ALLE BESTIE! – Romanzo di Francesca Sarah Toich, capitoli 7 e 8

MONITO DEL MONTE

Scenario e riassunto delle puntate precedenti:

Parigi, Francia, in un prossimo futuro. Maya è gravida di un rinoceronte bianco: un’inseminazione imposta dal Regime. Clemente è il medico che segue la sua gravidanza.

Il Regime ha preso il potere anni prima con un colpo di stato. Il governo è composto da una fazione estremista di ambientalisti. L’estremismo è radicale: l’umanità è marcia, nel paese deve tornare sovrana la natura e – soprattutto – i suoi animali. Tutta la tecnologia è impiegata per realizzare questo unico obiettivo.

Gli esseri umani che hanno contribuito nel passato all’attuale disastro ambientale – ad esempio commerciando in carne oppure in pellicce – devono ora pagare. E tutte le femmine umane devono sempre essere a disposizione, per portare in grembo le specie animali in via di estinzione. La cultura classica è ora tenuta in massima considerazione, proprio perché massimamente improduttiva e incapace di far avanzare oltre la colpevole umanità sul cammino del progresso.

Con questa politica la Francia è all’avanguardia, in un mondo dai delicati equilibri politici – giocati tra America, Russia, India, Cina e addirittura il Bhutan – e sempre più colpito da disastri e calamità, naturali conseguenze dello sfruttamento del pianeta: surriscaldamento, desertificazione, inondazioni e diffusione di malattie (dovute a batteri rimasti congelati per millenni nel Permafrost che ora va sciogliendosi).

Le strade di Maya, studentessa di lettere antiche, e Clemente, medico all’avanguardia e omosessuale, tenuto in grande considerazione dal Governo, sono destinate ad incrociarsi fatalmente in un viaggio che cambierà le sorti del mondo intero.

 

VII

 

Piombò nel suo ufficio al mattino di buon ora.

Era vestita da tai chi. Lui la riconobbe all’istante.

Airone Bianco, si faceva chiamare. All’epoca in cui il Regime aveva preso il potere, lei si trovava in Cina, a studiare medicina naturale. Era stata campionessa francese di arti marziali giovanili, impossibile non ricordarla. Aveva vinto l’oro olimpico per due volte di fila e poi era sparita. In Bhutan e in Nepal, a perfezionarsi. Airone Bianco era oggi uno dei capi del Regime ma non la vedeva da un po’. Non erano mai stati in confidenza. Entrambi si guardavano bene dal partecipare troppo alle cerimonie pubbliche del Governo.

Avanzò verso di lui sorridendo. La sua pelle era quasi verde e piena di macchie. A parte questo era una bella donna: capelli biondi, fisico allenato, espressione serena e determinata. Clemente chiuse il suo malloppo di appunti; non aveva ancora terminato di elaborare il processo di metamorfosi, ma c’era quasi.

“Sono venuta a prenderti” disse lei con naturalezza, tirando fuori dalla sua sacca cinese una serie di boccette di oli essenziali e cominciando ad aprirle.

L’aria si impestò immediatamente di odore di acqua marcia.

“Non sapevo fossi diventata catara.”

“Sono sempre stata, catara, mio caro”, disse lei sedendosi sulla sua scrivania e guardandolo dritto negli occhi, “in un’epoca maschilista come quella del pre-Regime, noi donne evolute non avevamo molta scelta.”

Era vero. Prima del giorno del Giudizio la Francia versava in un periodo di profondo degrado culturale. Pochi uomini razzisti e ignoranti governavano una debole democrazia. Non si poteva davvero parlare di discriminazione sessuale. Semplicemente il precedente governo per ignavia ricalcava ideologie vecchie di secoli. Più posti di lavoro per gli uomini e soprattutto nessun interesse per l’ecologia. Quando il partito vegano formato anche da donne tra cui la madre di Clemente, aveva preso il potere, inizialmente ci fu entusiasmo da parte del popolo, stanco del machismo e della disattenzione verso le politiche ecologiche. Terrorizzati dalle malattie che cominciavano a diffondersi per lo scioglimento del Permafrost, gli abitanti della Francia accolsero con sollievo le normative antinquinamento, per poi ritrovarsi a correre in qualche riserva inseguiti da leoni affamati. Ma questi erano i provvedimenti del Ministero e non andavano discussi.

“Sì certo, i catari non hanno mai discriminato le donne, al contrario” disse Clemente cercando alleanza. Lei lo fissava in modo strano, animalesco.

“È questo il dossier che devi presentare alla sede catara oggi?”

Clemente, guardando il mucchio di fogli di carta riciclata pieni di appunti sulla sua scrivania, annuì.

“Bene”, disse lei alzandosi in piedi con un balzo, “allora li prenderemo con noi; saremo lì entro mezzanotte”

Mezzanotte? Non erano che le otto del mattino. Dove diavolo si trovava la sede catara? Non lo sapeva nessuno e il responsabile che aveva incontrato il giorno precedente si era ben guardato dal rivelarlo. L’odore d’acqua morta cominciava a dargli alla testa. Airone Bianco iniziò a muoversi, molto, molto lentamente. Una mossa di tai chi, senza dubbio. Senza avere il tempo di reagire, Clemente si ritrovò a terra, immobilizzato.

“Mi dispiace, questione di sicurezza” disse lei schiacciandogli la testa con un piede.

Poi un colpo sordo vicino all’orecchio sinistro e perse completamente conoscenza.

 

Si risvegliò con la testa pesante, come schiacciata dall’acqua.

Aprì gli occhi con paura e lentezza.

Airone Bianco era in piedi davanti a lui e sorrideva.

“Siamo arrivati.”

