Percepire gli spazi: variazioni dello sguardo – di Ada Bellanova (PRIMA PARTE)

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1. Spazi alla prova dello sguardo

Alcuni anni fa sono andata per la prima volta nella Sicilia occidentale e Retablo (1987) di Vincenzo Consolo[1] è stato per me un’eccezionale guida di viaggio. Il tempo della narrazione era evidentemente un altro, il Settecento, eppure la lettura in sincrono, o quasi, con il percorso dei passi ha influenzato la mia percezione dei luoghi. Il racconto dell’approdo a Palermo del protagonista Fabrizio Clerici, letto durante la traversata da Napoli all’isola, mi spingeva a guardare la città che si profilava e di cui avevo già una mia idea precostituita, prodotto di un intreccio di informazioni, racconti, cronaca, guide turistiche, con occhi non certamente immuni dal nuovo condizionamento: nello spazio reale cercavo – e in gran parte trovavo, pur con le debite distinzioni determinate dal diverso sfondo temporale – quello narrativo. L’intero mio percorso poi ha beneficiato della seduzione del romanzo. In particolare la visita alle rovine di Segesta e Selinunte, l’incontro con l’efebo di Mozia mi hanno emozionata molto. Mi si dirà che è naturale, che si tratta di luoghi estremamente affascinanti, tanto più per chi come me nutre fin dall’infanzia una grande passione per il mondo antico. Ed è senz’altro vero. Ma io credo che le pagine di Consolo abbiano avuto un ruolo determinante nel guidare la mia osservazione, hanno cioè plasmato la mia percezione.

È partito proprio da quel viaggio un percorso di riflessione non solo sul mio rapporto con gli spazi ma in generale sulle modalità di percezione che noi tutti abbiamo dei luoghi. Anche senza Retablo, la fotografia dell’isola difficilmente sarebbe stata immune da condizionamenti di varia natura: pagine e immagini depositate nella memoria, percorsi in rete, notizie, patrimonio e tradizione. Al di là dei rischi dell’uso della letteratura come guida di viaggio, l’oggettività quando si ha a che fare con la conoscenza di un luogo è cosa ardua: straordinariamente complessa è l’identità dello spazio perché è complesso il nostro rapporto con esso. Nella relazione entrano in gioco moltissimi fattori che vanno ben oltre la conoscenza di dati geografici scientifici e oggettivi e chiamano in causa, a livello collettivo, tradizione e letteratura capaci di segnare profondamente l’identità dei luoghi e la percezione che abbiamo di essi, ma anche, a livello personale, un’impalcatura di risonanze emotive che rendono i nostri sguardi l’uno diverso dall’altro.

