Acqua di colonia è uno spettacolo solo per bianchi? (dibattito da ateatro webzine)

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Nell’ambito dei dibattiti e dei contributi a La Macchina Sognante che si cimentano con l’idea che, nel discorso sul razzismo, esiste la necessità di far confluire all’interno della lingua italiana nuove terminologie, nuovi lemmi, che per una serie di motivi storici sono stati e continuano ad essere assenti. Come “madre macchinista” del contenitore proporrei che in campo teatrale si cominciasse a parlare di certe pratiche che vedono il corpo nero come oggetto di scena o elemento coreografico, sorvolando il problema politico che tale atteggiamento comporta. Il ritardo in Italia di un dibattito serio sulla questione è rivelato anche dalla disinvoltura con cui gli operatori culturali mettono ancora in scena il blackface, sull’intero territorio italiano dalla metropoli milanese alle punte più meridionali della penisola.

Abbiamo ripreso questo dibattito da ateatro nello spirito che possa stimolare  altri contributi dai nostri lettori e dalle nostre lettrici, reazioni e commenti che potrebbero anche essere ospitati nei numeri successivi del contenitore.

 

PREMESSA

Mimma Gallina su Ateatro ha già parlato di Acqua di colonia di e con Elvira Frosini e Daniele Timpano, uno degli spettacoli più significativi delle ultime stagioni anche per i temi “scomodi” che afronta: in apparenza si parla di storia, ovvero del colonialismo italiano, mentre si parla di attualità, attraverso il confronto tra gli “italiani brava gente” di ieri e di oggi.
E’ un lavoro volutamente scomodo e provocatorio, che nella prima parte oltre al duo Frosini-Timpano vede in scena una terza presenza.

“Nella prima parte di Acqua di colonia abbiamo voluto un ‘ospite nero’, in scena con gli attori. Non un attore a sua volta, ma una figura silenziosa ‘senza diritto di parola’. L’ospite – a ogni replica diverso – viene trovato di volta in volta nelle città dove si rappresenta lo spettacolo. Una persona nera, se possibile originaria di una ex colonia italiana in Africa, preferibilmente donna, preferibilmente afro-italiana di seconda generazione, o comunque qualcuno che sia in Italia da qualche anno e capisca bene l’italiano. Preferiamo che l’ospite non conosca lo spettacolo e lo ascolti in scena per la prima volta, ma cerchiamo di incontraci, conoscerci prima e parlarne assieme. Il discorso non è affatto “pornografico”: non mettiamo in scena una persona traumatizzata, tolta da un centro per rifugiati, da offrire in pasto alla bulimia visiva degli spettatori o alla pietas da salotto, né vogliamo mettere in crisi la persona ospite, ma lavorare sulla percezione stereotipata, sui pregiudizi, sui sensi di colpa, sul buonismo di chi guarda, sulle inevitabili proiezioni che facciamo – nostro malgrado: da italiani, da occidentali – su un corpo nero.”

Ma che cosa accade quando alcuni ‘ospiti neri’ siedono in platea, come spettatori? Abbiamo raccolto la testimonianza di Abdoulaye Ba, rifugiato politico e attore, e abbiamo chiesto agli autori dello spettacolo Elvira Frosini e Daniele Timpano di ripondere alla sua lettera aperta. I nodi che toccano questi due interventi sono importanti e vanno al di là della reazione di un singolo spettatore a un singolo spettacolo. I progetti non solo teatrali centrati sul dialogo interculturale sono sempre più numerosi (basti pensare al progetto Migrarti sostenuto in queli anni dal MiBACT) e offrono una sonda importante per capire l’evoluzione artistica, culturale, sociale e politica del nostro paese e forse anche per accrescere la consapevolezza e la capacità di dialogo. Il dibattito è aperto, nei prossimi giorni pubblicheremo altri contributi alla discussione.

ACQUA DI COLONIA È STATO PER ME COME UN INCUBO
di Abdoulaye Ba

Sono un rifugiato politico senegalese di 24 anni. Sono arrivato in Italia due anni fa, ho appena ottenuto il permesso umanitario. Recito con la compagnia Teatro Periferico.
Lo spettacolo Acqua di colonia è stato per me come un incubo. Non avrei mai pensato che fosse così. La parola “acqua” presente nel titolo mi aveva fatto pensare a uno spettacolo dolce che parlava di origini; poi, qualche ora prima di vederlo, mi dissero che parlava di colonialismo. Fino al suo inizio non avevo immaginato la storia.
All’inizio sembrava uno spettacolo normale, dalle prime battute venivo a sapere delle colonie italiane in Africa; poi ho iniziato a sentirmi come se il soggetto fossi io, mentre tutti erano contenti e concentrati sui due attori che parevano confermare con odio l’inferiorità dell’uomo nero (africano). Più lo spettacolo andava avanti, più io mi sentivo colpito. Per me, in quel momento non stavano più parlando di colonialismo ma era come se stessero seminando odio contro l’uomo nero. Sentivo tutte quelle battute, vedevo gli altri ridere, felici, allegri…
Ho capito che l’intenzione degli attori era quella di mostrare le brutture degli italiani razzisti, ma il linguaggio usato mi feriva. Avrei preferito che questo argomento fosse trattato seriamente, invece di riderci sopra. Inoltre, capisco che per gli italiani che sono stati colonialisti sia importante ricordarsi di ciò che hanno fatto in passato, per non ripeterlo in futuro, ma io avrei preferito sottolineare il positivo e non soltanto il negativo. Per chi ha vissuto certe esperienze dolorose è difficile rivedersi in quelle condizioni, anche a teatro. Se avessi saputo di cosa parlava lo spettacolo, e in che modi, non sarei venuto a vederlo.
Dopo sessant’anni di storia ho visto ancora delle scene che rinforzano tante cose sbagliate. Per me la storia deve servire per il presente, per non rifare gli stessi errori del passato e non solo per ricordo. Insomma, lo spettacolo Acqua di colonia è stato un incubo e mi ha tolto l’energia del teatro.

