Disintegrazioni (Monica Dini)

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La morte è solo un altro posto

con Dio come padrone.

(Proverbio Kalderasha)

 

 

Un vecchio ingegnere cammina lungo la strada che porta al fiume. Ha rade ciocche bianche che il vento freddo issa sulla testa. Come vele. Cammina appoggiandosi al bastone. E’ più curvo del solito. La strada che percorre è fangosa. Ogni tanto si volta a guardare qualcosa. Come a studiare le impronte. Si chiama Italo. Tra poco avrà ottanta anni. Da sempre quella strada lo accompagna a guardare l’acqua. Da sempre vive lì vicino nella casa che era di suo padre e prima di suo nonno. Non si è fatto una famiglia. Vive solo. È in attesa di una badante istruita pronta a sparargli quando non sarà più autonomo. Non ha mai creduto in Dio. Tanto meno in vecchiaia.

 

Vi sembra un cinico? È possibile che lo sia.

Ma in fondo il cinismo è una conquista, il marchio di chi ha vissuto e ne conserva memoria.

 

Il vecchio cammina lentamente. D’un tratto si ferma. Incide il fango col bastone.

 

IMBECILLI. Si legge bene.

 

In fondo alla strada, laggiù dove diventa sentiero, c’è una panca, vicino al muretto di sassi. Il sindaco ha fatto costruire una fontanella lì.

Italo si ferma a bere un sorso. Ha il sapore del sangue. È la ruggine dei tubi.

Seduto sulla panca guarda il fiume che schiuma come una cloaca. Le canne ondeggiano spampinate dall’inverno. L’airone cenerino è bagnato, ridicolo con le piume attaccate al corpo magro. Le mura della città si vedono là in fondo. Come un carcere. L’erba inghiotte il lampo di un ratto. Italo appoggia i gomiti sulle ginocchia reggendosi la testa con le mani aperte.

Alle sue spalle, da quel pioppo secolare fino alla base della collina, là dove ora c’è quella spianata, vivevano gli zingari. Era il campo Rom della città. Quel tacchino del sindaco e i suoi pidocchi pollini l’hanno raso al suolo. Si sono fatti anche l’applauso perché ci vuole coraggio. Con quei ridicoli giubbetti fosforescenti. Si reggevano per mano uniti come al moderno Padre Nostro mentre tritavano cose. Mentre spaventavano bambini.

 

BRUTTI IMBECILLI era bene scrivere.

 

Al vecchio pesa la vita. E nella vita l’assenza degli zingari. A lui piaceva ascoltare le voci. Guardare gli antichi abiti delle donne colorati come Mandala. Piaceva la sfacciataggine di alcuni bambini che andavano da lui a chiedere. Portava i biscotti. Quella gente gli faceva compagnia lì sull’argine del fiume. Gli mostrava altro. Per questo è così curvo. E il fiume è più sporco.

A Italo pesa il fatto di appartenere alla stessa genìa di quelli che li hanno cacciati. Ma lui aveva tentato. Non era stato ascoltato in Comune. C’erano anche altri che non volevano la distruzione del campo senza prima aver trovato un’alternativa. Ma erano troppo pochi. Un numero insignificante di elettori.

 

Mi chiamo Ana sto andando a cercare il quaderno di matematica. Non ho più nemmeno il libro di italiano e le scarpe con le stringhe pink. La maestra ha detto: non preoccuparti, ritrovo io quello che ti manca. Lei si sbaglia. Ci vado da sola. So già che le riperderò. Sopra il quaderno c’era scritto Ana. La mia maestra è brava ma è convinta che qualcosa cambierà. Che anche gli altri gage (così noi Rom chiamiamo voi) impareranno a conoscerci. È un’illusa. Anche mia nonna è d’accordo con me e lei è vecchia. Dovrei essere in prima media e invece sono sempre in quarta elementare. Sono la più alta delle femmine.

Comunque vado da me a vedere, vado laggiù dove c’era il campo.

Quando siamo arrivati da queste parti era estate. Nel fiume l’acqua era bassa e facevamo il bagno.