A mantenere vivo l’interesse per la questione in ambito epistemologico è da già diversi decenni il cosiddetto spatial turn che ha portato al superamento di prospettive vincolate rigidamente a una singola disciplina cogliendo, quando si parla di spazio, le potenzialità dell’interazione tra studio del reale e studio dell’immaginario. Si è giunti così alla consapevolezza che non si possono segregare gli ambiti di competenza, non si può attribuire alla sola geografia il compito di indagare il reale e alla sola letteratura quello di indagare l’immaginario[2]. La geografia umanista ‒ la prospettiva è stata originariamente promossa da John Kirtland Wright[3] ‒ pone l’attenzione sulle relazioni tra mondo esterno e le immagini contenute nelle nostre teste e individua un nuovo bisogno geografico, ovvero quello di interpretare i vari paesaggi, territori o luoghi non solo oggettivamente ma anche dal punto di vista culturale, soggettivo, psicologico. Mette in luce cioè come cultura e tradizioni attribuiscono significati e valori ai molteplici elementi di cui i luoghi sono formati: dallo studio dello spazio cartesiano e dalla descrizione di una regione si passa allo studio dello spazio vissuto, dei territori del soggettivo, superando i vincoli e le regole formali di una geografia scientifica e oggettiva per arrivare alla comprensione del mondo anche attraverso i sentimenti, le emozioni suscitate da un luogo. La letteratura è uno strumento straordinario per comprendere i legami tra società e territorio, tra uomo e luogo, tra cultura e paesaggio: non si esaurisce in una semplice riproduzione della realtà, bensì si configura in una costruzione logico-concettuale che ne identifica le relazioni più occulte e quelle che, pur palesi, passano inosservate perché sempre “sotto gli occhi”[4]. Essa è in grado di proporre un’indagine efficace di questioni di carattere geografico, può contribuire in maniera significativa al processo di esplorazione dello spazio, anche quando la preoccupazione dello scrittore non è quella di essere un buon etnologo, sociologo o geografo. Questo perché la fonte letteraria è testimonianza di un’esperienza legata alla costruzione di senso dei luoghi e dei valori affettivi e di appartenenza assegnati a determinati porzioni territoriali. I racconti dei luoghi sono personalizzati, rappresentano itinerari conoscitivi. Ma la trasposizione letteraria, proprio in quanto filtro di osservazione, prima per l’autore, poi anche per il lettore, ha spesso avuto un ruolo determinante anche nell’elaborare e poi far attecchire nell’immaginario collettivo degli stereotipi geografici, perché il testo è in grado di generare e/o divulgare clichés identitari. La fortuna di alcune pagine infatti ha condizionato e condiziona fortemente l’immagine di questo o quell’ambiente, al punto da influenzarne persino l’esperienza diretta: l’osservatore insomma in alcuni casi non sa fare a meno del filtro letterario e guarda la realtà con gli stessi occhi dell’autore, l’immagine ricostruita nel testo diventa forma e essenza del luogo.

A loro volta alcuni indirizzi di critica letteraria relativamente recenti contribuiscono al dibattito, concentrandosi sulle modalità delle produzione artistica e mettendo il focus sulla geograficità dei testi. La prospettiva geocritica[5], ad esempio, «ponendo l’artista al centro di un universo di cui egli non è che uno degli ingranaggi»[6], tiene in conto, nell’analisi della rappresentazione dello spazio, di una molteplicità di livelli cronologici e una pluralità di punti di vista, analizza cioè quanto nell’identità di quello spazio deriva dall’immaginario che è stato prodotto su di esso. Inoltre tale approccio mostra grande attenzione per la totalità delle manifestazioni sensoriali che si producono nella relazione con il mondo e che ne condizionano la rappresentazione all’interno della pagina, e adotta una visione stratigrafica che coglie gli strati densi di storia che si sovrappongono in uno spazio rendendolo una sorta di mega libro palinsesto[7].

