Il titolo della prima raccolta poetica edita di Felicia Buonomo, giornalista, video reporter e animatrice culturale ospitata sul numero 18 di LMS per il suo video reportage dal Benin (“I bambini spaccapietre – l’infanzia negata in Benin”), è un potente ossimoro mutuato da quello di una canzone del giovane cantautore veronese Vasco Brondi (classe 1984), cresciuto artisticamente tra Bologna e Ferrara.
Cara catastrofe fa parte del suo secondo album uscito a fine 2010, Per ora noi la chiameremo felicità. Nel video compare una giovane ragazza con cuffie musicali in mezzo al traffico di una metropoli qualsiasi, i fari di un sabato sera qualsiasi, in cui i ragazzi si trovano, si perdono e si ritrovano con tutte le loro amarezze che stringono la gola, che sono anche quelle di Felicia. Di seguito un passaggio del testo scritto da Vasco Brondi che introduce al meglio la lettura dei testi di Felicia: “Sventoleremo le nostre radiografie per non fraintenderci / Ci disegneremo addosso dei giubbotti antiproiettile / Costruiremo dei monumenti assurdi per i nostri amici scomparsi / E vieni a vedere l’avanzata dei deserti, tutte le sere a bere / Per struccarti useranno delle nuvole cariche di piogge / Vedrai che scopriremo delle altre Americhe io e te / Che licenzieranno altra gente dal call center / Che ci fregano sempre /Che ci fregano sempre / Che ci fregano sempre / Che ci fregano sempre / Cara catastrofe le impronte digitali / E di notte le pattuglie che inseguono le falene / Le comete come te / […] / E per struccarti useranno delle nuvole cariche di piogge / Adesso che sei forte / Che se piangi ti si arrugginiscono le guance …”.
La prima sezione della raccolta si compone di dodici testi con lo stesso primo verso, “cara catastrofe”, in cui l’autrice tesse idealmente un dialogo fitto con il musicista e con la catastrofe stessa a cui dedica i suoi componimenti, a cui confessa le sue sensazioni di inadeguatezza di fronte alla vita e a quelli “che ci fregano sempre”.
Cara Catastrofe,
guardarti è come entrare in scena,
senza aver mai provato la parte.
Improvviso, inciampo,
goffamente mi rialzo.
E di nuovo inciampo.
Nei tuoi occhi, il mio sold out.
Non c’è spazio per replicare.
E io continuo a improvvisare.
Cara Catastrofe,
non chiedermi cosa penso
se ho un ramo di mano sulla fronte.
Reggo le foglie dei miei tormenti
su cui ti adagi leggera.
Cara Catastrofe,
appena posso esco a cercare:
un poeta sconfitto
un tentativo
una montagna magica
un fabbricante di strofe
un diamante nascosto
un muro dove inchiodare una farfalla
il cane escluso
un amore facile.
E se ci tieni tanto:
baciami ogni volta che voglio.
Nella seconda Sezione, “Il corpo”, e nella terza “Sinceramente tua” la parola di Felicia si fa visiva e, a tratti, olfattiva, nelle descrizioni precise e dure di violenze subite, accettate, urlate e inferte da un rapporto d’amore tossico nel quali veniamo precipitati anima e corpo. La poetessa non indulge nel vittimismo, non si abbassa mai a chiedere al lettore una troppo scontata comprensione del suo dolore, la sua è una lotta senza quartiere, a tratti anche contro se stessa quando piega la testa di fronte alla malvagità del suo uomo.
Sono versi chirurgici quelli di Felicia in cui la parola scritta è quella necessaria, nessuna di più, nessuna di meno, da cui non possiamo uscire senza lividi, senza essere toccati nel profondo dal suo incrollabile amore per l’amore, nonostante i tanti dolori quotidiani. Alla fine della lettura non potremo evitare di fare i conti con noi stessi: carnefici, vittime o più facilmente entrambi e ci porteremo dentro a lungo i versi di Cara catastrofe. I testi di Felicia non sono finzioni o giochi letterari, ma è la vita messa a nudo, condivisa con chi sente l’urgenza di partecipare a questo rito collettivo di cura e di amore che è la poesia.
Ti ho trovato
nelle pieghe delle mie clavicole,
parte visibile di un corpo
smunto dalla tristezza.
Ero stesa sulle mie paure,
con gli occhi aperti al dolore
e le braccia molli della resa.
