Alì il calabrese Intrighi, Magàre ed Intrugli. (Daniele Natali)

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“Buongiorno!”

“La Pace sia su di voi!”

Stretta di mano.

Il tizio che ha parlato per ultimo, si porta la mano sul petto, ha uno strano turbante gonfio sulla testa. Rimane in piedi, aspettando che dall’altro parta il formale: “prego, si accomodi”

“Grazie”

“Allora…” dice la voce dell’uomo arrivato in fretta.

“Allora, caro Dottore, Vi ho portato, tè di Istanbul, quello che beviamo noi intenditori, del buon tabacco da fumare. Vi prego di accettare anche questa seta finissima e questa terrina di olive, sono state appena raccolte da un mio cugino e messe subito in acqua di mare, beh insomma non proprio un mio parente, la mia storia è piuttosto movimentata…”

“Senta” dice l’uomo “Mettiamo subito le cose in chiaro…Eh… Lei non riceverà un trattamento di favore, per queste sue regalie.”

“Ma io le avevo portate per farVi un piacere” si giustifica l’uomo col turbante.

“Lei le metta lì, le lasci, che poi, dopo, con più calma darò un’occhiata… Iniziamo! Generalità: Nome… Come si chiama?”

“Alì” risponde fiero l’uomo orientaleggiante.

“Piacere Alì, io sono il Dottor Caselli, sono qui a Sua completa disposizione”

“Lo sapevo come si chiamava, Dottore. Il Vostro nome?”

“Alberto, Dotto-re Alberto Caselli. Ma non ci perdiamo in chiacchiere! Mi dica il Suo cognome prima che perda il file dalla schermata…”

“Eh?!”

“Il cognome, il co-gno-me!”

“Ulug”

“Dice davvero?” lo guarda il Dottore incredulo.

“U come Uzbekistan, L come Locri…”

“Si, Ulug, nato a…”

“Le Castella”

“In Italia?!”

“In Calabria”

“Signor Alì Ulug”

“Meglio Ulug Alì”

“Signor Alì, spero che lei sia venuto qui, in questo ufficio, già in possesso della cittadinanza, lo sa che prima, i nati in Italia da genitori stranieri non avevano gli stessi diritti… ed oggi non è che si molto cambiata la situazione… lo sa vero?”

“Dottore, io ho la doppia cittadinanza”.

“Bene, perché sennò il suo caso non mi sarebbe riguardato, altro iter: Questura, Cancelleria, Interpreti, insomma, menomale, grazie a Dio…”

“Sempre… e a Maometto, il Suo Profeta”.

 

“Signor Alì, da quello che lei mi ha scritto qui, in questo foglio informativo, prima di entrare nel mio ufficio, non ho capito granché… Che cosa intende con il termine “Indipendenza dallo Spagnuolo” e la dicitura “Domando umilmente udienza al Sultano, al Re o all’Emiro di questi lidi, voglio che Selim, il mio Sovrano, riconosca le speranze della causa Calabrese e Meridionale / liberando li miei connazionali dal giogo cattolico / la terra in cui sono nato”.

“Signor Caselli…”

“Dottor Caselli, Alberto.”

“Si, significa, ciò che c’è scritto, cioè Selim, Dio ce lo conservi, dica addio alle sue remore e dia il via al piano per l’occupazione sistematica dell’Italia meridionale, perla del mare”

“Ma lei è impazzito Signor Ulug Alì, nato a Le Castella?!”

“No, perché? Voglio vedere Voi, se la Vostra terra venisse invasa dai suoi acerrimi nemici…”

“Intanto, l’avete già invasa la nostra terra, prima con i Terroni, poi adesso vi fingete anche marocchini per fregare i soldi dello Stato! Ma andiamo… Poteva scrivere qualche idiozia più ponderata, per farsi dare la pensione per ritardo mentale! Eheheh!”

“Idiozia?! Mi da dell’idiota? Che fa ride? Ritardo Mentale”

L’uomo col turbante fissa l’uomo in giacca, cravatta e pizzetto burocratico, che troneggia gongolando dall’altra parte della scrivania, fin quando questo non sta per riaprire bocca.

E’ un lampo, Ulug Alì tira fuori il pugnale dalla sua cintola, scavalca l’ostacolo, butta dalla sedia chi si prende gioco di lui e con gli occhi iniettati di sangue, si dà ad un omicidio efferato.