Da queste considerazioni, che non sono e non pretendono affatto di essere esaustive, emerge dunque quanto è complessa la natura degli spazi e quanto è complesso il nostro modo di osservarli e percepirli. Emerge soprattutto lo scambio tra reale e immaginario. Se pensiamo a città come Trieste e Lisbona comprendiamo subito che esse non possono prescindere dalla loro veste letteraria. Il mare Mediterraneo non può scrollarsi di dosso l’immensa rete di miti che gli è stata stesa addosso. Ma il caso della Sicilia – proprio la destinazione che ha fatto da stimolo a questa riflessione – è veramente emblematico. L’immagine dell’isola è il prodotto di scritture e riscritture che sono andate stratificandosi nei secoli: non è possibile guardare all’isola senza un coagulo mentale[8]. L’eco delle storie narrate fin dai tempi di Omero l’ha consacrata a luogo del mito, proponendone un’immagine duplice: da una parte la terra capace di fertilità e splendore inusuali, con tutti i tratti del locus amoenus, dall’altra l’inferno di una natura ribelle e distruttiva, impossibile da domare; patria di Demetra e Kore da una parte, abisso di Plutone e occhio ribollente del vulcano dall’altra. La stessa tradizionale localizzazione dei viaggi di Ulisse nel Mediterraneo, già sostenuta nel mondo antico, ha permesso di associare la Sicilia sia alla meravigliosa piana del Sole che ai pericoli estremi di Scilla e Cariddi. In questa doppia natura, divenuta stereotipo, si è per così dire bloccata, cristallizzata, nei secoli, la definizione di un mondo, al punto che quanti nell’età moderna si muovevano verso l’isola vi cercavano proprio l’uno e l’altro aspetto. A loro volta i racconti del Grand Tour, proprio quelli di quanti nel Sud cercavano il mito e il passato classico, hanno avuto l’effetto di arricchire l’immagine della Sicilia, senza però uscire definitivamente dallo stereotipo, anzi aggiungendo nuovi luoghi comuni, nuovi schemi alla rappresentazione. Gli scrittori siciliani, poi, sensibili ad un patrimonio di letteratura e mito, hanno fornito e forniscono il loro contributo nel delineare il paesaggio, consolidando o inventando modelli geografico-letterari. Consolo, per tornare all’autore che ho scelto come guida nel mio viaggio, in un moltiplicarsi di prospettive, integra realtà e concretezza in una Sicilia di carta: accoglie e mette in discussione stereotipi e luoghi comuni che altri prima di lui hanno veicolato, giunge ad un’immagine complessa che rispecchia la complessità dell’isola, propone insomma la sua prospettiva che è il risultato dell’integrazione di infinite altre prospettive. La mia lettura dunque, che ha influenzato la percezione degli spazi, faceva i conti con un patrimonio immenso dal quale in maniera più o meno consapevole il mio sguardo veniva influenzato. La Sicilia con cui ho avuto a che fare aveva sì lineamenti percepibili ai più, anche in forza di un patrimonio e di tradizioni condivise, ma anche sfumature che vedevo solo io.

[1] Il romanzo prende spunto dai racconti del Grand Tour, proponendo l’iter siculum da Palermo a Trapani e ritorno del milanese Fabrizio Clerici in compagnia del fido Isidoro, già fraticello locale. Il diario del protagonista nella finzione narrativa ricostruisce la condizione dei luoghi nel Settecento, rivelando momenti di vera estasi contemplativa negli incontri con i siti archeologici, ancora intatti e avvolti dalla vegetazione.

[2]F. Sorrentino, Introduzione, in Id. (a cura di), Il senso dello spazio. Lo spatial turn nei metodi e nelle teorie letterarie, Armando, Roma 2010, pp. 7-18, p. 10.

[3]J. Kirtland Wright, Terrae incognitae: The Place of Imagination in Geography, “Annals of Associaton of American Geographers”, XXXVII 947, pp. 1-15. reperibile online, ad esempio nel saggio di lettura che ne fornisce D. Papotti: D. Papotti, Re-reading Terrae incognitae: The Place of Imagination in Geography by J.K. Wright, “Journal of Research and Didactics in Geography (J-READING)” 1, 3, june 2014, pp. 89-100, alle pp. 91-100, in rete http://www.j-reading.org/index.php/geography/article/view/71/78 (consultato in data 16 luglio 2020). J. Kirtland Wright rivaluta nel processo conoscitivo il ruolo della soggettività, da sempre considerata deteriore rispetto all’oggettività. L’analisi delle percezioni soggettive consente infatti di esplorare le cosiddette terrae incognitae da una prospettiva nuova, che va oltre i rigorosi principi scientifici; può inoltre svelare quanto di sconosciuto esiste anche nei luoghi che, sulla base di approcci del tutto oggettivi, matematici, si ritiene di conoscere perfettamente (D. Papotti, Re-reading Terrae incognitae…cit., pp. 93-94).

[4]F. Lando, La geografia umanista: un’interpretazione, “Riv. Geogr. Ital.” 119, 2012, pp. 259-298, a p. 276 e nota 50; M. De Fanis, Geografie letterarie. Il senso del luogo nell’Alto Adriatico, Meltemi, Roma 2001, p. 31

[5]È soprattutto Westphal ad aver sviluppato l’approccio critico geocritico, a partire dall’articolo Pour une approche géocritique des textes (pubblicato prima nel volume La géocritique mode d’emploi, Pulim, Limoges 2000), e poi, più approfonditamente, nel volume La géocritique. Réel, fiction, espace, Les Editions de Minuit, Paris, 2000, in italiano Geocritica. Reale, finzione, spazio, trad. di L. Flabbi, Armando editore, Roma 2009.

