da Sagarana “Una fiaba d’inverno”, di Antonello Piana

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Per festeggiare il ritorno di Sagarana in rete, proponiamo un racconto di Antonello Piana.

 

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Sagarana UNA FIABA D’INVERNO

Antonello Piana

UNA FIABA D'INVERNO

 

Tutto ebbe inizio quando improvvisamente venne meno il professor Rosenstein. Non che fosse stato molto anziano – era andato in pensione da poco – o particolarmente malato, ma quell’inconfondibile naso solcato da venuzze sul punto di scoppiare, oltre al fatto di fumare in modo smodato, lasciava presagire un’inclinazione alle malattie cardiovascolari. Sebbene non avessimo affatto intrattenuto quel che si potrebbe definire una relazione confidenziale – Rosenstein era troppo riservato per lasciarsi andare a confidenze di qualsiasi natura – mi sentii in dovere di partecipare al suo funerale. Non da ultimo avvertivo un certo senso di colpa poiché gli dovevo una somma di denaro ai miei occhi considerevole, e ai suoi probabilmente trascurabile, che mi aveva generosamente messo a disposizione senza porre domande sul suo impiego, e ora nessuno avrebbe potuto sollecitare un credito di cui i suoi eredi, chiunque fossero, non erano certamente a conoscenza.
Era un freddo venerdì di dicembre, nevicava copiosamente da qualche giorno e Julia non rispondeva al telefono. In ogni caso non mi avrebbe mai accompagnato (detestava partecipare a un funerale in cui non era intimamente coinvolta quasi più che a uno in cui lo fosse), così decisi che avrei riprovato a chiamarla al mio ritorno.
Non mi potevo permettere un biglietto del tram, perciò mi arrischiai a tirar fuori la bicicletta. Le strade erano pericolose per via del ghiaccio che in molti punti rendeva improbabile l’equilibrio in sella; oltretutto le colline di neve accumulatesi ai lati della carreggiata rendevano la Berliner Straße più stretta, e il sorpasso di ogni macchina mi schizzava puntualmente addosso un miscuglio scuro di fanghiglia e nevischio in scioglimento sotto la pressione delle ruote. Arrivai in vista del cimitero abbondantemente inzaccherato, ma speravo di non dare troppo nell’occhio grazie agli abiti scuri. Il cimitero si trovava in una quieta zona residenziale in cui non era raro incontrare qualche vecchio palazzo guglielmino non ancora restaurato come una torta nuziale, per strada invece neanche un passante. Dal fioraio del cimitero presi in prestito un copricapo di raso nero e feci ingresso nel salone, di proporzioni contenute ma per l’occasione più che sufficienti a dar posto a sedere ai rari convenuti.
Rosenstein era nel suo ramo un luminare di fama ma conduceva un’esistenza particolarmente ritirata, per quanto ne sapessi io non aveva famiglia e probabilmente neppure quel che nel comun sentire si definirebbe un’amicizia. Riconobbi nella maggior parte degli astanti i colleghi dell’università e le segretarie e bibliotecarie di diversi istituti; alcuni professori li conoscevo di persona, ricambiarono misuratamente il mio cenno di saluto continuando a chiaccherare dei loro affari senza darsi conto dell’occasione. Era piuttosto evidente che si fossero sentiti in dovere di un atto di presenza alla cerimonia ma non avvertivano alcuna partecipazione personale. Gran parte dell’assemblea non compiva che un atto di rappresentanza dovuto alle consuetudini sociali, del resto Rosenstein era per tutti una presenza imbarazzante, nessuno si era mai sentito a proprio agio al suo cospetto. Io e una giovane donna che aveva preso posto da sola nelle ultime file eravamo gli unici sotto i quaranta; mi domandai se non fosse una parente, dubitavo che un tipo come Rosenstein si fosse scelto un’amichetta così giovane, per quanto in simili casi non si possa mai sapere. Ad ogni modo avrebbe dato prova di ottimi gusti, la ragazza aveva capelli rossi naturali, o almeno che sembravano tali, e indossava un tailleur d’altri tempi con una camicetta di pizzo e un fiocco di seta o raso nero intorno al collo. Evidentemente era forestiera, nessuna ragazza che avesse vissuto per un mese in città si sarebbe mai vestita a quel modo, nemmeno per un funerale.