NON VOLEVAMO CONSOLARE NESSUNO
di Elvira Frosini e Daniele Timpano

Abbiamo letto la lettera che uno spettatore, Abdoulaye Ba, ha scritto dopo aver visto Acqua di colonia al Teatro Nuovo di Varese. Non è la prima volta che ci troviamo a parlare di un nostro lavoro con degli spettatori rimasti colpiti, sorpresi o spiazzati dal suo linguaggio o dai suoi contenuti, per alcuni esaltanti, per altri urticanti, anche se per lo più si è trattato sinora di confronti a bordo palco, in camerino, o in mail e discussioni private. Ci interessa sempre molto sentire o leggere le reazioni, i pensieri e le considerazioni degli spettatori, così come quelle degli ospiti afrodiscendenti che di volta in volta coinvolgiamo in scena. È naturale che ognuno abbia le proprie emozioni e reazioni, e ragioni, che sono uniche e dipendono naturalmente dal proprio vissuto. In questo caso ci sembra importante sottolineare una cosa, per noi, assolutamente evidente: Acqua di colonia parla e fa parlare soltanto una parte del discorso – e lo fa in maniera radicale -, nel nostro spettacolo l’altro non ha parola, né suono, né pensiero. Come autori e registi, crediamo che questo totale sbilanciamento, pensato e voluto, sia molto evidente per chi vede lo spettacolo. Certo, si parla del passato, il colonialismo italiano, ma in maniera molto chiara si parla anche di oggi, del presente. Di noi.
Il nostro linguaggio si regge su un gioco di ironia e ferocia: utilizziamo l’ironia, certo, e gli spettatori ridono, anche, e quello che ne emerge è in un certo modo agghiacciante, è verissimo. Ma non c’è niente di compiaciuto o assolutorio in questo; anzi, quel riso, già da subito, quella leggerezza iniziale di cui parla Aboulaye Ba nella sua lettera, vuole essere perfettamente funzionale a fare abbassare le difese allo spettatore, a farlo entrare in un vortice dal quale poi non si potrà sottrarre.
Acqua di colonia è uno spettacolo serissimo.
Certo, se ci si aspetta di vedere una bella storia edificante su quanto siamo umani e fratelli tutti, non è questo che facciamo. Il dialogo con l’altro in questo spettacolo non c’è, forzatamente, mettiamo in scena precisamente questa assenza di dialogo, c’è invece qualcosa che sta prima ancora del dialogo, e cioè un tentativo di presa di coscienza dell’impronta colonialista e razzista stratificata in noi, nel nostro immaginario, nella nostra cultura. Non si tratta di “rinforzare le cose sbagliate”, semmai di riportarle alla coscienza, perché assolutamente sepolte, mistificate e assolte.

Lo spettacolo è un incubo, è vero.
Non ci sorprende abbia avuto un impatto forte e anche duro.
Non volevamo consolare nessuno.

MA L’ERA DELLE COLONIE È DAVVERO FINITA?
di Saran Vittoria Keita

Mi chiamo Saran Vittoria Keita, ho 26 anni e come si può dedurre dal mio nome sono un’afro-italiana cosiddetta di seconda generazione. Sono stata ospite e spettatrice dello spettacolo Acqua di Colonia all’interno del “Chimera Festival” il 27 marzo 2018 in provincia di Viterbo. Ero seduta in una piccola sedia al centro del palcoscenico, con una luce che puntava su di me per l’intero spettacolo.
Dalle prime battute si capisce subito che Acqua di Colonia non è uno spettacolo da prendere a cuor leggero. Finalmente ho potuto assistere e partecipare a uno spettacolo che tratta argomenti scomodi come il colonialismo.
Abbiamo sempre sentito parlare di colonie francesi, inglesi, portoghesi in maniera insistente, ma di quelle italiane?! Se non in qualche capitolo sui libri di storia fatto in maniera abbastanza frettolosa, questo tema non si è mai affrontato in maniera diretta. Si è raccontata molta più storia in questa ora di spettacolo che in svariati anni di scuola.
Leggendo le varie lettere aperte riguardo allo spettacolo di Elvira Frosini e Daniele Timpano pubblicate su Ateatro, quella che mi ha decisamente più colpita è stata quella di Abdoulaye Ba.
Dice che nello spettacolo dovrebbero raccontare anche fatti positivi, oltre a sottolineare quelli negativi. Ma come si può raccontare il lato positivo di una colonia?! Cosa c’è di positivo nell’andare in una terra ed espropriarla con forza e arroganza, trattando il popolo che vi abita come fossero animali da zoo?!
Il fatto che i nostri genitori siano emigrati per svariati motivi molti anni fa e che si continui a fuggire da guerre e povertà, vuol dire che forse in queste colonie, in cui gli europei avrebbero dovuto portate civiltà, lavoro eccetera, qualcosa è andato storto, no?! Il lato positivo è forse che hanno asfaltato un paio di strade, che al giorno d’oggi sembra ancora difficile farlo in questa Europa cosi civilizzata? O forse che hanno costruito un paio di palazzi, abitati sempre dai colonizzatori, per avere una migliore visuale in un museo a cielo aperto?
Credo che nel XXI secolo ci siano ancora persone convinte della superiorità dell’uomo bianco, per questo il linguaggio usato nello spettacolo doveva e deve essere forte.
Se gli spettatori ridono per delle battute che racchiudono tutta la verità di ciò che pensavano e pensano alcune persone, invece di capire che quella non era una battuta tanto per riderci sopra, non possiamo di certo incolpare gli attori. Perché invece non ci domandiamo il perché alcuni spettatori ridono e si divertono su determinate battute?! Forse perché in realtà l’era del colonialismo non è passata realmente del tutto?!

Basti vedere come, quando in alcuni stati africani c’è un qualsiasi tipo di problema, gli ex paesi colonizzatori vengono “in aiuto” delle loro ex colonie, come se la popolazione fosse del tutto incapace di risolvere i propri problemi e avesse bisogno di una baby sitter.
Di certo non si può superare il problema solo evitando di parlare dei fatti negativi del colonialismo, penso anzi che abbiamo passato troppo tempo ad evitare di parlarne. Lo spettacolo di Elvira Frosini e Daniele Timpano finalmente porta a galla tutto questo, con un mix di serietà e ironia amara, smuovendo la coscienza delle persone.

