immagine nella quale si condensa la violenza di classe, esercitata, performata, esposta quasi con l’orgoglio di chi ha in mano le redini del potere e si sente intoccabile. I sociologi Monique Pinçon-Charlot et Michel Pinçon qualche anno fa hanno scritto un libro, dal titolo inequivocabile, La violence des riches, « la violenza dei ricchi ». Eccone un esempio nitido. Siamo nei Giardini dell’Eliseo, all’inizio di settembre, durante le « giornate del patrimonio ». Un disoccupato si rivolge ad Emmanuel Macron, spiegandogli la propria situazione. Non riesce a trovare lavoro, è iscritto al Pôle Emploi, una sorta di grande « Centro per l’impiego » nazionale. Il Presidente della Repubblica gli dice che basta attraversare la strada per trovare un posto. Ecco le sue parole esatte: «Si vous êtes prêt et motivé, dans l’hôtellerie, les cafés et la restauration, dans le bâtiment, il n’y a pas un endroit où je vais où ils ne me disent pas qu’ils cherchent des gens. Pas un ! Hôtels, cafés, restaurants, je traverse la rue, je vous en trouve!» Se lei è pronto e motivato, negli hotel, nella ristorazione, nell’edilizia, non c’è un posto in cui io vada nel quale non mi dicono che cercano qualcuno. Non ce n’è uno! Hotel, café, ristoranti, attraverso la strada e le trovo subito un lavoro!».
Poche parole. Parole da cui non emergono soltanto la violenza di classe e la violenza istituzionale esercitate dal Capo dello Stato nei confronti di una persona disposta a socializzare, anche nello spazio pubblico, la propria situazione di difficoltà, peraltro in un contesto economico sfavorevole (la disoccupazione in Francia si attesta al 9.3%, a non molta distanza dall’Italia). Parole da cui non filtra soltanto l’arroganza di chi ha il potere ed esercita violenza simbolica su un subalterno; da cui non emerge soltanto il disprezzo nei confronti di chi si trova senza lavoro. Ad apparire, nitidamente, con tutta la sua violenza, è il cuore dell’ideologia macronista, lo spirito del modello capitalista di cui esso è la diretta emanazione. Si possono recuperare altre dichiarazioni del Presidente della Repubblica, dichiarazioni in cui la violenza di classe si configura come la cifra di un più vasto progetto politico. Ne basterà una: «In Francia c’è chi ce l’ha fatta e poi ci sono quelli che non sono niente». Una dichiarazione che resta lì, nella sua esattezza, forse peggiore di altre massime dell’ideologia neoliberale. La società non esiste, esistono gli individui. Il Governo è il problema, non è la soluzione. Ora la Francia, il mondo, si dividono in due: quelli che «ce l’hanno fatta e quelli che non sono niente».
Nelle scorse settimane, mentre partecipavo, con altri compagni, alle manifestazioni parigine, sfilando con il corteo di Justice pour Adama (associazione nata con lo scopo di fare chiarezza sulla morte di Adama Traoré, avvenuta in circostanze sospette in una caserma di Beaumont-sur-Oise, a nord di Parigi), ho ripensato molte volte a quella frase, alla divisione netta fra chi «ce l’ha fatta» e quelli che «non sono niente». Non essere niente, nella Francia di oggi, significa vivere in strada o in condizioni precarie (a Marsiglia, qualche settimana fa, un condominio è crollato, causando la morte di otto persone); significa non avere abbastanza denaro per sopravvivere (e le rivendicazioni dei Gilets jaunes partono proprio da qui); significa vivere in quartieri periferici e abbandonati, senza alcuna via d’uscita, ghetti creati per dividere il territorio a seconda della classe sociale o dell’etnia di appartenenza; significa, soprattutto, essere vittima di politiche di classe, che privilegiano chi, invece, «ce l’ha fatta», a discapito di tutti gli altri. I cortei, le manifestazioni, anche violente, che hanno avuto luogo nelle scorse settimane, nascono dall’indignazione e dall’insofferenza di ceux qui ne sont rien di fronte al potere e alle sue pratiche.