Anche gli oratori della cerimonia, come avevo avuto modo di apprendere da un collega, erano stati scelti tra i professori dell’istituto. Dopo l’immancabile litania introduttiva intonata senza accompagnamento musicale dal rabbino in persona – cantante stonato e dal timbro di voce estremamente sgradevole – il direttore dell’istituto prese la parola e cominciò ad elencare con una pedanteria fuori luogo i risultati che Rosenstein aveva conseguito nella sua carriera accademica. Solo una persona addentro alla materia avrebbe potuto apprezzare quella prolusione, l’oratore sembrava dare per scontato che l’assemblea fosse costituita esclusivamente dai colleghi dell’università, e d’altra parte ciò non era poi lontano dal vero. Non si vergognò di menzionare nel dettaglio premi e onorificenze, incarichi di responsabilità in più o meno prestigiosi comitati scientifici, pubblicazioni di varia natura, ma nemmeno un ricordo personale del defunto.
A un tratto mi sembrò di aver udito abbastanza e abbandonai il salone, non senza la muta riprovazione dell’assemblea. La cerimonia era cominciata solo da pochi minuti, ma era al mio sentire disgustosamente formale. Lo sguardo interdetto della giovane donna nelle ultime file mi accompagnò per brevi istanti; mi venne da pensare che se solo avesse potuto, il medesimo Rosenstein sarebbe venuto via. Mi chiedevo come mai avesse tenuto ad essere seppellito in un cimitero ebraico. Per quel che avevo potuto arguire dai nostri rari scambi di idee, Rosenstein era un irredimibile gnostico che aveva sempre trascurato le tradizioni della propria schiatta. In un sussulto di confidenza una volta si era perfino lasciato sfuggire che trovava ridicola l’idea di appartenere ad una confessione per motivi prettamente razziali.
Uscii dal corridoio principale, ma prima di andarmene definitivamente risolsi di fare una passeggiata per il cimitero. Avevo ancora un po’ di tempo prima che il corteo funebre sfilasse fuori dall’edificio per accompagnare il feretro alla sua definitiva dimora. Era pericoloso camminare, ad ogni passo si presentava il rischio di scivolare sul ghiaccio o di affondare nella mota, ma non avevo voglia di rimontare subito in sella. Mi lasciai alle spalle la lapide di Karl Emil Franzos, l’autore che aveva riscoperto Büchner e pubblicato il Woyzeck, si trovava sul viale principale, quello che aggirava la sinagoga; sullo stesso sentiero, ma più a valle, si poteva incontrare l’ultima dimora di Stefan Heym, con alcuni mazzetti di fiori ancora freschi e una corona del partito ormai appassita.
Più avanti il terreno ritornava pianeggiante e si poteva allargare lo sguardo a tutto tondo, gli alberi si facevano più radi, era la zona dei morti recenti, non poi tanti come mi aspettavo, semplici fosse senza lapide, una targhetta col nome conficcata nel terreno, forse erano destinate a restare così in pianta stabile, la maggior parte di origine russa, poveracci, immaginavo, malgrado la comunità ebraica fosse di nuovo influente, un ammasso di nomi lontani da casa. Compii il periplo delle mura di cinta, il cimitero era esteso e conservava una certa signorilità; pensai che Rosenstein non fosse riuscito a sottrarsi al fascino di quell’appezzamento in cui i destini più eterogenei confluivano in un panorama di elegante abbandono; di ritorno all’ingresso principale mi sembrò quasi di condividere la sua scelta. Restituii il copricapo al fioraio e me ne tornai a casa con un senso di pesantezza misto a uno vago di colpa per la perdita di tempo a cui mi ero lasciato andare.