“Idiota a me!?” e parte una coltellata tra le tante, “rubare i soldi dello Stato?! Sono un corsaro, idiota, non un pirata” e sguainando la sciabola da dietro la sua schiena, si accinge a tagliare la testa, al corpo senza vita della sua vittima. Emette un grido: “AAAAAAAAAAAAAAAhhhhhhhhhhhhhh!!!”

 

“Oh mamma mia!”

“Cos’è stato, Amore?”

“Niente un brutto sogno, non puoi capire”

“Hai sognato di nuovo di non riassaporare le melanzane di tua madre?”

“No stavolta c’era un fellone, un cretino, un Dottore… vestito anche male…”

“Lascia perdere, dormi adesso”
“Gliel’ho fatta pagare, però!”

“Dormi!”   

 

Cinque giorni dopo i suoi sogni, Alì si ritrovava su una nave spagnola che era riuscito a conquistare.

“Cosa trasportano, marinaio?!” chiese ad un uomo della sua truppa, in ispezione.

“Cannoni, francesi… Comandante”

“Cani di Spagnuoli!” si infiammò Alì “Si fanno la guerra a vicenda! Quei cannoni erano destinati al Nostro Sultano, dobbiamo subito informarlo!”

Poi guardò verso una donna: “E tu cosa hai da dirmi?” si rivolse in turco ai suoi marinai, gridando: “Zitti tutti!!!”

La donna rispose ad Alì, in una strana lingua, agli altri poco comprensibile.

“Tre cose abbiamo dato a Dio e così doveva essere: la fossa, la frusta e la croce. Per questo non ci ascolta più. Devi scarificare al mare i capelli del tuo peggior nemico, trovalo.

Io intanto ti benedico e ti levo il malocchio, fino alla prossima luna piena; il mare di Puglia e il suo vento, ti saranno amici, ma stai lontano dalla Sicilia.

Non mancherà troppo che il tuo nome sarà grande, presso il Profeta che hai conosciuto sul mare”.

 

“E dei nemici, cosa mi dici?!” Chiese Ulug Alì, stringendo a sé un marinaio nemico catturato.

“Guardala negli occhi!” si rivolse a lui.

“Dai suoi occhi vedo sgomento, futuro, per molti tuoi pari, ma per te no, diverso è il tuo Destino. Ben presto riceverai forti guadagni, anche dagli affari coi tuoi nemici”.

I marinai della flotta che non erano calabresi, non capivano cosa i due avessero da parlottare in dialetto, ma a quelle parole, notarono che le vele della nave si gonfiarono, quasi che la furia di Alì, Ulucciallì, il corsaro calabrese presso i Turchi, potesse influenzare i venti.

“Ti sbagli! Con il nemico non faccio affari!” si difende Alì, conficcando ed estraendo il pugnale dalla gola sgorgante di sangue, che teneva vicino, lui servo fidato del Sultano e dell’Impero la mano insanguinata.

Il coltello è un’arma insidiosa, i criminali lo conoscono bene, i corsari imparano ad usarlo, a lanciarlo, a nasconderlo, come faranno più tardi con le asce, soprattutto se prima sono stati schiavi. La lama era la loro inconfessabile “ultima cartuccia”, sia per gli schiavi maschi, sia per le femmine.

Ce n’è una sulla nave di Alì, è una magàraLe magare sono figure mitiche, dei villaggi calabresi.

Antiche guaritrici, preparatrici di unguenti, veleni, cure, conoscitrici della Magia bianca, di filtri d’Amore, del corso delle Stelle, del volo delle api, dei fegati, delle Divinità Pagane, delle Creature di Allah e dei Santi cristiani.

Assunta, tremenda, è la magara a cui Alì confida i suoi segreti e che legge nel suo futuro, è lei l’aiuto medico di bordo, a cui ricorrere, quando la medicina araba e turca, per quanto progredite, non sanno più che pesci pigliare.

Lina, la chiamano gli altri membri dell’equipaggio musulmano, Lina era il suo secondo nome in Calabria ed in Arabo significa “Tenera”, per le cure che dispensa ai feriti o ai valorosi guerrieri squarciati, tranciati, paralizzati da malattie sconosciute persino a lei, che accompagna dolcemente, con una nenia ed una pozione, nel Mondo del “mai-più-dolore”, come lo chiama.

Lina, Assunta, un ennesimo Giano bifronte della Galassia Ottomana, di notte autrice di Scienze ribelli, dimenticate, di giorno corsara, astuta e temibile.