IL PROBLEMA È L’IRONIA?
di Oliviero Ponte di Pino

Quanto possiamo essere ironici senza rischiare di essere fraintesi? C’è un’ironia “buona” e perciò legittima e culturalmente produttiva, e una ironia “cattiva” che va dunque (auto)censurata?
L’ironia secondo il dizionario è la alterazione spesso paradossale, allo scopo di sottolineare la realtà di un fatto mediante l’apparente dissimulazione della sua vera natura o entità.

Per cogliere l’ironia è dunque necessario decodificare un messaggio che ha almeno due livelli: il significato letterale, apparente, superficiale; e quello reale, ma occulto, dissimulato, che in qualche modo contraddice il primo. Questa doppia decodifica mette in discussione anche il codice in cui è inscritto il primo livello, quello letterale, e dunque finisce per mettere in discussione inevitabilmente anche l’altro codice.
L’ironia gioca sull’esagerazione, sull’assurdo, sulla contraddizione, sul paradosso: sono questi gli indizi che spingono a dubitare del significato letterale e ad andare alla ricerca di altre chiavi interpretative. Ha anche una dimensione teatrale: per fare ironia bisogna “mettersi nei panni dell’altro”, ovvero di chi sostiene la tesi o la posizione che vogliamo confutare. Per smascherarlo dobbiamo indossare la sua maschera. Come il teatro, l’ironia è una menzogna creata per essere svelata. Anche se il processo di svelamento può essere faticoso e doloroso, e magari lento, perché smonta le nostre certezze e i punti di riferimento a cui eravamo abituati.
Come sanno bene gli esperti di comunicazione, non tutti “colgono l’ironia”. E’ più semplice capire e accettare la satira, la parodia, il sarcasmo, ovvero l’aggressione verbale che ridicolizza l’avversario e magari lo offende. Si ride dei ciccioni e dei nani, dei neri (se siamo bianchi) o dei bianchi (se siamo neri). I “normali” sbeffeggiano omosessuali e handicappati. Si ride da sempre del diverso perché ciascuno di noi vuole sentirsi normale. Non a caso la comicità facile e aggressiva è l’arma preferita dai politici, dagli show televisivi, dalle tifoserie calcistiche, dai razzisti: è una risata che conferma certezze e identità aggredendo l’Altro. L’ironia invece destabilizza, ci obbliga a metterci in discussione, cerca di spostare gli equilibri. E’ un’arma che va maneggiata con cura, soprattutto quando si incontrano orizzonti culturali diversi, sospesi tra due codici culturali intraducibili.
Un caso recente di incomprensione riguarda una felpa prodotta dalla multinazionale H&M, con la scritta “The Coolest Monkey in the Jungle”, più o meno “La scimmia più figa della giungla” (La notizia su #Censure101. Il designer voleva essere ironico. Quando hanno scelto come modello per il catalogo online un ragazzino di colore e gli hanno fatto indossare quella felpa per la foto promozionale, il messaggio avrebbe voluto assumere anche (forse) una intenzione autoironica: “Abbiamo superato il pregiudizio razziale, tanto bene che possiamo addirittura riderne”. Ma se l’immagine viene presa alla lettera, quel catalogo dice solo: “Io sono una scimmia appena scappata dalla giungla. Noi neri siamo scimmie”, come nei più idioti post razzisti (a causa dei tag razzisti, se cercate su Google Photo “orango” o “scimpanzé” non trovate nessun risultato e anche i signori “Negri” sono scomparsi da Facebook). In Sudafrica il messaggio è stato letto come un insulto razzista e i negozi della H&M sono stati assaltati e devastati dalle proteste di chi si è sentito offeso.
Il politicamente corretto rifiuta sia la satira aggressiva sia l’ironia. Vuole messaggi semplici e chiari, che non offendano nessuno. Invece l’arte, per sua natura, costruisce messaggi complessi e ricchi di stratificazioni di significato. I capolavori della storia dell’arte e della letteratura sono spesso pieni di sottili ironie e di ambiguità. Ci illudiamo che per i classici questa molteplicità di senso sia inesauribile.
Dell’uso e delle conseguenze dell’ironia in questi tempi difficili hanno discusso Salman Rushdie e Wim Wenders. Lo scrittore anglo-indiano Salman Rushdie è stato vittima del 1991 della prima fatwa, quella che condannò I versetti satanici: evidentemente l’ayatollah Khomeini non aveva colto l’ironia del romanzo e la sua natura di invenzione fantastica. Minacciato di morte, Rushdie ha vissuto per anni braccato, in clandestinità e sotto scorta. La fatwa non è mai stata revocata e quando nel 2016 Rushdie è stato invitato a tenere il discorso di apertura alla Fiera del Libro di Francoforte la delegazione iraniana si è subito ritirata. La strage di Parigi nella redazione di “Charlie Hebdo”, il settimanale satirico parigino politicamente molto scorretto, ha spinto lo scrittore a interrogarsi ancora più profondamente su quello che gli era accaduto, a partire da un punto di vista che ho sentito esprimere la prima volta da Wim Wenders. Il regista mi disse che nella nostra epoca complessa e disorientante era importante che nel narrare storie gli artisti evitassero accuratamente l’ironia. Ormai non potevamo più permettercela. Bisognava invece essere limpidi e cristallini, così che il pubblico, o il lettore, non avesse dubbi circa gli intenti dell’artista.
(Salman Rushdie, La lingua ai tempi della Jihad, in “la Repubblica”, 19 ottobre 2014)