Amarti – continuo a pensare –
è il ristoro
dall’oppressione
del mostro che ti abita.
Ti devo il tormento di una tempesta,
una rosa inchiodata al muro,
il tintinnare di parole taglienti,
la solitudine della mia tristezza
mentre ti guardo e ti domando
della bellezza dei fiori.
Vorrei sapere dove cercarti
quando un giorno
prenderò quel treno
per non tornare.
C’è uno spazio nella linea del mio sguardo
che aderisce al tuo passo spavaldo.
Arriverai, lo so. Accompagnato
dalla mia incredulità,
che si riprende indietro la sua favola
lacera di insulti di realtà.
E sei tornato, con lo stesso sorriso
di quando hai capito di desiderarmi.
Strano meccanismo attiva il cuore:
brilla negli occhi senza distinguere
tra l’amore e il male.
Accorcia il tempo, come la fune
che mi hai stretto al collo.
Ho sempre pensato che sarei
morta di crepacuore.
Ora so che sarà per soffocamento.
Alza il bicchiere in brindisi anche per me.
Tu che sei così esperto nella pratica
dello stordimento da sostanza alcolica.
Brinda al Dio che tutto ti perdona.
Anche lo scempio a cui mi costringi,
mentre mi rinchiudi in questa stanza
sudicia, maleodorante, dove si consuma
lo stillicidio dei tuoi insulti.
Brinda al Dio tuo complice.
Che per tutto mi punisce.
Sorrido a un bambino. Provo ribrezzo
per la mia gentilezza di restituzione.
Come quando da bambina
guardavo fuori dalla finestra
e maledivo la luce sul verde.
Persino allora rinnegavo
il ciclo biologico del tempo.
Ho smesso solo nel periodo
dell’adolescenza rubata.
Non avevo tempo per maledire,
gioire, inghiottire
semi di felicità dovuta.
Sono colpevole come allora,
ancora senza tempo,
senza semi. In assenza.
Ho camminato su chilometri
di foglie cadute, per arrivare
alla bocca del tuo stomaco,
che tutto divora e nulla digerisce.
Mi accogli con il disgusto della sazietà,
io come un incubo riuscito.
E a quelli che domandano, io rispondo:
di te mi divora
la fame non appagata.
Ho studiato l’anatomia per capire
l’esatta distanza che ci separa.
Tu sei come l’alluce
che definisce la misura esatta
delle scarpe da indossare.
Io il mellino,
che – con strana facilità –
inciampa con frequenza
nel dolore dell’urto.
Parte di un tutto
che definisce il passo,
non ci tocchiamo mai.
Ho cercato una scusa
per dirti addio,
per poi disertare
a ogni evento.
La scadenza si avvicina.
Indosserò
un abito di ferro colorato,
lacrime di ruggine
e carezze solide,
per svanire nel miraggio
che ci tiene stretti
a una falsa idea di felicità.
Felicia Buonomo è nata a Desio (MB) nel 1980. Dopo la laurea in Economia Internazionale, nel 2007 inizia la carriera giornalistica, occupandosi principalmente di diritti umani. Nel 2011 vince il “Premio Tv per il giornalismo investigativo Roberto Morrione – Premio Ilaria Alpi”, con l’inchiesta “Mani Pulite 2.0”. Alcuni dei suoi video-reportage esteri sono stati trasmessi da Rai 3 e RaiNews24. Parallelamente all’attività giornalistica, porta avanti un progetto di street poetry sotto lo pseudonimo di Fuoco Armato. Alcune sue poesie sono state pubblicate su riviste e blog letterari, quali La rosa in più, Versante Ripido, ClanDestino Rivista, Atelier poesia, Inverso, La macchina sognante, Patria Letteratura e altrove. Un suo testo poetico è stato tradotto in spagnolo dal Centro Cultural Tina Modotti. È finalista al Premio internazionale di poesia Don Luigi Liegro. Scrive di poesia su Carteggi Letterari – critica e dintorni. Cura una rubrica dedicata alla poesia su “Book Advisor”. Pubblica il saggio “Pasolini profeta” (Mucchi Editore, 2011), il libro-reportage “I bambini spaccapietre. L’infanzia negata in Benin” (Aut Aut Edizioni, 2020) e la raccolta poetica “Cara catastrofe” (Miraggi Edizioni, 2020). Dirige la collana di poesia “Récit” per Aut Aut Edizioni.