Si guardò attorno sollevando lentamente la testa. Si trovava in un enorme spazio quasi interamente ricoperto d’acqua. Asettico, poco luminoso, gli ricordava vagamente la piscina coperta dove aveva trovato Maya e Ilde il giorno prima, ma era decisamente molto più grande e scura. Lui e Airone Bianco stavano su un lembo di quella che pareva una spiaggia artificiale e davanti a loro si stagliava un grande mare grigio.

“Dove siamo?”

“Qui abita Balena che Cammina, il nostro capo. Vedi, è laggiù”, disse Airone Bianco indicando un punto lontano, “vai!”

Balena che Cammina, ci mancava solo questo nome assurdo. Clemente si alzò indolenzito. Airone Bianco, con fare da guardia ussara spazientita, gli indicò la via e stette immobile. A Clemente non rimase che incamminarsi solo per quella spiaggia artificiale. Gli sembrava di rimbalzare, probabilmente il terreno era fatto di plastica ecologica.

Percorse quasi un chilometro prima di cominciare ad intravedere una figura concreta. Gli sembrava che il tempo si stesse dilatando e che i suoi passi si facessero sempre più pesanti. Quando fu sufficientemente vicino, vide un piccolo tavolo bianco al quale sedeva una signora piuttosto anziana, magra, intenta a leggere dei fogli. Senza dubbio i suoi appunti. Sembrava non vederlo affatto. Notò che aveva alle mani guanti di rete nera e una giacca di velluto nero con il collo a punte. Raffinatissima, la signora beveva Campari da un bicchiere di cristallo. La guardò afferrare il bicchiere con quelle mani piccole e velate. Con esasperante lentezza si portò il bicchiere alla bocca e, finalmente, lo guardò. Quanti anni poteva avere quella donna? Forse novanta? Ebbe l’intuizione di non dire nulla.

Lei, con un gesto lento e maestoso lo invitò a sedersi.

Lo fissava in modo severo, con occhi azzurri glaciali.

Quello sguardo cancellava spazio e tempo. Da quanto erano lì seduti senza dirsi nulla? Ore?

Poi finalmente l’anziana signora schiuse le labbra. Avrebbe parlato? O stava respirando? Forse respirava solo una volta all’ora. Gli girava la testa, quel silenzio lo rendeva folle. Poi udì un microsuono uscire da quelle labbra strette e violacee. Non era davvero una parola, ma una nota alta e prolungata.

Il suono, prima debole, riecheggiò per tutto quell’universo cupo e lentamente una luce soffusa prese a diffondersi da sotto l’acqua.

Poi la signora parlò.

“Lei vuole utilizzare l’energia nucleare sulle ovaie di questa donna” sentenziò a voce bassa, fissandolo come fosse un assassino. Clemente, timoroso, si limitò ad annuire. Però, la vecchietta era piuttosto scaltra: aveva carpito il cuore del suo esperimento sfogliando quegli appunti confusi e incompleti.

“Mengele. Era uno studio cominciato da Mengele e Clauberg ad Auschwitz” continuò la signora fissandolo dalla sua posizione curva. Era come se stesse prendendo confidenza con le parole, ora le pronunciava più velocemente.

Clemente si sentì in dovere di giustificarsi: “Sì, ho ripreso i vecchi studi dei nazisti. All’epoca non avevano funzionato ma con l’energia nucleare pulita che possediamo oggi certamente gli effetti saranno diversi. Inoltre, da quando abbiamo trovato il sistema per non avere scorie radioattive, non ci sarà nessun impatto ambientale.”

“E per quanto riguarda Maya?”

La chiamava per nome. Qualcosa non quadrava, perché si interessava tanto ad un umano?

La signora continuò: “Lei considera Maya una cavia. Invece secondo la legge è un’umana meritevole, non un soggetto per esperimenti. Una studentessa di letteratura classica”.

Clemente, come emerso da un incubo rispose: “Sì, ma incinta di un rinoceronte”.

La vecchia lo guardò, questa volta come si guarda un povero idiota.

“Lei la vuole usare per un suo esperimento.”

“Non per me, per il Governo! Per la vostra religione, sono stati altri Perfetti a mandarmi qui.” Tutta la fredda baldanza degli ultimi giorni si era sgretolata. Era immediatamente ritornato la solita checca impaurita da tutti. Specie da questa vecchia maledetta. Era evidentemente superiore a lui, poteva sentirlo in ogni particella. C’era qualcosa di enorme e maestoso in quel mucchietto d’ossa tenute insieme con ferma eleganza.

“Il suo esperimento è crudele. L’energia nucleare applicata in questo modo può causare indicibili sofferenze. Anche se crudeltà e sofferenza sono idee umane, ci auguriamo che Maya e il suo feto non finiscano archiviati con la sigla NN.”

NN, Nacht und Nebel, le parole con cui venivano chiamate le cavie morte per vivisezione ad Auschwitz.

Lei taceva e lo guardava. Poi chiese: “Vuole effettuare questo esperimento per assicurare la nascita del feto o per salvare un essere umano?”

Eccolo, era finito in un trabocchetto. Lo stavano facendo fuori.

Quello era il tipico interrogatorio da Regime. Sarebbe finito a faccia in giù nell’acqua in quella piscina immensa. La vecchia signora portò alle labbra un altro sorso di Campari. Non lo guardava più. Sembrava affondare completamente il suo essere in quel liquido rosso, come se fosse la sua dimensione naturale.

“Io faccio il mio lavoro!” si trovò a farfugliare Clemente nel più totale panico.

“Lavoro…” ripeté la signora riemergendo dal bicchiere.