Per evitare di essere frainteso, e magari per non dare motivo di rappresaglie agli integralisti, Wenders – il regista che nel film Il cielo sopra Berlino ci ha fatto vedere e ascoltare gli angeli – ha deciso di rinunciare all’ironia. Rushdie, al contrario, continua a rivendicare il diritto e la necessità dell’ironia e della sua forza provocatoria, ovvero di quello che tutti i fondamentalisti temono, rifiutano e perseguitano perché pretendono una interpretazione chiara e univoca dei testi (che è poi quella che decidono loro).
L’ironia è stretta parente dell’ambiguità e dell’interpretazione. E’ alla base di qualunque pensiero critico. Moltiplica i punti di vista, ci invita a cogliere la complessità del reale e la sua ambiguità.
La provocazione ironica comporta diversi rischi. Il primo è quello del fraintendimento: chi emette un messaggio non può controllare le sue interpretazioni. Altri pericoli riguardano le conseguenze di queste provocazioni, le reazioni semplicistiche e spesso violente di chi si sente offeso, le repressioni dei custodi dell’ortodossia, i paladini del “comune sentire” e del “comune senso del pudore”.
C’è un altro rischio, più profondo. Con la moltiplicazione dei punti di vista, l’ironia spinge a relativizzare, e rischia di mettere tutto e tutti sullo stesso piano. Appiattisce valori e identità. Sarebbe la porta d’accesso ai deserti del nichilismo perché si può ridere di tutto e del contrario di tutto.
Oggi in un mondo globalizzato e sempre connesso dove si intrecciano culture, storie e sensibilità personali e collettive molto diverse, la responsabilità che comporta qualsiasi tipo di comunicazione sono diventate ancora più grandi e complesse. Nella nostra società si erano delimitati, almeno informalmente, diversi ambiti di discorso: per esempio quello della politica, quello dell’arte, quello della pubblicità, quello della satira… In ciascuno di questi ambiti è diverso il confine di quello che si può dire, di quello che si “deve” dire, di quello che è opportuno dire. Nel grande calderone della comunicazione globale, a cominciare dall’arena dei social network, queste distinzioni affievoliscono e chiunque può leggere qualunque messaggio in qualunque modo perché di fatto non esistono più contesti specifici e separati. Le responsabilità e i rischi di tutti noi sono enormemente maggiori. Con un paradosso. L’ironia e la provocazione sono sempre più difficili da usare correttamente. Per qualcuno sono troppo pericolose e vanno dunque evitate, in maniera paternalistica o autoritaria. Per altri proprio per questo risultano sempre più necessarie. Con un avvertenza: il necessario rispetto delle singole persone, a cominciare da quelle più deboli.

TROPPO DOLORE PER LA SATIRA
di Déguène Mbow
Io non l’ho percepito per nulla come Abdoulaye Ba, ma ho anche una storia molto diversa.
Mi chiamo Déguène M’Bow, madre italiana padre senegalese, cresciuta per i primi vent’anni in Senegal e quelli dopo in Italia. La premessa degli attori nella richiesta di comparse che avessero doppia cultura o comunque fossero in Italia da tanto era probabilmente importante per questo, per avere forse meno probabilità di fraintendimento.
Certo che gli attori sono violenti nel linguaggio e fanno fuoriuscire sofferenze del nostro passato che, proprio per loro capacità di recitare e perché non abbiamo curato le ferite, continuano a suscitare in noi. Io ho fatto l’ospite a Milano e mi sono vergognata anch’io. Perché è umiliante. È umiliante il fatto che, in così tanto tempo, non siamo riusciti a reagire in qualche modo alla violenza che ci hanno inflitto ed abbiamo ancora nel 2018 un complesso d’inferiorità lasciatoci dal colonialismo che continua ad umiliarci e ci permette molto difficilmente di risollevarci. Per quanto continuammo a far finta di niente abbiamo bisogno di slogan come “Black is beautiful” o “Fiero di essere nero” nel 2018 per muoverci fra i bianchi. Abbiamo ancora bisogno di ricordaci che siamo fighi anche noi, perché siamo ancora estremamente vulnerabili, quindi dobbiamo uscire con i cartelloni, fuori da un trauma e cercando di ritrovare un’identità in questo mondo che fa finta di accettarsi per come siamo ma la realtà è che non ci chiede il nostro punto di vista ma d’integrarci nel sistema del potente (bianco).
Penso che per non offenderci davanti a questo spettacolo molto rischioso proprio perché parla di un tema serissimo non con pesantezza e noia ma con ironia, bisogna prima di tutto aver fatto pace fra bianchi e neri per le ferite aperte ma anche con noi stessi, come bianchi con il senso di colpa e come neri con il complesso d’inferiorità che ci portiamo dietro e per farlo, come in qualsiasi percorso psicologico, dobbiamo affrontare le nostre paure accettando di rivivere le cose come stanno senza pietà ne pietismo. Può apprezzarlo solo chi se n’è liberato, in modo da affrontare tutta questa violenza senza vergogna nel 2018, perché si ha la capacità di osservarla dall’esterno.
Per me è uno dei pochi spettacoli o modi di descrivere i fatti che ho apprezzato perché non cade nel paternalismo e denuncia proprio il desiderio, per dominazione in questo caso, ma esiste ancora anche subdolamente tramite la carità cristiana o per paternalismo di sinistra (sì, neanche le politiche di sinistra ci arrivano!), di decidere per la vita del nero, perché lo si considera incapace di decidere per sé.
E per quanto Elvira e Daniele parlassero di colonialismo, questo argomento del nero muto mentre lo si violenta è ancora attuale. Nel 2018 è ancora il bianco che decide se il nero può muoversi nel mondo (i visti non esistono per i neri non facciamo finta del contrario, non è autorizzato ad avere alcuna ambizione di cambiare vita se non, a volte, in situazione di vita o di morte(rifugiato)) , con chi (chi viaggia deve abbandonare una famiglia che chissà se e quando la ritrova in questa vita) e per dove (devi stare rinchiuso qui, non puoi lavorare finché non decidiamo noi di permettertelo tramite un permesso, non puoi andare in Belgio perché hai messo piede in Italia, questa è accoglienza quindi per il momento hai bisogno di un tetto e un piatto di pasta e di aspettare, e i tuoi sogni non hanno importanza perché le leggi sono nostre quando sei da noi, ma sono nostre anche quando siamo da te perché nessuno si permette in Africa nera d’impedire a un bianco di svolgere la vita che vuole con delle regole ad hoc o di rinchiuderlo per accoglierlo e integrarlo). E se questo sistema è normale per tutti, (e lo è sia per i bianchi che per i neri!) è proprio perché non siamo ancora in grado si sbucciare il nostro dolore alla violenza che esprimono Daniela e Elvira per vedere il fondo del problema, ma stiamo ancora subendo, siamo ancora troppo feriti per farci per denunciarlo se non nella pesantezza. Troppo dolore attuale per la satira.