[6]Ivi, pp. 157-160. Nell’ottica geocritica ogni testo finzionale fornisce un contributo significativo alla creazione del mondo stesso. In uno scambio continuo tra realtà e letteratura, lo spazio non solo ispira la creazione artistica, ma da questa riceve nuova identità. Ivi, p. 14.

[7]Ivi, passim.

[8]G. Cusimano, Del paesaggio e della Sicilia: un’introduzione, in Id. (a cura di), Scritture di paesaggio, Patron editore, Bologna 2003, pp. 9-22, a p. 19. Non è casuale la presenza del lemma «Sicilia» in R.Ceserani, M. Domenichelli, P.Fasano, Dizionario dei temi letterari, Utet, Torino 2007, pp. 2265-2268.

 

campo margherite gialle

2. Spazi in tempo di quarantena. Risonanze collettive e private.

La percezione degli spazi, vi sia capitato o meno di rifletterci, non è una questione banale. Conviene soffermarcisi e indagare i meccanismi che la determinano, che siano in gioco gli ambienti geografici ma anche, in modo diverso, quando pensiamo a quelli privati. Senza contare che pure quelli geografici e di tutti possono avere risonanze particolari per il singolo. E conviene ragionarci perché indagare sulle modalità con cui vediamo lo spazio significa anche indagare su noi stessi, sulla nostra identità.

È interessante, sebbene sia senza dubbio prematuro pensare di trarre delle conclusioni, meditare su come si sia modificata la nostra rappresentazione dei luoghi durante la recente quarantena. Una volta obbligati al perimetro più o meno ampio delle nostre case, come abbiamo guardato agli spazi intimi e come a quelli aperti, che ci sono stati preclusi? E i luoghi che, per evidenze di cronaca, sono risultati più strettamente legati al virus che aspetto hanno assunto?

La letteratura che fiorirà, sta già fiorendo, a proposito dell’esperienza che abbiamo vissuto aggiungerà sfumature. Ma già le immagini che sono rimbalzate su internet, nel mare magnum dei social e nei canali ufficiali, creano una lente che condiziona lo sguardo. Per esempio le immagini sensazionali delle nostre città d’arte. La Siena dove vivo si era mutata in una bella addormentata sul prato di verbena di Piazza del Campo e, se non potevamo ignorare la terra desolata della malattia e della morte del Nord, non fosse altro che per i carri incolonnati di bare sui giornali e nei tg, con stupore abbiamo scoperto scenari nuovi nelle città d’arte abbandonate dai turisti. Questa esperienza e le modalità con cui ce la siamo raccontata hanno evidentemente cambiato la nostra percezione degli spazi e ci hanno portati a riflettere su come li vogliamo davvero quegli spazi, su quali possono essere modalità virtuose e felici dell’abitare. Sperando che non si dimentichi quello che abbiamo capito e che non si smetta di progettare.