Poi, senza nessun preavviso, lentamente, si alzò. Clemente notò che portava dei tacchi piuttosto alti, per una signora di quell’età. Le punte di seta nera della sua giacca sfavillavano sul velluto. Poi disse: “Si è fatto tardi, tornerò a lavorare”.

Clemente si alzò in silenzio, pronto a veder arrivare Airone Bianco con altre guardie a freddarlo sul posto. Invece la donna prese a camminare verso l’acqua, invitandolo a seguirla.

Si fermarono.

I tacchi di lei erano quasi completamente immersi nell’acqua.

Lei stava immobile, la bocca socchiusa.

Udì di nuovo quella nota alta, e la luce sott’acqua si fece più forte.

La signora disse con voce ora più calma: “La metamorfosi è un processo logico e naturale, regola il mondo nei più piccoli dettagli. Per voi è difficile tuttavia essere naturali”.

E sorrise, timidamente. Sorrideva a lui come all’intero cosmo, senza un’intenzione specifica.

“Gli umani hanno bisogno di liberarsi dai loro corpi, completamente imperfetti per stare in natura. Non ci sarà pace, altrimenti, mai.”  Poi sospirò.

E quel sospiro era la voce del mare. Un suono che cominciò a riecheggiare per tutto lo spazio, in modo calmo e ipnotico. Ritornò lo stesso odore di acqua marcia che gli aveva fatto girare la testa. Clemente aveva freddo.

La vide allargarsi nell’aria, prendere più spazio.

Lentamente, molto lentamente, la signora stava cambiando pelle, e dimensioni.

Per non morire di paura, Clemente adottò Talasana, la posizione yoga della montagna. Quasi impercettibile, è sufficiente stare in piedi con braccia e mani leggermente allargate per mantenersi saldi.

Nel frattempo, la vecchia signora si stava trasformando in un pesce.

Quando la metamorfosi fu completa, constatò che non era un pesce ma un cetaceo.

Una balena insomma.

Si era trasformata in un’enorme balena che ora stava immobile nel mezzo dell’enorme piscina.

“Sta facendo il pieno d’aria, prima di immergersi.”

Airone Bianco era alle sue spalle.

“Allora che ne pensi? Non dire nulla: abbiamo diverse teorie. O è una creatura emersa dal Permafrost o dai ghiacci antartici che si stanno sgelando nei punti più profondi, venuta a noi come una divinità protettrice, oppure le incalcolabili quantità di farmaci immesse nell’oceano in questo secolo hanno potuto alterare così tanto l’equilibrio ormonale di alcuni animali marini da renderli creature mutanti ed adattabili. Per noi catari comunque lei è il Deus Absconditus che cercavamo da secoli. E dato che ha approvato il tuo progetto, possiamo rientrare.”

Ciò detto, gli piantò due dita veloci come falchi nella collottola, facendolo svenire a faccia nell’acqua.

 

 

 

 

Bussarono alla porta con violenza.

Staccò la fronte dalla scrivania.

Da quanto tempo stava dormendo così?

Clemente, con la testa che girava, si alzò dalla sedia e andò ad aprire.

“Meno male, dottore, iniziavo a preoccuparmi, è mezz’ora che busso. Questa mania di chiudersi dentro in ufficio a chiave, non la capisco. Dovesse succederle qualcosa…”

Ilde entrò col suo passo pesante e annusò l’aria.

“E perlopiù questa stanza sa di acqua morta. È qui dentro da un giorno e una notte, è sicuro di stare bene?”

Clemente non rispose nulla. Si guardava attorno smarrito ancora in preda al ricordo della donna balena, possibile avesse sognato tutto e dormito così a lungo? Inoltre non aveva mai chiuso a chiave dall’interno il suo ufficio. Angosciato guardò il tavolo: i suoi appunti erano spariti. Prima di urlare, doveva sbattere fuori quella donna.

“Sto bene; ora la prego di uscire, ho del lavoro da finire.”

“Me ne vado ma prima devo consegnarle questo” disse il donnone e gli allungò un pacco con il timbro del Governo.

“Spero siano buone notizie, sicuramente è di una certa importanza. Un tale Airone Bianco voleva consegnarglielo personalmente ma non l’ho lasciata entrare.” Ilde lo guardò sospettosa. “Che c’è, perché quella faccia? Sì, so che questa Airone Bianco è uno dei capi del Governo, ma prima viene la sicurezza delle ragazze. Non si può certo far entrare gente a tutte le ore, le persone sono piene di batteri e chissà quali malattie. Inoltre, dottore, le confesso che aveva una cera questa Airone Bianco, con quella pelle verdastra…”

Clemente le strappò il pacco dalle mani e la invitò senza troppa gentilezza ad andarsene.

Quando lei uscì, aprì il pacco con violenza.

Erano i suoi appunti accompagnati da una lettera del capo dei catari, che approvava il suo esperimento sulla donna gravida di un rinoceronte bianco.

Era una missiva fredda e impersonale, senza nessun riferimento specifico a Maya. Si sottolineava solamente che l’impiego del nucleare, anche se considerato oramai l’unica energia pulita sufficientemente potente per un certo genere di esperimenti, andava calcolato con lungimiranza e cautela. I Perfetti avrebbero naturalmente voluto vedere il progetto finale. Ma poteva procedere.

Dunque aveva sognato tutto… La vecchia che si trasforma in balena, quella piscina senza spazio né tempo… Airone Bianco non era mai entrato nella clinica…

Ma i suoi appunti come erano usciti da lì? E perché l’ufficio era stato chiuso dall’interno?

Forse senza rendersene conto stava diventando un paranoico.

A forza di far nascere animali da corpi straziati di donne, era impazzito.

Si toccò la pelle del volto: era fredda e perfettamente asciutta.