LA SOLITUDINE DELLA VITTIMA
di Margherita Ortolani

Cari Elvira e Daniele,
come sapete, parte fondamentale di Diverse Visioni sono gli incontri di restituzione che seguono alla visione degli spettacoli. Sto cominciando a capire, dopo un po’ di spettacoli ed incontri condivisi con i ragazzi, che al di là dell’entusiasmo che riguarda sempre l’esperienza in generale (“Bello”, “Mi è piaciuto”), i pensieri più puntuali hanno bisogno di più di tempo per affiorare ed essere espressi, un po’ per organica sedimentazione di quanto visto, un po’ per volontà di non dispiacere, o disagio nel mostrarsi critici (il fatto, invece, che questi punti di vista possano essere espressi è una delle principali ragioni per cui Diverse Visioni è nato), ed un po’ anche per la giovanissima età che in Diverse Visioni è rappresentata: uno sguardo, che al di là della cultura di provenienza, è ancora freschissimo, appassionato, volubile ed infedele.
Acqua di Colonia ha avuto un incontro dedicato, ma è stato soprattutto uno spettacolo che è ritornato nei discorsi e negli esempi. I ragazzi hanno anche letto questo articolo, ma non lo abbiamo discusso tutti insieme. Quello che è emerso già dal primo incontro, e poi, via via con più lentezza, per la non totalità, ma buona parte del gruppo, è che lo spettacolo non è risultato offensivo, ma in qualche misura, e soprattutto in certi passaggi, li ha feriti. Cerco di essere il più precisa possibile, perché la questione è talmente sottile, ed implica degli spostamenti di percezione così strettamente legati al background, che io stessa ho dovuto autotradurli in esempi a me più vicini per provare a comprenderli, e il rischio di essere fraintesi, mi rendo conto, è altissimo. In generale il gioco portato in scena è stato per tutti molto chiaro e non è stato considerato offensivo, anzi il fatto che tema dello spettacolo fosse proprio la storia rimossa o censurata del colonialismo italiano è stato uno degli elementi più apprezzati e una delle ragioni per cui lo spettacolo è stato inserito nel percorso di Diverse Visioni, visto che la maggior parte dei ragazzi lamenta spesso una non conoscenza, da parte “nostra”, della Storia africana. Anche l’ironia è stata colta a pieno (e rispetto all’ironia vorrei dire che, per quanto ho potuto ricavare dalla mia diretta esperienza sia qui, sia in Africa, sia dalla fruizione della letteratura, fiabe, poesie, mi sembra un elemento molto presente nella cultura subsahariana sia nel quotidiano sia nelle forme rappresentative, forse è il sarcasmo ad essere più raro).
Ciò che li ha feriti è stata la rappresentazione dell’uomo di colore secondo stilemi tipici che, pur riconoscendo motivati da una critica ad una certa cultura colonialista che si voleva rappresentare, pur arrivandone ad accettare l’effetto comico, trovavano comunque sminuenti e il fatto di essere lì, spettatori di questo, ha causato in loro un senso di solitudine e di imbarazzo. Potrei sbagliarmi, ma se provo a rapportare a me stessa una sensazione vagamente simile, immagino di poterla paragonare, su scala diversa, al fastidio e comunque l’umiliazione che mi provoca una certa rappresentazione standardizzata del “siciliano”, che, per quanto magari esteticamente eccelsa, va a toccare delle corde che mi costringono quasi a mettermi sulla difensiva.
Vorrei precisare che i piani erano ben distinti, cioè questo non comprometteva il giudizio sul valore del lavoro o della qualità attoriale, ma proprio perché distinti un’osservazione interessante è stata quella secondo cui, in quei punti, il gioco restava vittima di sé stesso e questo è stato un elemento che li ha per altri versi anche divertiti e su cui hanno continuato a ragionare anche dopo aver visto altri spettacoli da cui si sentivano “messi in scena”. Come pure, altro aspetto che li ha molto divertiti, è stata la reazione del disordinato pubblico di Palermo durante la replica a cui abbiamo assistito, l’insofferenza percepita a tratti, le rimostranze.
Perdonate la lunghezza di questo commento, ma ho cercato di trascrivere nel modo più chiaro possibile quelle che erano sensazioni raccolte durante questi mesi senza tradirle, proprio perché ritengo che questo piano di discussione che stiamo affrontando sia fondamentale e direi ormai quasi imprescindibile. Grazie quindi per l’occasione.

GLI SPETTATORI COME VITTIME COLLATERALI?
di Dario Villa

Gentile Saran Vittoria,
non credo che Abdoulaye volesse dire che si sarebbe dovuto parlare di ciò che i coloni hanno fatto di bello e di buono. Questo è importante chiarirlo, altrimenti la discussione si sposta su un piano sbagliato.
Abdoulaye – lo so per averlo avuto accanto durante lo spettacolo e dopo avere discusso con lui in seguito – è rimasto colpito, semmai, dalle becere espressioni razziste, dagli insulti espliciti rivolti ai “negri” e dagli epiteti denigratori riservati ad Allah (Abdoulaye è musulmano), oltre che dai ragionamenti sulla razza espressi con fredda razionalità (vedi le ragioni di Kant a proposito dell’inferiorità dell’uomo nero) e, non ultimo, dalla reazione divertita del pubblico.
Tutto ciò, che a me – e non solo a me – ha provocato un sentimento misto di schifo, rabbia e incredulità, non è apparso agli occhi e alle orecchie di Abdoulaye solo disturbante (tale, credo, voleva essere il risultato che Daniele ed Elvira volevano produrre in noi spettatori italiani), ma ha rappresentato un attacco, oserei dire, quasi personale, tant’è vero che lui ha parlato di Acqua di colonia come di un vero e proprio “incubo”.
La forma usata dalla compagnia, in questo caso si è rivelata un’arma a doppio taglio: si voleva colpire i razzisti italiani, metterli alla berlina e mostrargli la loro vera faccia, ma si è anche colpita una vittima dei razzisti stessi (anzi, più d’una, a dire il vero, perché erano tre gli attori neri, tutti richiedenti asilo, della nostra compagnia presenti in sala quella sera, e tutti hanno avuto la stessa reazione).
La questione è: si è comunque disposti a correre il rischio di fare delle… vittime collaterali in nome della libertà di espressione e coerentemente con la propria cifra artistica, nel lodevole intento di colpire il comune nemico razzista? Poiché in teatro ci saranno sempre più pubblici misti, in futuro, bisognerà metterlo in conto…
In ultimo, vorrei far notare che in un momento dello spettacolo, la prudenza, la decenza e il comune senso del pudore hanno comunque avuto un sussulto (e di ciò, personalmente, sono grato agli artisti): alla fine del monologo in cui Timpano/Montanelli descrive quanto fosse stato normale per lui comprarsi una mogliettina dodicenne, Frosini ha una reazione di fastidio e, se ricordo bene, arriva a buttare giù dalla sedia il personaggio. Mi chiedo se questo tipo di reazione, che non è femminista ma puramente umana e… civile, non si sarebbe potuta avere anche nei confronti degli altri mostri.