Come ci siamo figurati invece la Cina? Se non tutto lo Stato, Wuhan non sarà per sempre, o almeno per un bel po’ di tempo, la culla della pandemia? Una città divenuta, nell’immaginario, tutta mercato umido, addirittura popolata di mangiatori di pipistrelli. Quello che è accaduto ridefinisce, se non per tutti, sicuramente per molti, la percezione dello spazio Cina. La megalopoli che fino a pochi mesi fa era ignota, un punto da cercare su una mappa se qualcuno l’avesse nominata – salvo poi scoprire una città immensa come sono di solito le città cinesi, non solo Pechino e Shanghai –, ha fatto irruzione nella percezione comune, integrando lo stereotipato quadro esotico di un immenso regno densamente popolato dove tutti mangiano cani e fanno soldi. Ma a parte le leggende del tam tam della rete e le notizie dei canali ufficiali sempre piuttosto velate qui da noi, almeno in una prima fase, da una generale sottovalutazione del rischio sanitario, la testimonianza di voci come quella di Fang Fang può fornire un’immagine nuova a spazi geografici reali lontani, qualificandoli come insospettabilmente simili ai nostri, pur nello scarto di alcune settimane. Wuhan. Diari di una città chiusa[9], che è la testimonianza a caldo di quanto è accaduto nella megalopoli cinese – per sessanta giorni, ogni notte, la scrittrice ha pubblicato sul suo blog impressioni, speranze, sensazioni da una città smarrita, sfidando la censura– può non solo produrre una nuova prospettiva sull’Oriente ma offrirci una sorta di specchio in cui possiamo intravedere, con un certo stupore di fronte alla distorsione temporale, i nostri spazi. Chi come me ha esperienza diretta della Cina sa che il silenzio non è cosa abituale nelle città: risulta perciò piuttosto straniante leggere «Nessuno faceva baccano, non si sentivano le persone chiacchierare o ridere»[10], considerazione che si riferisce, tra l’altro, al periodo che ha preceduto l’emergenza vera e propria. E che sia andata proprio così o no poco importa: Fang Fang ci guida in una città sconvolta, terrorizzata, perché lei per prima lo è. Leggiamo però anche di «strade deserte», «mai viste così vuote»[11] e di una «nuvola di paura e ansia» mentre l’intera Wuhan veniva chiusa[12]. Sebbene, che ci si creda o no, il nostro lockdown sia stato più blando di quello orientale, ritroviamo in queste descrizioni i nostri spazi, ritroviamo noi stessi e scopriamo che le reazioni all’emergenza sanitaria ci rendono più vicini e più simili del previsto ai cinesi, nonostante le indubbie differenze culturali. Così l’immagine esotica e pure un po’ bizzarra che pare saltata fuori dalle pagine del Milione si trasforma, diventa più familiare, ha i tratti delle abitudini stravolte, del confinamento negli spazi intimi, privati.

La quarantena, con i suoi ritmi obbligatoriamente lenti, ci ha portato a leggere con occhi diversi anche le nostre case e quanto si offriva alla portata visiva dalle nostre finestre. Nel mio caso pareti, corridoio, cucina non sono cambiati poi tanto. Ma sicuramente diverso era lo sguardo sul desiderato paesaggio della libertà incorniciato dalle finestre o dall’apertura visiva concessami da un affaccio sul balcone. Mi è capitato così di percepire con inedita e meticolosa dolcezza i rami delle acacie che si riempivano di foglie nel viale. I papaveri che invadevano prematuramente le inselvatichite aiuole sotto casa sono diventati la mia primavera. La strada all’improvviso silenziosa la preferivo: l’assenza del traffico abituale permetteva di cogliere una quantità di versi di uccelli differenti. Il cortile condominiale che esplodeva di rampicanti era una piazza di incontri.

Inoltre prima del lockdown avevo previsto un viaggio “a casa”, a Sud, naturalmente annullato. E ho finito col sognare a occhi aperti sconfinati campi bianchi di mandorli in fiore, profili di giganteschi olivi salvi, intatti, a dispetto delle minacce del disseccamento, microcosmi di insetti e erbe tenaci annidati e stretti nei muretti a secco, pietre bianche e antichissime composte in tondo. Nella distanza diventavo olivo, siepe di fichi d’India. Ecco, di nuovo la letteratura, La luna dei Borboni di Vittorio Bodini[13]. Più forte di ciò che è già stato scritto sulla Puglia era però in questo caso la risonanza emotiva: un carico di percezioni sensoriali che risale all’infanzia, ricordi che diventano assoluti, travalicano qualunque pretesa di immagine oggettiva. Percorrevo mentalmente con una felicità rara strade sterrate, affondavo nella terra rossa, cercavo i fiori a stella degli olivi, mi disponevo come le lucertole al primo sole. Ho finito col trasformare in idillio ciò che idillio non è. Così capita ai luoghi che amiamo: che tendiamo a idealizzarli nella distanza, a ricomporceli nella mente, nella memoria, prediligendo i pezzi migliori del puzzle, assolutizzandoli. Non avevo dimenticato all’improvviso le innegabili criticità di un universo fragile – per esempio la precaria situazione sanitaria, la manciata di posti in terapia intensiva che non avrebbero retto un’ondata come quella del Nord –, ma  mi compiacevo nel mettere a fuoco solo un aspetto e miglioravo pure la luminosità, come con uno smartphone mentale. Eppure, accanto al ricordo, forse c’era un’altra causa, ed era la nostalgia dell’Ulisse omerico. Una curiosa forma di retentissement[14], che investe uno spazio aperto che è però anche intimo, privato, quello delle radici che è pure casa, risuona in me straordinariamente dalle pagine del Poeta, e forse non solo in me.