Fu trovata in un negozio di schiavi, gli Spagnoli l’avevano venduta ai Turchi; succedeva anche questo: le guaritrici di paese, erano viste come nemiche, additate come streghe, trattate come schiave e come schiave, vendute.

Le migliaia di croci negate, dovevano fare largo alla Scienza Moderna dei Medici, dei Laureati, dei seguaci del Verbo unico di Galeno, rivelatosi poi, un bell’idolo dorato di sciocchezze, confutato insieme ad Aristotele ed Avicenna, da nomi di questo secolo, Falloppio, Fioravanti, Ulisse Aldrovandi e dal loro spirito critico e innovatore, un fuoco di paglia che verrà presto travisato dalle compagnie degli Speziali, di ieri e di sempre.

La magara di Alì non conosceva il metodo scientifico, come nella notte dei tempi, una cura utile veniva tramandata, oppure si sperimentava sugli animali e sulla loro osservazione.

Proprio dagli animali, Assunta catturata, capì come distrarre le attenzioni degli uomini, per non diventare una cameriera o peggio, una schiava sessuale.

Cosparse il suo corpo con una miscela di ciò che gli scienziati più tardi chiameranno feromoni maschili e si profumò per attirare una donna, cosa che, nelle credenze popolari, non può attirare nessun maschio.

Sua nonna l’aveva predetto: “Verrai venduta da un uomo ma comprata da una fimmina”.

E così la moglie di Alì, rimase quasi stregata, incantata, per non dire innamorata e sessualmente attratta, da quella donna, che tanto creava repulsione negli uomini del mercato e agli schiavisti, senza alcun motivo apparente.

La moglie del corsaro, figlia di un altro calabrese turchizzato dei mari, la sentì inveire in dialetto, lanciando una maledizione contro uno schiavista che stava separando una sorellina dal fratellino e una volta inserita in casa di Alì, pochi giorni dopo, prese subito il mare, libera, legata ai suoi nuovi compagni.

 

Bologna.

 

“Benvenuto fratello Abate!”

“Vi ringrazio fratello ma… cosa vi siete fatto alla mano?”

“Eh… noi frati di città, non siamo abituati a prestare servizio in campagna…”

“Vedo che si è coperto con una cinta di cuoio, è tutto sporco di sangue, lì sul dorso della mano, potrei controllare la ferita?”

“Un…Una fune… mi ha tranciato mentre provavo a… ma non si preoccupi troppo gentile! Non è questo il motivo della sua visita qui, prego”.

L’Abate che scende dalla carrozza riceve come aiuto la mano insanguinata del frate, che non batte ciglio; questo piccolo particolare viene subito notato dal nuovo arrivato.

“Le abbiamo preparato un ricovero in foresteria, potrà fermarsi qui a Bologna un mese intero, come lei ha richiesto, nella sua lettera di risposta”.

“Grazie fratello…” risponde l’Abate, intontito dal viaggio “poi mi spiegherà…” prosegue con tono inquisitorio e quasi fanatico “perché avete terminato tutte le vostre lettere con “DEUS OPTIME MAGNO” (A o per mezzo di Dio, il più buono, il Grande) invece della formula corretta: “DEUS OPTIME MAXIMO (A o per mezzo di Dio, il più buono, il più Grande)”.

“Questa è Bologna, caro padre… si goda la vacanza… lasci in pace il Latino…” risponde il frate, mugugnando tra se e se.

 

Arrivati al convento, l’Abate notò qualcosa di strano, ma si guardò bene dal rendere partecipe, chi lo ospitava, della sua curiosità.

Sull’arco di ingresso del convento, non sulla chiave di volta, ma su una pietra più sulla destra, vi era un cerchio, con un punto centrale, lui non aveva mai visto cose del genere, in tutti i conventi in cui era stato.

“E’ un piacere averla qui, Caro Abate!”

“Don Ciccio Carbone, piacere”, stringendo la mano di quell’uomo, si accorse che il frate aveva un bracciale con lo stesso simbolo che aveva visto sul portale.

“Fra’ Leone, il piacere è tutto mio” disse lo strano uomo, portandosi una mano sul cuore, dopo saluta l’ospite con un abbraccio e poi gli sussurra nell’orecchio: “Sarò la sua ombra”.

“Grazie” disse l’Abate senza sapere cosa aggiungere né cosa volessero dire quei simboli, quei gesti, quelle parole.