Ps: tengo a precisare che Abdoulaye ha ben compreso che il pensiero espresso da Daniele ed Elvira sulla scena non è il loro proprio pensiero nella vita. Ci mancherebbe!

UNA CRITICA AL PUBBLICO
di Saran Vittoria Keita

Caro Dario Villa,
Abdoulaye verso la fine della sua lettera aperta dice – prendo esattamente le sue parole – : “Inoltre, capisco che per gli italiani che sono stati colonialisti sia importante ricordarsi di ciò che hanno fatto in passato, per non ripeterlo in futuro, ma io avrei preferito sottolineare il positivo e non soltanto il negativo”. Dunque penso che Abdoulaye volesse dire proprio che bisognava anche dire cose positive del colonialismo nello spettacolo. Secondo lei, non sono rimasta anche io schifata dagli insulti e da tutte le volte che hanno detto la parola “Negro” essendo io stessa nera?! O dalla canzoncina contro i mussulmani, visto che i miei genitori (mai madre ha assistito allo spettacolo) sono mussulmani?! La colpa è degli attori o degli autori della canzone che tantissimi sedicenni sanno a memoria?
Sicuramente posso solo immaginare quello che ha passato Abdoulaye.
Noi abbiamo avuto la fortuna di essere nati in Euoropa, sì, ma non abbiamo la “fortuna” di essere considerati europei. Siamo stranieri nel nostro paese natale e siamo stranieri nel nostro paese di origine, vaghiamo nel limbo. Tutti noi abbiamo affrontato difficoltà nel nel nostro paese che ci ospita, chi più e chi meno. Non credo che debba essere una gara a chi ha sofferto di più ma questo spettacolo deve essere lo spunto per una riflessione più profonda: perchè invece di fare una critica solamente allo spettacolo e agli attori non facciamo anche una critica al pubblico di oggi? su chi abbiamo seduto accanto. Perché non ci chiediamo perchè una persona in una determinata battuta amara ride, quando invece dovrebbe solo fare riflettere? Il problema è veramente lo spettacolo o sono determinati modi di pensare del passato che non se ne sono mai andati del tutto?!
Forse questo spettacolo è come uno specchio vediamo realmente chi siamo e come la pensiamo.