I giramenti di testa erano passati e si sentiva straordinariamente bene, come mai dopo tanto tempo.

Che importanza poteva avere com’erano arrivati gli appunti ai catari? Avranno i loro sistemi di sicurezza, si disse tra sé. Quanto all’ufficio, l’avrò chiuso io sovrappensiero.

Quello che conta è che l’esperimento sia stato approvato.

Ora avrebbe avuto bisogno di un ufficio più grande, magari di un aiutante… No, meglio di no: avrebbe potuto rubare le sue idee rivoluzionarie. Spazio, sì, era tutto quello che ci voleva, spazio. Inoltre quell’odore di acqua marcia stava diventando via via più insopportabile. Invece di diminuire, aumentava. Si diresse immediatamente alla direzione della clinica, determinato a farsi dare un ufficio diverso, più grande e completamente sterilizzato.

 

 

 

  

VII

Guardatevi bene, mortali, dal profanarvi il corpo con cibi nefasti.

Prodiga di ogni delizia, la terra vi porge vivande gentili,

e pasti senza bisogno di sangue e di eccidi.

Che orrore cacciarsi nei visceri i visceri d’altri,

ingrassare il corpo bramoso ingozzandolo con il corpo di un altro,

mantenersi in vita, (che orrore!) assassinando una vita.

(Metamorfosi, Ovidio, libro XV)

Stava vivendo una gravidanza quasi normale. Un pancione enorme, a fatica stava in piedi,    sbuffava ad ogni passo. Come una donna pronta al parto imminente. Ma era solo al quarto mese. Tuttavia Maya viveva quella magica fase in cui nonostante l’enormità che si indossa ci si sente leggeri e vitali.

Era passata solamente una settimana dalla richiesta del discorso e lei non aveva fatto altro che scrivere e studiare. Qualunque fosse la causa e il fine, non le importava più. Le interessavano invece gli effetti, cadeva a capofitto nelle oscurità di Eraclito, negli abissi del vuoto di Lucrezio per spiaggiarsi all’inizio del libro XV delle metamorfosi di Ovidio. Volare nei classici è stare nel bianco, o nelle foreste ma fluttuando. Essi, gli antichi, i presocratici, conoscevano i fenomeni e senza malizia religiosa o dialettica ne descrivevano i chiari segreti. A volte, quando sedeva, il ventre le faceva così male, quasi morisse avvelenata, ma poi una forza leggera la riportava su. Non era facile gestire un feto di rinoceronte. Succhiava tutto il calcio del suo piccolo corpo. I denti le stavano lentamente scomparendo. Tutte le iniezioni di soya bioenergetica non erano servite a nulla. Anche i capelli perdeva. In cambio il suo corpo esplodeva di vita. La carne tremava, gonfia, ad ogni passo.

Staccò la testa dal libro XV delle metamorfosi. Avrebbe iniziato il suo discorso citando Pitagora, che appare in chiusura del capolavoro di Ovidio per supplicare gli umani di non cibarsi di animali, esortandoli a credere nella metempsicosi o reincarnazione. Straordinariamente anticipatore di un futuro grigio, Pitagora aveva imposto ai suoi discepoli il vegetarianesimo assoluto.

Evitate di estirpare, da infami assassini, anime vostre sorelle.

(Io parlo guardando lontano!) non nutrite il sangue di sangue!

 

Maya era diventata vegetariana per contrastare gli allevamenti intensivi. E l’inquinamento. Non era mai stata contraria all’idea di mangiare un altro essere vivente. Semplicemente, o per codardia, non voleva prendere parte all’ecatombe e olocausto animale del periodo pre-Regime. Non sopportava la vita che conducevano gli animali in gabbia, gonfiati artificialmente e inseminati a forza dagli umani. Più o meno quello che adesso stava succedendo a lei.

Pitagora l’aveva sempre affascinata, ma all’epoca dei suoi primi studi era rimasta più colpita dal divieto di mangiare fave che da questa regola vegetariana. Ora ne capiva la potenza. Oltretutto in un’epoca senza globalizzazione né allevamenti. Semplicemente si deve rispettare il prossimo, sia esso uomo o animale. A pari merito. Il Regime, per quanto basato su nozioni culturali, non aveva fatto troppa propaganda per riabilitare Pitagora come primo convinto sostenitore del vegetarianesimo. Forse dopo questa sua dissertazione pubblica i presocratici sarebbero tornati in auge, rivalutati. Sentiva dal suo ventre, che non sarebbe sopravvissuta a questo discorso. Intimamente si augurava di morire lì, davanti ai catari, facendo la sua bella orazione.

Chissà che presagi ne avrebbero tratto.

Dopo essere stata inseminata e ingrassata avrebbe fatto la fine del vitello usato per i sacrifici. Vittima senza macchia e bellissimo (la bellezza è la sua rovina),

addobbato con oro e stoffe, lo portano davanti agli altari;

lui ascolta preghiere che non capisce

e vede che gli sistemano in fronte fra le due corna

spighe che ha fatto crescere col suo lavoro nei campi.

E si tinge di sangue il coltello.

E subito strappano viscere da un corpo che palpita ancora

per studiarle e dedurne indizi delle intenzioni divine.

Poi, tale è l’umano appetito di cibi proibiti,

che osate mangiarvele, uomini che non siete altro!

 

Chiuse il libro XV delle metamorfosi e con uno scatto fin troppo vivace balzò in piedi.

Poi subito, presa da un violento scossone, si accasciò a terra.