Mio padre e i miei fratelli avevano costruito la nostra casa, la chiamavo così, con delle tavole, aveva il tetto di lamiera. Era riparato. Ci pioveva poco. Avevamo ognuno una coperta. La sera era bello. Tutti insieme. Ma le nostre cose viste alla luce del sole prima che la ruspa le schiacciasse, a voi sono sembrate brutte.

È che i nostri occhi vedono diverso dai vostri.

Non ho pianto. Le altre volte sì. Avevo paura. Non mi piscio più neppure sotto quando vedo qualcuno in divisa. Prima anche da lontano tremavo. Se si avvicinava me la facevo addosso. Mi sentivo in colpa. La nonna invece diceva che era il freddo della paura che si scaldava. Ora lo scaldo stringendo forte le mani. Se ci penso non ho paura. Ma le unghie sì, lasciano mezze lune livide sulla pelle.

 

Sapevamo che sareste arrivati. Avete spaccato tutto. Avete detto che ci seminerete il granturco su quel terreno. Ci chiamate abusivi. Abusivi …

 

Mio padre lavora poco. In molte delle famiglie che conosco solo le donne e i bambini vanno in giro per rimediare da mangiare. Mia nonna dice che è la nostra tradizione. Le donne e i bambini nei tempi antichi raccoglievano frutta, radici, semi. Gli uomini costruivano pentole. I gage venivano da noi a comprarle, a farsi leggere il destino, a vederci ballare davanti al fuoco.

Noi una volta portavamo fortuna. Qualcuno lo pensava. La nonna si ricorda di questo. Era piccola allora.

E invece siamo scappati di nuovo. Adesso abitiamo sotto il ponte dell’autostrada. In un angolo ci sono i ghiaccioli. Io li mangio. Giulia, una mia compagna, dice che sono fortunata. Mia madre me li lascia mangiare.

Mio padre e i miei fratelli hanno costruito un’altra baracca, adesso so che non si chiama casa. Questa volta però ha una parete vera. È quella del pilone dell’autostrada. La sera accendiamo le candele. Fa freddo ma non quando siamo tutti insieme. La nonna dice che diventeremo grandi e forti perché è così la nostra razza. Siamo abituati al gelo.

Da lì la scuola è lontana. Tutte le mattine la mamma mi fa mettere un paio di calzini sopra le scarpe prima di attraversare i campi per andare a scuola. Così non scivolo sulla brina e sul fango. Comunque si sporcano di meno. A scuola sto bene. C’è caldo e mangio quanto ho voglia. A volte però non posso andare perché non facciamo in tempo ad asciugare i vestiti.

 

Io so leggere le carte.

 

Mi piacerebbe vivere in una casa di cemento. E invitare gli altri bambini. Faccio sempre il disegno di come la vorrei. Con le mensole per tenere in ordine la roba. Ho messo anche i ferri alle finestre così nessuno può entrarci. La nonna dice che non è un futuro buono una casa con le fondamenta. Dice che noi siamo un popolo libero senza nazione e quindi anche senza confini. Ma lei è vecchia e tossisce sotto il ponte e io devo sempre cercare le mie cose e ho paura che le candele brucino la nostra casa. Qualcuno di noi è morto bruciato. Capita. E poi nessuno della mia gente balla davanti al fuoco. Nessuno sa costruire pentole.

 

Il vecchio ingegnere regge la propria testa. Le ossa del collo scricchiolano. L’impalcatura del suo edificio cigola. Se fosse una casa avrebbe bisogno di un lungo lavoro di ristrutturazione.

La brezza è gelida ma il sole la trucca. L’airone pesca nell’acqua corrente. Il vecchio si alza appoggiandosi al bastone. Su quasi tutta la superficie dell’ex campo nomadi c’è il fango. Qua e là, come isole, macchie d’erba gialla strinata dalla brina. Il vecchio cammina, sprofonda nel terreno. Là dove si è fermata la ruspa, come un’onda di lavarone, così qui chiamano il pattume portato dalle mareggiate, su un mucchio di tavole e lamiera c’è un biberon coi manici rosa. Da un secchio di plastica spunta un quaderno senza copertina. È a quadretti. C’è scritto Ana. Lo raccoglie, è quasi pulito. L’angolo di un plaid a quadri rossi avanza dalla melma come da una bocca. Il vecchio stringe il quaderno e pensa alla sua casa, ai suoi libri. Se le ruspe tentassero di tirarla giù avrebbero bisogno di tempo. È di pietra e i mobili sono di legno massello. A memoria sua, nessuno li ha mai spostati. È possibile che stiano là da centinaia di anni.