“Domani, ha appuntamento con il Nostro Vescovo, per portare i saluti della sua Diocesi e le impressioni sulla… meravigliosa… accoglienza che sta ricevendo; la sua stanza è al secondo piano, le scale sono lì, io mi ritiro”.

Sta volta l’Abate annuì solamente ed aggiunse un “Dio vi mantenga sempre…” senza sapere quale aggettivo aggiungere, troncò la frase, congedandosi “A domani”.

“Che Dio mantenga sempre anche Lei, Abate. Buon riposo”.

Chiusa la porta della stanza a sua disposizione, Don Ciccio, per poco non crolla sotto il suo peso.

“Sono arrivato tardi ma non mi hanno neppure servito la cena… che “meravigliosa accoglienza””, pensò l’Abate, prima di estrarre dal suo baule un coltello con un soppressata, del pane, tagliarli a fette e adeguarsi alla situazione.

Poi pregò, spense la candela e si addormentò.

 

Notte. Nave di Ulugh Alì.

 

“Ahhhhhhhhhh! Nulla.

Incubi. Ancora. Incubi, sogni ridicoli, incubi. Tutte le notti, da un po’ tempo a questa parte, è mio padre che mi chiama, è il prete del mio paese che mi parla degli “infedeli”, dell’inferno, è l’imam che mi parla dei cristiani e mi parla dell’inferno.

La mia domanda più pressante in questo momento per me è: esiste l’inferno?

Ne parlano tutti, chi ha colpa forse è giusto che paghi… ma chi non ha colpa?

Chi è stato scaraventato nelle situazioni…” Si ferma per pensare a se, ad occhi aperti nel buio, Ulug Alì.

“La Legge di Dio, le Leggi dei vari Nomi con cui chiamiamo Dio, ammettono ignoranza?

Non avevo mai ucciso un uomo, prima di cambiare vita, tutto era così normale, scontato, per me. Ero Diogene Galeni, a scuola dal prete mi chiamavo così, ero cristiano, o almeno, di quella parte del mondo che ama definirsi così; ero un bambino, un ragazzo che amava giocare coi suoi coetanei alla guerra, alla fuga dai turchi, quasi che quei giochi fossero serviti a loro per sopravvivere e a me per scappare… Quanti lamenti prima! Rapito da bestie inturbantate, da mostri invincibili e catapultato nel loro mondo a patire stenti, sudore e le villanie di altri subumani, quale io diventai, prima di abbracciare il loro Profeta e diventare io stesso una bestia col turbante e ripetere l’insana pratica, mille volte sempre, con altri me, in catene.

Tutto ciò che avevo imparato, la mia lingua e la mia religione, se possiamo chiamarla così, mi facevano nemico di questo nuovo mondo e del me stesso che sono adesso.

 

Avevo visto un uomo, stramazzato a terra per un ‘offesa, ucciso dalla Picciotteria del mio paese, mentre tutto il paese, silenziosamente guardava altrove. Così, nell’indifferenza persino mia, tolsi la vita ad un altro uomo che offendeva, a quello schiavo napoletano che mi aveva tirato uno schiaffo e mi aveva insultato.

Ma non fu l’unico quel giorno.

Uccidere un uomo è blasfemo ma soffocarlo dentro di se è da malvagi, da cannibali!

Devo vedere Assunta, magari lei saprà come farmi addormentare…”

Si trovarono sul ponte. Lei se lo tenne sul petto, gli diede un infuso di papavero, gli punse l’orecchio con un ago e lo addormentò.

 

L’indomani, ma del 1722, a Bologna.

 

“Noto comportamenti… “particolari” in questa città e molti, anche nel clero, mi sembrano strani.”

“Ahahahaha” il Vescovo si mise a ridere bonariamente “Fratello Abate, se chiedessi a chi l’ha conosciuta in questi giorni, probabilmente anch’essi, direbbero che lei è strano, che si comporta in modo “particolare”!

“Siete molto saggio, Vostra Eccellenza” l’Abate si inchina, sminuendo le cose che lo avevano colpito in città e sui frati della sera, i Vescovi del tempo erano, possiamo affermarlo, come dei Principi Sovrani, dei piccoli Sultani d’Occidente.

“Vedi, noi, Popolo di Cristo, attaccato costantemente da tutti i fronti, dall’indecenza, dalla carne, dalla corruzione, dobbiamo rimanere uniti. E ancora di più, noi”.