Aveva avuto un’idea fulminante. La storia del povero vitello squartato davanti all’altare l’aveva illuminata. Caino aveva avuto ragione! Caino, il primo agricoltore dell’umanità, sacrificava a Dio i frutti della terra e del suo lavoro. Anche suo fratello minore, Abele il pastore, sgozzava con fervore sull’altare di Dio i suoi più giovani e begli animali. Capre, vitelli, agnelli. Tutto quel sangue non piacerà a Dio, disse Caino al fratello. Poco dopo Dio sentenziò. Il sangue gli piaceva eccome, anzi scorresse più copioso sui suoi altari! Alte saranno le ricompense divine per persone come Abele. Poi Dio diede del tirchiaccio a Caino, con le sue quattro rape, che misera offerta!

Caino dunque, rabbuiato per l’inettitudine del fratello e la crudeltà di Dio, porta Abele in campagna e lo uccide. Il primo morto dell’umanità. Invano Caino aveva cercato di estirpare la mala pianta dello sfruttamento animale e la credulità cieca al Dio. Da quel momento in poi le offerte alla divinità furono animali e uomini. E Caino vagò errante cercando di coltivare una terra sempre più dura con lui. Dopo migliaia d’anni era giunto il momento di riabilitare la figura letteraria di Caino. Le venne in mente che ci aveva già provato Giordano Bruno.

‘Cain fu uomo da bene e che meritamente uccise suo fratello Abel, perché era un tristo e carnefice di animali.’

O almeno questa era una delle accuse a suo carico, nel famoso processo al filosofo.

Una fitta tremenda la scosse, come una scarica elettrica.

Le emorroidi.

Crudeli e gonfie, la seguivano ad ogni respiro, come ancelle maligne.

Stare ancora seduta era impossibile, sarebbe andata a fare una passeggiata in uno dei giardini, un po’ d’aria le avrebbe fatto bene.

 

 

Trascinò il suo corpo gonfio fino al giardino dei Lemuri.

Era una parte piuttosto isolata della clinica.

I lemuri, emigrati in Madagascar cinquanta milioni di anni fa, erano animali gentili e schivi. Più belli delle scimmie, occhi spiritati e voci querule, erano basati su una civiltà matriarcale. Le femmine avevano il privilegio di poter scegliere i siti dove costruire i loro nidi ed erano le prime ad avere accesso al cibo. Maya amava i Lemuri. Il nome derivava dal latino e significava ‘spiriti della notte’.

Osservarli saltare di ramo in ramo le avrebbe dato un po’ di pace.

Entrò nel giardino-serra.

Faceva piuttosto caldo. Nessuna presenza umana. Perfetto, pensò Maya.

A dire il vero da tempo non vedeva nuovi arrivi alla clinica. Molte delle sue ‘compagne’ erano morte di parto, qualcuna di aborto prematuro, altre, le più fortunate, avevano partorito ed erano ritornate alla loro squallida esistenza.

Col cuore triste si rese conto che non si era affezionata a nessuna, forse non aveva nemmeno cercato alcuna forma di dialogo. Quelle poche frasi scambiate le sembravano di pura cortesia, addirittura in ognuna aveva percepito della fredda cattiveria. Erano un branco destinato al macello. Chi prima e chi dopo. E invece di unirle, questa condanna le divideva. Ognuna cercava di salvare la pellaccia, di farsi amiche le infermiere e i medici anziché le proprie compagne. Sembravano guardarsi tra loro cercando la più debole, la più attaccabile. Naturalmente Maya era l’agnello sacrificale perfetto. Nessuna speranza di sopravvivenza e un’intelligenza schiva che non le permetteva false alleanze.

Alle volte si chiedeva cosa stesse succedendo al di fuori da quella clinica. C’erano ancora umani a Parigi? Perché non arrivavano più donne gravide di qualche animale?

Si sentì osservata. Dall’alto di un albero, un lemure la fissava coi suoi occhi gialli e spiritati. Forse era stato partorito da un’umana. Magari si stava chiedendo se Maya fosse sua madre. Imbarazzata, abbassò lo sguardo e si concentrò sui fili d’erba sottili, contandoli. Quanti potevano essere in un metro quadrato? Molto spesso cercava di tenere viva la sua mente con esercizi sciocchi e semplici da eseguire. Per verificare se sapeva ancora ragionare.

 

“È certo che questo luogo sia sicuro, dottore?”

“Sì. Meglio del mio ufficio o della sala riunioni dove ad ogni minuto entra qualche infermiera. Qui ci sono solo lemuri. E qualche insetto.”

Era la voce di Clemente.

Maya, senza pensare, si nascose cautamente dentro una grande capanna fatta di rami.

Un lemure, vedendola entrare, sgattaiolò fuori di malumore ma senza emettere suono.

Clemente e lo sconosciuto si fermarono proprio davanti alla capanna: poteva vederli  dall’interno, i rami erano intrecciati a maglia larga permettendo una visuale quasi totale. Naturalmente si augurò non fosse reciproco. Stette ferma, immobile. Vide i due sedersi su una panchina proprio di fronte. Le davano le spalle ma poteva sentirne chiaramente le voci.

“Come le dicevo, dottore, per quanto riguarda il suo esperimento, deve essere tentato il prima possibile. Non abbiamo a disposizione molto tempo.”

Scorgeva il profilo di chi parlava: un uomo calvo, sulla quarantina, vestito di nero.

Vedeva Clemente ciondolare la testa. Poi sentì la sua voce, bassa, tremula.

“Perché questa fretta? È ancora presto, può gestire il feto per almeno altri tre mesi.”

Maya rabbrividì. Stavano parlando di lei? Probabile.

“Non è certo questione della ragazza. È il nostro governo, forse, ad avere i giorni contati.”