I mobili stessi sorreggerebbero la casa.

Il fango non arriverebbe mai ai suoi quaderni.

 

C’è differenza di destino anche negli alberi pensò.

Alcuni destinati a mobili, altri a marcire senza scopo apparente.

Io sono un uomo che somiglia a un albero. Ho visto poco del mondo. La gente che viveva qui, invece, è come il vento. Agli alberi fa bene il vento. Scuote un po’ le foglie secche. Asciuga le muffe. Sposta le fronde, mostra il panorama.

Il vecchio cammina e guarda lo strano affiorare di cose nel fango. Come un vomito.

Misura a occhio il terreno.

Quante case potrei progettare in uno spazio come questo. Dieci, forse dodici.

Ma la gente-vento cosa farebbe poi nelle case? Dovrebbe fermarsi e trovare lavoro. Dovrebbe pagare le tasse. Il vento dovrebbe integrarsi e diventare albero. Disintegrare la sua unicità.

 

Omologarsi al bosco.

 

Questo considera mentre col bastone pesca una scarpa da ginnastica con le stringhe rosa. La scuote un po’ per pulirla poi l’appoggia su una lamiera in linea con le scanalature del metallo. Come nella sua scarpiera. Su una delle isole erbose c’è una sedia di plastica bianca. È in piedi come fosse al suo posto. Il vecchio si siede, i gambi affondano nel terreno. Capitano di una nave guarda all’orizzonte. Arriva qualcuno. E’ una ragazzina-vento. Se la ricorda. Si aggira tra i mucchi di macerie come un cane tra i rifiuti. Cerca qualcosa. Ha i pantaloni arrotolati fino al ginocchio, le scarpe in mano. Cammina scalza nel fango. Il vecchio sfoglia il quaderno, la scrittura è precisa, i numeri ognuno nel suo quadretto. In fondo a ogni lavoro il disegno di una casa, piccola, grande, legata ad altre, ma sempre con inferriate alle finestre e scaffali pieni di forme geometriche. Un futuro da ingegnere.

 

La ragazzina ha trovato qualcosa, adesso ha tre scarpe in mano. Italo le fa un cenno. Lei ci pensa. Mette a fuoco. Si avvicina.

Rimangono uno di fronte all’altra senza parlare. Lui albero seduto appoggiato al bastone, lei vento scalza col fango che le scivola tra le dita dei piedi. Lei guarda il quaderno, lo ha riconosciuto, il vecchio la scarpa con la stringa rosa che aveva poggiato sulla lamiera. La terza scarpa in mano alla bambina.

 

La macchia d’erba è una zattera.

 

di Monica Dini, inedito, per gentile concessione dell’autrice LogoCreativeCommons

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Monica Dini vive e lavora a Camaiore paese della campagna toscana. Ha pubblicato le raccolte di racconti brevi: Sulle Corde (2006 Società Speleologica Italiana) e Leggerezze (2008 Besa) e una sorta di diario: Lezzo – i giorni dell’ospizio (2015 Tralerighe Libri). Ha collaborato con la rivista on-line Sagarana diretta dal Prof. Julio Monteiro Martins. È stata più volte ospite della rivista on-line El-Ghibli diretta dal Prof. Pap Khouma, del sito Nuove Tendenze della Dott.ssa Oriana Rispoli, dello Stralunario di Alessandro Trasciatti. E’ membro della redazione della rivista Prospektiva di Andrea Giannasi.

Foto in evidenza di Melina Piccolo.

Foto dell’autrice a cura di Monica Dini.

 

 

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

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