Ritornano in mente le parole Furio Jesi, nella sua originalissima lettura del Bateau ivre di Arthur Rimbaud: «Si può amare una città, si possono riconoscere le sue case e le sue strade nelle proprie memorie più remote e segrete; ma solo nell’ora della rivolta la città è sentita veramente come l’«haut-lieu» e al tempo stesso come la propria città: propria poiché dell’io e al tempo stesso degli altri; propria, poiché campo di una battaglia che si è scelta e che la collettività ha scelto; propria, poiché spazio circoscritto in cui il tempo storico è sospeso e in cui ogni atto vale di per se stesso, nelle sue conseguenze immediate. Ci si appropria di una città fuggendo o avanzando nell’alternarsi delle cariche, molto più che giocando da bambini per le sue strade o passeggiandovi più tardi con una ragazza. Nell’ora della rivolta non si è più soli nella città. »
Non è difficile immaginarsi l’homme aux semelles au vent nel caos della Comune, un secolo e mezzo fa. Ma ripercorrendo la città, «nell’ora della rivolta», un sabato come un altro, la manifestazione sembra pacifica. I negozi sono quasi tutti chiusi, mentre alcuni bar e ristoranti hanno deciso di restare aperti, sfidando i pronostici della vigilia. Da Saint-Lazare, partono i ferrovieri, che continuano la loro lotta contro i tentativi di privatizzazione del sistema ferroviario nazionale; con loro ci sono anche i militanti di Justice pour Adama (insieme ad alcuni giovani intellettuali come Édouard Louis e Geoffrey de Lagasnerie), universitari (che si oppongono all’aumento delle tasse universitarie per gli studenti stranieri) e liceali (in queste settimane, numerosi licei sono stati occupati). Ci sono anche militanti queer, un gruppo in particolare, la CLAQ : il movimento, da queste parti, è davvero trasversale, aperto e politicamente connotato. Risuonano alcuni canti inequivocabili, accompagnati da una piccola orchestra di fiati : «Siamo tutti ontifascisti (sic!)», come si sente dire da queste parti e poi Bella ciao. Verso Boulevard Haussmann, c’è qualche scontro, vengono lanciati dei lacrimogeni: la polizia vuole impedire che i manifestanti si dirigano verso est, cioè verso gli Champs Elysées. Altri lacrimogeni, poi molti si disperdono, fra le vie che portano più a sud o verso République. Cortei, presidi improvvisati, scontri con la polizia proseguono fino a sera, in un territorio molto ampio, verso altri quartieri, anche lontani dall’apparente fulcro della lotta, sugli Champs Elysées, incrociandosi alla Marcia per il Clima. La polizia è numerosissima, pronta ad intervenire. Ci sono anche dei blindati. Nei giorni che hanno preceduto la manifestazione dell’8 dicembre, nella città si sono rincorse alcune voci: domani la polizia sparerà, si cercherà il morto. Le cose sono andate diversamente. La polizia ha risposto in maniera violenta, utilizzando i suoi strumenti, fra cui alcune granate lacrimogene vietate in tutti gli altri paesi europei. Molti dei manifestanti, invece, in maniera pacifica, simulando i gesti dei giovani liceali arrestati nel Liceo di Mantes-la-Jolie, nelle Yvelines.
Quella che era iniziata come una mobilitazione per chiedere giustizia fiscale e una diminuzione del costo del carburante, ha preso una piega diversa, si è aperta alla convergenza con altre battaglie, molto diverse da quelle originarie: battaglie per la giustizia sociale, contro la segregazione di classe. Si è detto, a più riprese, come queste manifestazioni fossero il sintomo di un ras-le-bol generale, un sentimento diffuso di insofferenza e di stanchezza rispetto alle condizioni di vita nella Francia di oggi. I media hanno poi sottolineato la presenza di formazioni di estrema destra fra i ranghi dei gilets jaunes: presenza innegabile, ma, forse occorre dirlo, marginale rispetto al cuore del movimento, la cui piattaforma programmatica non è certo assimilabile a quella delle forze neofasciste. Tutti elementi da tenere in considerazione, ma che ci rendono essenzialmente illeggibile lo spirito di questo movimento. Illeggibile, almeno, attraverso le categorie di destra e sinistra, che appaiono come inservibili: ma leggibile nell’opposizione forte e violenta fra un popolo abbandonato e un centro di potere autoreferenziale e legato al capitalismo finanziario e ai suoi meccanismi.
Essere nella città, nell’ora della rivolta, quando non si è più soli, come scrive Jesi, oggi è una necessità. La necessità di socializzare il disagio e di costruire, insieme ad altri soggetti, pratiche di resistenza al capitalismo che si esprimano in una politica di strada dirompente. Perché se, almeno inizialmente, le parole d’ordine dei gilets jaunes si concentravano sulle tasse e sulla benzina, ora qualcosa è cambiato: si parla di uguaglianza e di giustizia fiscale, si rimette in questione il modello capitalista. E chi è dimenticato, chi è piccolo, lontano, chi «non è niente», è tornato in strada, con il proprio corpo e la propria voce, opponendosi al potere e alle sue pratiche. Ha preso la parola e ha espresso una forma di resistenza.
Jessy Simonini studia Filologia romanza all’Ecole Normale Supérieure di Parigi. Si interessa alle forme e ai protagonisti della poesia contemporanea.
Immagine di copertina: Foto a cura di Jessy Simonini.