Clemente si agitò sulla panchina, come un pesce preso all’amo, poi disse: “Sì, ho sentito voci ma pensavo fossimo ben distanti da…”

L’uomo in nero lo interruppe bruscamente: “L’India ha accolto totalmente le riforme del Bhutan, e anche la Cina ne è prossima”.

Maya a stento non scoppiò a ridere. Le sembrava di essere la protagonista di un thriller scadente di fantapolitica. Adesso ci si metteva anche il Bhutan.

Un minuscolo stato tra l’India e la Cina che per secoli era stato ignorato da chiunque. Se n’era parlato soprattutto qualche anno addietro; il Regime aveva trasmesso qualche timido documentario e lei aveva seguito con interesse il destino di quel minuscolo staterello. In effetti, una volta edotta sull’argomento, non aveva capito perché il Ministero non l’avesse portato in auge come stato gemello. Fortemente ecologista e da sempre indipendente, il Bhutan a metà del secolo scorso era stato governato dal Re Drago. Un illuminato o un despota, non si era mai capito. Sicuramente un genio. Maya fece uno sforzo per recuperare le informazioni sepolte nel suo cervello sedato dai farmaci.

Una cinquantina di anni prima il Re Drago, sposato a quattro sorelle, sale diciassettenne sul trono del Bhutan e fa due conti. Come si conduce uno stato? Aveva osservato con cautela buddista tutte le altre forme di governo e nessuna l’aveva convinto. Così si inventa il suo: una monarchia illuminata che mette al bando ogni forma di inquinamento, deforestazione e consumo di materiali tossici. Il Re Drago vieta la plastica al momento in cui il mondo intero ne abusa senza ritegno. Fin dal principio del suo governo le automobili sono rare, la benzina guardata con enorme sospetto e fornita solo in casi speciali. Non contento, il Re Drago si inventa la Felicità Interna Lorda. Misurare le necessità dello stato e le mosse socio-economiche in base alla felicità dei cittadini. Uniformare la felicità. Tutti devono essere contenti a pari merito, pertanto non ci sarà nessun ricco e nessun povero. Istruzione, sanità e domicilio saranno sempre gratuiti. Indosseranno tutti gli stessi abiti, uno stile maschile e uno femminile. Nessuno fumerà. Il Bhutan vieta qualsiasi commercio e consumazione di tabacco. E, nonostante la terra produca naturalmente marijuana, la gente è talmente felice che non la consuma: la dà invece ai maiali.

Il Re Drago, entusiasta del suo governo, espelle chi non lo è. In pochi anni chi non vuole indossare l’abito di stato e assumerne la religione o ha voglia di fumare, viene cacciato. Né ucciso, né perseguitato. Ma in Bhutan non c’è posto per gli indecisi o gli individualisti o i drogatelli solitari. Se ne tornino in Nepal. Una volta ottenuto lo stato perfetto e la felicità di tutti, secondo le statistiche, il Re Drago abdica e si ritira. Resta comunque il guardiano del regno ma ordina al suo popolo di diventare democratico, inseguendo la Felicità Interna Lorda.

Quando si comincia a parlare di global warming, lo stato del Bhutan si dichiara contrario ad ogni forma di energia a carbone fossile. L’unico paese al mondo per decenni. E decenni. Ma i laghi dei ghiacciai cominciano a sciogliersi, nonostante nessun cittadino abbia mai fatto nulla per contribuire al riscaldamento globale. Le bestie iniziano a morire di strane malattie, l’aria e la terra a farsi tossiche. Eppure la situazione resta sotto controllo. L’immensa felicità nazionale dà la forza ad ogni cittadino di lottare contro le piogge, l’arsura e i geli sempre più ravvicinati. Si continua coraggiosamente a rifiutare ogni forma di energia inquinante. Nonostante questo fiero e illuminato atteggiamento, a parte il Dalai Lama e qualche temerario giornalista di riviste naturali, nessuno parla del Bhutan.

Allora il Re Drago si incazza. Come solamente un buddista illuminato può incazzarsi.

A malincuore prende l’inquinantissimo aereo e gira paese per paese, cercando fondi per risanare il suo. Alcuni grandi governi lo ascoltano ma nessuno fa nulla. Poi il Re Drago arriva in Francia.

“Non vedo quale possa essere il problema” disse Clemente a bassa voce. “Siamo gli unici ad aver sostenuto il Re Drago quando, vent’anni fa, è arrivato a chiederci fondi. Il governo francese all’epoca rifiutò ma il nostro partito si diede da fare, eccome!”

“Lei è mai stato in Bhutan?” chiese l’uomo in nero.

“Naturalmente no”, replicò Clemente con asprezza, “lì l’omosessualità è vietata; inoltre non fanno entrare quasi nessuno, sono terrorizzati dal turismo. Perché, lei c’è stato?”

“Sono appena rientrato” replicò l’uomo in nero. Poi fece un profondo sospiro.

Se Maya avesse potuto, se ne sarebbe andata. La conversazione non prometteva nulla di buono. Inoltre non avrebbe mai pensato di dover assistere a dei segreti di stato. Era straordinariamente rischioso. Maledette emorroidi! Se non fosse stato per loro, sarebbe ancora al sicuro nel suo studio con Pitagora.

“Come le dicevo”, continuò l’uomo in nero, “la Cina e l’India stanno aderendo al modello bhutanese. Certo, noi siamo stati tra i primi a sostenerlo ma sono loro che non sostengono più noi, nemmeno a livello ideologico. Alla nostra visita diplomatica ci hanno accolto come degli assassini. Se avessero potuto ci avrebbero lapidati sul colpo, tanto è il disprezzo che provano per noi. È proprio questo il punto: loro non vogliono uccidere altri umani.”