[9] F. Fang, Wuhan. Diari di una città chiusa, trad. dall’inglese di C. Chiappa, Rizzoli, Milano 2020.

[10] Ivi, p. 8.

[11] Ivi, p. 10.

[12] Ivi, p. 11.

[13] V. Bodini, La luna dei Borboni, in Id., Tutte le poesie, Besa, Nardò 2010.

[14]G. Bachelard, La poétique de l’espace, Les Presses universitaires de France, Paris 1961, passim, reperibile in rete http://classiques.uqac.ca/classiques/bachelard_gaston/poetique_de_espace_3e_editionpoetique_de_espace_3e_edition.pdf [consultato in data 20 luglio 2020]. Bachelard parla di retentissement per definire la singolare consonanza di reazioni che coinvolge lettore e poeta: gli spazi possono avere valenze analoghe per soggetti diversi perché è in gioco il coinvolgimento interiore dell’essere umano. Così accade che l’immagine concepita dal poeta affondi immediatamente le proprie radici nel lettore.

Trullo(Fotografie: Ada Bellanova)

ADA BELLANOVA insegna in un liceo di Siena. Scrive narrativa e si occupa di critica letteraria. Si interessa della permanenza del mondo antico nel contemporaneo, della percezione dei luoghi, della memoria e dell’identità. Da quattro anni si occupa della rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo, con particolare attenzione per l’ecologia e per la questione Mediterraneo. Papamusc’ è il suo romanzo del 2016.  Ama la natura.  Crede nella forza dei passi lenti e nella creatività del pensiero e delle mani. foto mia per LMS

Riguardo il macchinista

Bartolomeo Bellanova

Bartolomeo Bellanova pubblica il primo romanzo La fuga e il risveglio (Albatros Il Filo) nel dicembre 2009 ed il secondo Ogni lacrima è degna (In.Edit) in aprile 2012. Nell’ambito della poesia ha pubblicato in diverse antologie tra cui Sotto il cielo di Lampedusa - Annegati da respingimento (Rayuela Ed. 2014) e nella successiva antologia Sotto il cielo di Lampedusa – Nessun uomo è un’isola (Rayuela Ed. 2015). Fa parte dei fondatori e dell’attuale redazione del contenitore online di scritture dal mondo www.lamacchinasognante.com. Nel settembre’2015 è stata pubblicata la raccolta poetica A perdicuore – Versi Scomposti e liberati (David and Matthaus). Ė uno dei quattro curatori dell’antologia Muovimenti – Segnali da un mondo viandante (Terre d’Ulivi Edizione – ottobre 2016), antologia di testi poetici incentrati sulle migrazioni. Nell’ottobre 2017 è stata pubblicata la silloge poetica Gocce insorgenti (Terre d’Ulivi Edizione), edizione contenente un progetto fotografico di Aldo Tomaino. Co-autore dell’antologia pubblicata a luglio 2018 dall’Associazione Versante Ripido di Bologna La pacchia è strafinita. A novembre 2018 ha pubblicato il romanzo breve La storia scartata (Terre d'Ulivi Edizione). È uno dei promotori del neonato Manifesto “Cantieri del pensiero libero” gruppo creato con l'obiettivo di contrastare l'impoverimento culturale e le diverse forme di discriminazione e violenza razziale che si stanno diffondendo nel Paese.

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