“Certo, Eminenza”

“Niente è lasciato al caso da Dio, anche gli apostoli, dodici, tre per quattro, un numero divino per un numero umano.”

L’Abate non capiva il perché di tale sfoggio di numeri.

“Umani, come noi, caro Don Ciccio, con le nostre debolezze, divini con la loro preghiera… ed il loro silenzio!”

L’ultima parola rimbalzava in gola all’Abate, vi era una malcelata minaccia in quelle parole, nel tono che le accompagnavano, che lo terrorizzava, in fondo non era così usuale per lui, né per il suo tempo viaggiare, spostarsi, per interesse, “ma si…” pensò… “tutte queste cose non hanno senso!” e domandò all’alto prelato, come se non avesse colto l’intimidazione della frase:

“Si spieghi meglio Eminenza”

“Il silenzio aiuta la preghiera, la pace la salute dell’Anima. Ma il caos…” e il Vescovo mosse la testa per dire no-no-no.

“Quando tra i discepoli qualcuno esagerava, in male o in bene, nessuno lo faceva notare agli altri” e detto questo, mostrò il suo guanto rosso che gli copriva la mano destra, aveva ricamato un cerchio con al centro una grossa gemma preziosa.

“Erano perfetti” continuò. “Nessuno sbagliava, non perché non sbagliassero ma perché nessuno lo andava a dire in giro” detto questo si portò un indice sul naso, come per fare il gesto del silenzio e poi lo mosse roteandolo in aria.

Erano punti, equidistanti da uno stesso centro.

Né facevano notare il buono per non corrodere l’umiltà e la modestia altrui, ne andavano dal Cristo, o da Pietro” partì un colpo di tosse “a spifferare…

L’unico che tradì gli altri, fu Giuda e sappiamo come finì…”

 

L’Abate tornò sui suoi passi, aveva capito che il Vescovo faceva parte di qualcosa, di inconfessabile, così come gli altri due frati e si scusò come può fare una persona nel giusto, accusata da un superbo:

“Mi scuso, Vostra Eminenza, mi sembra dalle vostre parole, che io abbia esagerato…”

“Nooooo!” ribatte subito il Vescovo “Perché dice così? suvvia! Io non le ho detto niente in fondo, eh! Dei segnali spesso non dicono granché a chi non li sa riconoscere.”

Il Vescovo cambiò completamente discorso e recitò la parte dell’uomo di Potere, oberato dal suo lavoro: “…Da poco sono arrivati a Bologna dei versi satirici, antimonarchici e contro il clero, di un tale, Aruet de Voltaire, o più semplicemente Volteeer; Bologna sta diventando ingestibile!”

“Sire, le coste calabresi sono infestate dai Turchi, oggi come ieri, ognuno ha i suoi problemi.

Le porto i saluti della mia Diocesi”.

“Ringrazi il suo Vescovo e ricambi con i doni che farò giungere in convento, questi sono soldi, nella valuta bolognese, baiocchi, lire bolognesi, l’aiuteranno in questo mese. Per qualsiasi cosa, si rivolga a me.”

“Non ne dubiti” disse Don Ciccio, credendo poco alla proprie parole.

“La aiuterò in tutto… o quasi” Sua Eminenza lanciò un’occhiata verso l’Abate che gli raggelò il sangue, questi gli baciò l’anello, si inchinò, si fece benedire e se ne andò; il Vescovo lo scrutò attraverso il lungo corridoio e mentre la porta si chiudeva, quasi sorridente, disse, assiso sulla sua sedia: “Arrivederci, Arrivederci… Alla prossima…”

 

di Daniele Natali      LogoCC

 

Foto in evidenza di Teri Allen Piccolo

 

Riguardo il macchinista

Daniele Natali

Daniele Natali è uno dei macchinisti fondatori e ha collaborato fino al numero 4 del contenitore. Si è ritirato dal gruppo operativo a novembre del 2016. Nato a Catanzaro nel 1988, cresce in un ambiente stimolante di migrazioni ed incontri nella sua casa sul Golfo di Squillace. Fin da piccolo si occupa di teatro, trasferitosi a Torino inizia a scrivere. Partecipa a varie edizioni di Festivaletteratura di Calabria posizionandosi sempre tra i primi tre posti. Menzione d'onore per il premio nazionale "Penna d'autore" di Torino. Trasferitosi a Bologna, conduce il programma "Parola Sonora"., format di Ciao Radio. Vince nella sezione Poeti per "Musici e Poeti", premio di radio Città Fujiko.

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