“Ma se il Re Drago è diventato famoso per le sue pulizie etniche…”

“Loro”, continuò freddamente l’uomo, “sostengono che il nostro governo stia non solo commettendo un grave crimine contro l’umanità, che per loro è importante come massa felice, ma oltretutto credono che le nostre serre, riserve e paradisi artificiali consumino troppa energia.”

“Ma noi usiamo solo energia nucleare e abbiamo trovato il modo di neutralizzare le scorie, quindi…”

“Quindi per loro rimane una minaccia troppo potente. Rischio di esplosioni e… le solite cose. Finché avevano bisogno del nostro appoggio ci passavano sopra, ma… Adesso che anche la Cina e l’India ci sono contro, abbiamo poche speranze.  Hanno chiesto formalmente una revisione dei nostri metodi.”

“La Cina e l’India…” replicò intontito Clemente, “ma non erano i primi a soffrire di sovrappopolazione? A vietare addirittura alle giovani coppie di riprodursi! Noi ci siamo ispirati a loro per la stesura delle nostre leggi.”

L’uomo vestito di nero accavallò le gambe magre e mise le mani bianche sulle ginocchia, pensieroso.

“Vede, Clemente, le industrie ecologiche per la salvaguardia della risorse naturali si stanno sviluppando specialmente in India e in Cina. Per far funzionare i nuovi macchinari ad energia pulita e rinnovabile, l’uomo è necessario. Oserei dire fondamentale. Stiamo tornando a delle tecnologie intuitive e semplici, più lente, dove la mano dell’uomo riprende la sua importanza. Niente più petrolio, niente più robotica, niente più superpotenziamento tecnologico. La loro teoria è che l’uomo deve riparare quello che ha fatto spaccandosi la schiena. E i capi ideologici di questo nuovo enorme governo emergente sono i monaci del Bhutan. Gente che ama tutte le forme di vita, uomini inclusi a sentir loro. La triste verità è che i finanziamenti dell’Asia si sono tutti dirottati verso questo tipo di industrie. Come al solito è l’economia a dettare legge.”

Cadde il silenzio. Clemente stava immobile, mentre l’uomo vestito di nero faceva lentamente ciondolare la gamba accavallata nell’aria. Poi disse:

“La nostra unica speranza è un’alleanza con gli americani. Se loro approvassero i nostri metodi e decidessero di applicarli, ritorneremmo potenti e inattaccabili.”

Ci fu di nuovo una lunga pausa. A Maya scappava la pipì. Tantissimo. Non poté trattenersi. Se la fece piano tra le gambe. Quel rumore era per lei forte come una cascata. Ora l’avrebbero scoperta. Invece no.

L’uomo in nero continuò: “Faccia il suo esperimento, dottore, nel giorno del ringraziamento del Giudizio. Da quanto ho letto, lei necessita di energia nucleare e quel luogo, al centro delle riserve nel sud della Francia, è uno dei maggiori centri nucleari”.

“Volete usarmi come intrattenimento? Un po’ di fuoco artificiale per gli ospiti americani?”

Maya non aveva mai sentito la voce di Clemente così furiosa e tagliente.

L’uomo in nero non si mosse di un millimetro, e continuò: “Il Bhutan e l’impero che si va formando attorno sono contrari agli esperimenti sugli umani. Se in questi mesi le cose si mettessero male, non saremmo più in grado di provare. Forse, dottore, questa è la nostra unica occasione. E poi, sì, la presenza degli americani, se l’esperimento riuscisse, potrebbe essere fondamentale. Si renderebbero conto della nostra supremazia. Tutti questi anni di sforzi ed esperimenti vanno dimostrati. Inoltre noi catari abbiamo una notevole fretta di trasformarci in animali.”

L’ultima frase venne detta con cattiveria. Come un bambino viziato che vuole un giocattolo. Adesso. Subito.

“E se l’esperimento non riuscisse? Che diranno gli americani se fulminiamo viva una donna gravida di un prezioso rinoceronte bianco?”

Si, stavano proprio parlando di lei. Adesso aveva freddo. La pipì tra le gambe gelava e lei si sentiva sempre più stanca. Fece un immenso sforzo per non svenire a terra.

“Ci aggiorniamo. Ora devo tornare al lavoro” disse l’uomo in nero.

Si alzò, fece un cenno di saluto a Clemente e si allontanò in modo silenzioso.

Clemente rimase seduto per un tempo interminabile. Cosa stava facendo, a che pensava, perché non se ne andava? Non ce la faceva più, voleva stendersi.

Poi, finalmente si alzò e Maya tirò un sospiro di sollievo.

Che le si strozzò immediatamente in gola quando lo vide venire proprio verso la capanna.

 

 

 

“Eccoci qui, entrambi nello stesso posto e alla stessa ora. Bene bene.”

Clemente, con un sorriso fermo su una faccia benevola, la guardava dall’alto: lei si era accasciata a terra sulla paglia. Si mise le mani tra i capelli e ne levò una grande ciocca grigia.

“Non si preoccupi, ricresceranno.”

“Dopo il suo esperimento?”

Maya lo guardava con occhi feroci. Si sentiva bruttissima, mezza calva, col piscio tra le gambe e i denti che ormai si erano quasi del tutto ritirati. In teoria avrebbe potuto far finta di non aver sentito tutto il loro discorso, invece no. Che l’ammazzasse lì, se proprio doveva. Ma non sarebbe stata zitta.

“Che cosa volete farmi ancora? Fulminarmi davanti a un gruppo di americani mentre faccio il mio bel discorsetto sul vegetarianesimo in età classica? ”

“Ha ancora un udito eccellente, ottimo” sentenziò Clemente sempre immobile.