UNO SPETTACOLO PER MULATTI?
di Alberto Lasso

Circa due mesi fa mi era giunta l’eco di reazioni fortemente negative a una replica lombarda di Acqua di colonia; si parlava di schiamazzi e, addirittura, anche di sedie ribaltate a bordo palco da qualche spettatore nero. Incuriosito da queste notizie avevo cercato dei riscontri online e, non trovandone, avevo subito pensato a una fake news o a una banale esagerazione: “Perché chiedere lumi a Elvira o a Daniele quando chi mi ha parlato di queste reazioni è una persona ‘di cultura’?” pensai… Una persona di cultura ma palesemente bianca, avrei dovuto aggiungere. Una persona di cultura, palesemente bianca e afferente alla sinistra paternalistica, avrei dovuto integrare ulteriormente per citare Déguène Mbow ed essere completamente chiaro.
Su indicazione di Frosini/Timpano ho riletto i diversi contributi a questo dibattito lo scorso weekend. A dire il vero, a inizio maggio avevo pure abbozzato una replica alle primissime osservazioni di Abdoulaye Ba e Ponte di Pino ma, rileggendo le loro argomentazioni, continuavo a non comprendere bene l’origine della discussione… Avendo già detto la mia già nel lontano novembre 2016 (Acqua di colonia: da Topolino a Stanlio e Ollio, il colonialismo italiano– L. Santini), trovavo un po’ superflui sia il disquisire sui meccanismi e sull’opportunità dell’ironia sia il dover dichiarare la propria scelta poetica da parte degli adorati Elvira e Daniele. Anche perché, dalla striminzita lettera redatta, mi pareva e mi pare che Ba abbia compreso la scelta drammaturgica dei performer romani senza arrivare condividerne, tuttavia e legittimamente, gli esiti nell’interazione tra palco e platea. “Vogliamo tornare alla mani diversamente colorate della pubblicità dei Ringo?”, mi sarebbe venuto da chiedere sia a Ba che a Ponte di Pino.
Per fortuna, nel frattempo, si sono aggiunti i contributi di altri elementi del pubblico e/o ospiti dello spettacolo; contributi che hanno reso il dibattito non solo più ricco ma anche più concreto. E questo perché a esprimersi sono stati spettatori e ospiti appartenenti a due categorie direttamente coinvolte dallo spettacolo: afro-discendenti e operatori socio-culturali che lavorano a stretto contatto con richiedenti asilo… Due categorie che, sostituendo il colonialismo italiano col neocolonialismo globale, mi trovo gioco forza a rappresentare pur io, una seconda generazione di origini centroamericane che prova a fare del dialogo interculturale un mestiere.
Ma ripartiamo dalla lettera che ha dato inizio al dibattito e proviamo a invertire le parti… Un commento come quello di Ba sarebbe stato preso in considerazione se a proporlo fosse stata un’anonima e italianissima operatrice di “teatro sociale” anziché un richiedente asilo? La premessa al dibattito risponde in modo diretto a questa provocazione e non è certo mia intenzione essere retorico. Constato solo che al parere di Ba non sarebbe stato attribuito alcun valore, né estetico né tantomeno “poetico”, se a esprimerlo non fosse stato uno spettatore nero. Ed è su questo punto che dovrebbero incentrarsi i nostri ragionamenti: non dobbiamo dibattere solo e soltanto sul “come “si possono raccontare a teatro il colonialismo italiano che fu o le morti nel Mediterraneo che sono. Dobbiamo riflettere anche, e in modo approfondito, sulle “razze” di chi partecipa a queste rappresentazioni, sia come attore sia come pubblico.
Leggendo la lettera di Ba non mi è mai parso che ci fosse un misunderstanding rispetto alla rischiosissima operazione messa in atto da Frosini/Timpano. Nelle parole del giovane senegalese vi è innanzitutto una disarmante ingenuità nelle aspettative e un legittimo non volere o non potere uscire dalla propria comfort zone, come persona prima ancora che come spettatore. Forse questa considerazione può risultare snob e indelicata ma, se avessimo adottato questo approccio fin da subito senza girarci attorno, ci saremmo quantomeno risparmiati l’ennesima spiegazione sui meccanismi di comprensione dell’ironia. Ironia che, con buona pace di Ponte di Pino, rappresenta solo un “come” e non un “chi” o un “che cosa”.
Sul “come” si concentra anche Dario Villa che, interpretando come una didascalia morale un passaggio tra due maschere antagoniste della seconda parte di Acqua di colonia (Montanelli-Timpano e Frosini- Faccetta nera), si fa portavoce di un’idea di teatro più rassicurante e adatta a tutti palati, sia bianchi che neri. Ma chi decide cosa è per bianchi e cosa è per neri? L’ironia è solo per bianchi? O ancora, sempre per riprendere Villa, “siamo disposti a correre il rischio di fare delle… vittime collaterali […] nel lodevole intento di colpire il comune nemico razzista?
Io rispondo subito di sì, senza se e senza ma.
La prospettiva di un teatro interculturale fatto di Odissee, di Eravamo stranieri e di Aggiungi un posto a tavola non può e non deve essere la sola perché questa prospettiva non rappresenta il sottoscritto, Déguène Mbow o Saran Vittoria Keita. E neanche Abdoulaye Ba, in un certo qual modo. Un racconto che si concentra solo su un passato di dolore individuale o su un futuro ideale di pace collettiva non ci può rappresentare a pieno… Dove finisce il nostro presente? Ce ne siamo dimenticati o preferiamo dimenticarcene? Perché lo trascuriamo?
In una società in cui gli sbarchi rappresentano una realtà lontana cui ci siamo pian piano abituati forse solo una dissacrante interpretazione-dimostrazione di razzismo può riuscire a far riflettere chi, volente o nolente, quotidianamente agisce e subisce delle discriminazioni. E perché sia efficace questa “esercitazione” sul razzismo non può e non deve essere retorica… Ricordate il bambino-scimmia dell’UNICEF o la citazione de La pelle giusta di P. Tabet presenti in Acqua di colonia? Bene, sono questi i rischi che corriamo se gli operatori di teatro interculturale continueranno a cristallizzare gli attori etnici come eterni protagonisti di viaggi strazianti (per pubblici bianchi) e/o come altre metà di un volemose bene multicolor (per pubblici bianchi con qualche elemento nero). Se non superata questa visione, che non basta più per educare o sensibilizzare le platee, deve essere quantomeno integrata da operazioni artistiche anti-retoriche come quella firmata Frosini/Timpano.
La tendenza a raccontare una migrazione “positiva” e forzatamente edulcorata forse è comoda, ma non risulta anche più “bianca” di quella volutamente controcorrente azzardata da Elvira e Daniele? Acqua di colonia è uno spettacolo potente proprio perché stigmatizza il razzismo di stampo colonialista mentre mette alla berlina una delle sue conseguenze più striscianti: il buonismo qualunquista, che è sia bianco che nero. Lungi dal voler entrare nel merito dei nuovissimi progetti di audience engagement e audience development rivolti a richiedenti asilo, seconde generazioni e migranti generici, mi chiedo se questo buonismo non finisca forse per allontanare da teatro quella fetta di pubblico che continua a fare i conti, sia sul piano estetico del teatro che su quello pratico dei diritti, con i risvolti di una rappresentazione del meticciato che è spesso fin troppo semplicistica… “#Giddadinanzazubbido” esclama la Faccetta nera di Elvira Frosini, quasi a sottolineare che il conflitto interculturale è sempre solo in apparenza risolto e che il legame tra passato, presente e futuro del colonialismo, sia nelle colonie che nelle madripatrie, non si risolve solo intonando “Mio fratello che guardi il mondo” di Fossati.
Non ci stupiamo, dunque, se il politicamente corretto rifiuta l’ironia, come sottolinea Ponte di Pino. Il politicamente corretto elude la realtà e, in men che non si dica, diventa retorica, una retorica che ha il vantaggio intrinseco di non dare voce all’uomo nero per attribuire, ancora una volta, il privilegio di codificare e decodificare il mondo e la sua rappresentazione a un certo uomo bianco… Non a caso il politicamente corretto è pressoché inevitabile per attirare sia i finanziatori sia quella grossa fetta di pubblico che dal presente “vero” vuole – sempre e comunque – evadere. In antitesi a questi Frosini/Timpano adottano un approccio non-retorico e politicamente scorretto che richiede risorse, energie e un’onestà intellettuale di molto superiori a quelle dell’esotistico Giro del mondo in 80 giorni della recita delle medie. Ma non è forse questo approccio quello che più può permetterci di guardarci intorno per davvero? Il pubblico in platea ride alle feroci battute razziste di Acqua di colonia? Ben vengano le peggiori battute razziste se, in un ambiente aperto e protetto come quello del teatro, provocano dei sorrisi amari e dei sensi di colpa. Elvira e Daniele hanno scelto di rappresentare la realtà dei discorsi dell’autobus e del bar sotto casa e, così facendo, provano a scuoterci dal torpore del buonismo proponendoci un lucidissimo incubo da cui, si spera, ci si sveglierà stupiti o feriti ma consapevoli; sia che si sia bianchi, sia che si sia neri, sia che si sia gialli.
Pubblici bianchi, pubblici neri… Sembrerà ora che io abbia allargato troppo il discorso per elogiare i “cosa” e “come” narrativi scelti dall’ensemble Frosini/Timpano e che mi sia dimenticato di quel “chi” rappresentato da Abdoulaye Ba. Non è così e, anche se in lui continuo a vedere uno spettatore inconsapevole e nulla più, cerco di calarmi nei suoi panni. E, se devo dire la verità, non faccio neanche troppa fatica. E non perché sia nero…
Ad aprile 2017 Elvira e Daniele mi chiesero di rifare “l’ospite nero” per una replica scolastica dello Zibaldino Africano, la prima parte di Acqua di colonia. “Nessun problema”, pensai ingenuamente… Niente di più sbagliato! Ricordo bene che, man mano che andava avanti lo spettacolo, l’iniziale atmosfera da tavolini sul marciapiedi fuori dal bar si trasformava e consolidava in un vortice violento e pasticciato, in una sorta di graffito verbale osceno e inscansabile….Le scolaresche ridevano sguaiatamente alle battute di Elvira e Daniele e io ho avvertito chiaramente che i ragazzi – incitati certo dalla performance degli attori romani – si sono sentiti liberi e legittimati di esprimere la propria “superiorità” e la propria violenza ma, anche in quel momento, non ho mai pensato o percepito che Frosini/Timpano stessero seminando odio contro me, l’uomo nero. Avvertivo sì una fatica mai provata prima su un palco ma mai avrei pensato che rispettare la crudele consegna della regia (rimanere seduto e in silenzio) potesse comportare uno sforzo così immane. E in quel frangente anche gli attori potevano fare molto poco… Io, infatti, non sentivo le battute del copione ma i commenti complici della platea mentre vedevo le classi sorridere senza vergogna. Non credo, però, che quei ragazzi fossero felici; ridevano come un bambino piccolo ride quando sente una parolaccia… Forse i concetti cui viene data voce nello Zibaldino africano erano stati, almeno una volta, i pensieri di quegli studenti oppure ricalcavano le parole dei loro genitori, dei loro nonni o dei loro professori. Gli stereotipi razzisti sono come quella parolaccia che gli adulti ti dicono che non puoi dire ma sai. L’odio e la discriminazione non vengono seminati ma, purtroppo, nascono spontaneamente appena c’è un po’ di umidità intorno. Per sterminare queste “erbacce” dovremmo prima di tutto riconoscerne la presenza che si riflette il dolore che provocano… A teatro si possono dire le parolacce, a teatro si può rappresentare l’odio, a teatro si può raccontare e rivivere la sofferenza. “Acqua di colonia” è quello specchio in cui non ci vogliamo riflettere perché ci obbliga a “riabitare” il razzismo e le sue conseguenze, dolore o rimorso che siano. Forse sono un po’ masochista ma, su quel palco, non ho mai pensato “Chi me l’ha fatto fare?”. Mentre quei ragazzi facevano la ola e accennavano “Odio il kebab e il ramadan” come fosse un coro da stadio, io avrei solo voluto mandarli affanculo, non ci sono davvero altri termini. Ma, per fortuna non è nella mia natura rispondere a un’offesa con un’altra offesa. Dovevo reagire? Cosa avrebbero imparato quei ragazzi da un muro contro muro? Quei ragazzi erano solo dei compagnoni o credevano a quel che dicevano? Non potrò mai rispondere a queste domande. Spero solo che, una volta tornati a scuola, ci sia stato un intervento educativo e che questi ragazzi non siano semplicemente stati redarguiti dai docenti. Spero davvero che qualcuno li abbia fatti ragionare e riflettere non tanto su quel che hanno visto quanto su quel che hanno provato e fatto provare a un altro, a me.
Quante volte qualcuno si ribella sull’autobus? Quante volte, nel mio vivere quotidiano, oserei ribellarmi io? Non lo faccio perché sono un codardo? Bè, non credo…. Difficilmente qualcuno si permette di darti del negro o dirti che puzzi vis-à-vis, è più facile far leva sul branco e insinuare che qualcuno dovrebbe imparare a usare il sapone o che ci sono dei watussi a bordo. (commento vero registrato non più tardi di ieri mattina su un autobus della Valbisagno genovese). Personalmente credo che Acqua di colonia rappresenti un’operazione ai margini perché, diversamente da quel che si può credere, non esaspera (o esaspera solo di pochissimo) la realtà. E questo fa male… Vogliamo andare a vedere l’ennesimo Stranieri come noi? Scusate ancora, “noi diversi” ci teniamo in vita con l’ironia…
Detto ciò, credo che gli interventi di Saran Vittoria Keita e di Déguène Mbow, se riportati su una dimensione argomentativa di taglio più teatrale, siano un’azzeccatissima integrazione e non una banale contrapposizione al disagio candidamente espresso da Abdoulaye Ba.
Ribalto la prospettiva per un’ultima volta e chiedo agli eventuali commentatori “bianchi”: “C’è qualche spettacolo che vi ha fatto uscire da teatro o dal cinema feriti, offesi o più semplicemente impotenti nel vostro essere “bianchi”?” Se la poco probabile risposta è “No… Non ricordo”, provate ad aggiungere un altro aggettivo a “bianco” per riscoprire questo disagio: “omosessuale”, “ebreo”, “disabile” o magari “siciliano”, come ha proposto Margherita Ortolani.
Elvira Frosini e Daniele Timpano non hanno fatto altro che riprodurre con sapienza un pezzo della quotidianità bianca e nera su un palco. Al di là di ogni retorica, vale la pena ricordare che il teatro è anche dolore e che, in drammaturgia, un qualche antagonista, più o meno consapevole, è quasi sempre previsto. Se assistendo a uno spettacolo ci si identifica nella vittima o nel carnefice e si medita su quanto visto (e noi stiamo ancora qui a disquisire di Acqua di colonia) forse ci troviamo di fronte a del buon teatro.
Concludo con qualche immancabile senso di colpa: sono un “fortunato” migrante economico, non sono fuggito dalla guerra, non ho subito torture e quindi posso barricarmi nel mio “percorso d’integrazione” per difendere i miei ideali estetici e la “mia” fetta di pubblico?
“Nero per nero”, che ne pensa Igiaba Scego (che alla stesura di Acqua di colonia ha collaborato) di questa discussione?

Rilanciato dal sito ateatro del 23/05/2018.

 

Immagine in evidenza: foto di Melina Piccolo.

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

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