Perché non la aiutava ad alzarsi? Stava lì come uno spettro, impalato, a guardarla con quel sorrisetto del medico che sa. Ne aveva abbastanza di quella gente. Adesso si sarebbe trascinata in camera e si sarebbe tagliata le vene con gli aghi delle siringhe. Oppure fracassata la testa sul muro. Debole com’era, sarebbe morta senza troppa fatica. Peccato per il suo discorso, non aveva ancora finito di scriverlo e cominciava a piacerle. Ma era stanca di fare il pagliaccio gonfiabile di questi squinternati.

“Le converrebbe andare nella sua stanza a riposarsi, ora.”

“Prima, mi dica cosa volete farmi.”

Il medico scoppiò a ridere. E, assolutamente senza preavviso, scoppiò a ridere anche lei. Al diavolo. Non ridevano da secoli, in quel mondo inquietante e crudele non c’era stato spazio davvero per una risata. Era esplosa come una bomba e ora li stava scuotendo in un moto così impetuoso da suscitare terrore. Maya si sentì come afferrata da cento fantasmi e sbattuta qua e là dal di dentro. E lui continuava a ridere – ah ah ah – quelle ah tutte uguali, che si soffocavano l’una con l’altra.

Ben presto quell’allegria insensata degenerò in pesanti colpi di tosse. Maya credette di soffocare. Stava con gli occhi spalancati, cercando di tirar l’aria da tutti i pori. Finalmente lui la aiutò ad alzarsi e a ritrovare il respiro. Peccato, le sarebbe piaciuto morire dal ridere. Ma sudava e sudava anche Clemente. L’aria nella capanna si era fatta pesante, tutto ora sapeva di legno marcio e umido.

“Usciamo da qui” disse lei e con forze sconosciute si mise in piedi da sé.

Lui la seguì docile fuori dalla capanna, come un cane segue un bambino che ancora fatica a fare i primi passi.

Sì, era esausta. Ma voleva sapere. Lo squadrò di nuovo.

In quel momento un lemure emise un lugubre e lunghissimo gemito.

“Vada in camera, si riposi. La aspetto domani all’alba nel giardino degli uccelli. Lì giocheremo a scacchi.”

“E se vinco, lei mi dirà cosa volete farmi?”

“Come procede il suo discorso sul vegetarianesimo?”

“Non cambi discorso. Le ho chiesto: se vinco, mi dirà cosa volete farmi?”

Clemente, ciondolando da una gamba all’altra come un bambino, annuì. Doveva essere proprio impazzito. Se ne stava lì, cullandosi e guardandola come solo le persone disorientate sanno. Lui non era nemmeno lì. Pensava di essere lì ma era altrove. Nell’abbagliante evidenza del suo nuovo genio. “Facciamolo!” si diceva, “facciamolo questo esperimento, e se esplode tutto, non sarà colpa mia ma della fretta che mi hanno messo. E lei non è che carne umana, già decadente e sdentata. A trasformarla in un rinoceronte le si fa un favore. Ormai che resta di lei, se non un ventre gonfio come un tamburo e un’intelligenza che va vacillando?”

Benevolo, la cinse dove un tempo c’era stata la vita e la condusse, in un silenzio che a lei parve eterno, fino alla sua stanza.

Poi cerimonioso disse: “Allora, a domani, all’alba”.

E se ne andò, veloce come il fumo.

 

Francesca Sarah Toich è un’artista che vive a Parigi e lavora principalmente in Francia, Italia e America. Specializzata in Commedia dell’Arte e letteratura italiana  è stata premiata come migliore giovane interprete della Divina Commedia, vincendo per due volte il Lauro Dantesco a Ravenna. Insegna e recita in italiano, inglese e francese in numerose compagnie di teatro e ricerca, ed ha  portato le sue performance a New York, Mosca e Tokyo. Da sempre collima la scrittura con le sue performance e messe in scena teatrali; ha vinto il primo premio nel concorso internazionale di scrittura per lo spettacolo “Premio Goldoni  Opera Prima” con la tragedia intitolata “Diotallevi” e ha pubblicato due romanzi fantasy per ragazzi. Alle Bestie! e’ il suo primo romanzo di Climate Fiction.

 

Immagine in evidenza: fotografia dell’installazione luminosa per la salvaguardia dei popoli nativi, Corporación Traitraico e Delight Lab, Opera “Ngen Kintuantu, fuerza espiritual que busca el Sol”, Animal Sagrado, T’eümül’ (Monito de monte)

Riguardo il macchinista

Walter Valeri

Walter Valeri poeta, scrittore e drammaturgo è stato assistente del premio Nobel Dario Fo e Franca Rame dal 1980 al 1995. Ha fondato il Cantiere Internazionale Teatro Giovani di Forlì nel 1999. Successivamente ha diretto il festival internazionale di poesia Il Porto dei Poeti a Cesenatico nel 2008 e L’Orecchio di Dioniso a Forli' nel 2016. Ha tradotto vari testi di poesia, prosa e teatro. Opere recenti Ora settima (terza edizione, Il Ponte Vecchio, 2014) Biting The Sun ( Boston Haiku Society, 2014), Haiku: Il mio nome/My name (qudu edizioni, 2015) Parodie del buio (Il Ponte Vecchio, 2017) Arlecchino e il profumo dei soldi (Il Ponte Vecchio, 2018) Il Dario Furioso (Il Ponte Vecchio, 2020). Collabora alle riviste internazionali Teatri delle diversità, Sipario, lamacchinasognante.com Dal 2020 dirige i progetti speciali del Museo Internazionale della Maschera “Amleto e Donato Sartori”. È membro della direzione del prestigioso Poets’ Theatre di Cambridge (USA).

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