Le strade erano deserte, chi poteva evitava volentieri di esporsi al freddo pungente, preferiva starsene a casa o se necessario prendere la macchina. Il rione in cui si trovava il mio appartamento era abitato prevalentemente da anziani affittuari, tutta gente con pochi soldi e molti acciacchi che in inverno evitava volentieri il rischio di una scivolata sul ghiaccio.
Non aveva alcun senso andare all’università, il venerdì pomeriggio regnava una malinconica atmosfera di sgombero, si tenevano poche lezioni e in giro si vedevano rare persone che già pregustavano il fine settimana imminente; oltretutto l’istituto e la biblioteca restavano chiusi per lutto, e tutte le lezioni del giorno erano state soppresse. Decisi di tornare a casa per dedicarmi a qualche attività concreta che dipanasse quel vago senso di inerzia contratto al cimitero. Avevo promesso di aiutare il mio ormai ex-subaffittuario ad impacchettare e portar via le ultime cose rimaste nell’appartamento dopo il suo trasloco, ma nell’istante in cui mi sorpresi a girare la chiave della porta per due volte, dedussi che era stato sollecito a portare via le sue scarse masserizie senza bisogno d’alcun aiuto. Sul tavolo della cucina un biglietto di congedo annunciava che mi avrebbe spedito le chiavi per posta, avendo preferito in via cautelativa chiudere la porta a doppia mandata. Tipico di Gregor, un giovane ma già pedante studente di economia con cui non ero mai riuscito ad instaurare una relazione minimamente confidenziale. Non avevo mai capito come mai si fosse sempre sentito a disagio nella stanzetta che gli avevo affittato, dopotutto avevamo anche il riscaldamento a gas e il bagno con una doccia quasi nuova. Non eravamo mai arrivati neppure a discuterne, ma supponevo che a disturbarlo fosse il fatto stesso di abitare in quella che considerava casa mia. Non aveva mai smesso di sentirsi un ospite in dovere di attenersi più o meno strettamente alle disposizioni del proprietario, sebbene in verità anch’io fossi un semplice locatario dell’appartamento, per quanto titolare del contratto d’affitto, e non mi fosse mai passato per la testa di imporre alla nostra convivenza consegne di qualunque natura. Entrai in quella che era stata la sua stanza; non aveva resistito nemmeno un anno, ma le pareti bianche cominciavano già ad imbrunire, si distinguevano nitidamente gli spazi in cui aveva appeso qualche riproduzione di quadri celebri o un calendario, e anche le assi di legno dell’impiantito presentavano strisciate di gomma da scarpa o di sedia che avrebbero dovuto essere scartavetrate. Siccome non avevo programmi improrogabili per il fine settimana, decisi di rinnovare a puntino la stanza prima di affiggere qualche annuncio in cerca di un nuovo inquilino. Nel ripostiglio avevo conservato un po’ di tinta per le pareti, ma purtroppo era talmente secca che non poteva più essere utilizzata; probabilmente il secchio era restato aperto. Decisi di far visita a un vicino emporio di cui conoscevo il proprietario, contavo che mi avrebbe fatto credito per qualche settimana fino a quando non avessi ricevuto un nuovo assegno. La fondazione che patrocinava la mia borsa di studio mi elargiva un assegno trimestrale modesto ma dignitoso; facendomi purtroppo difetto qualunque senso della distribuzione delle risorse, mi trovavo regolarmente privo di mezzi prima dell’accredito di un nuovo pagamento. Fortunatamente col tempo ero riuscito a costruire una rete di conoscenze alle quali ero solito ricorrere in modo alterno per ottenere del credito. Pur non trattandosi in buona parte dei casi di conoscenze personali o intime – Rosenstein ne era un esempio -, la relazione di credito era corroborata dalla fiducia nella mia solvibilità, che ero sempre riuscito a garantire in tempi relativamente accettabili.
Prima di uscire chiamai nuovamente Julia, ma solo per constatare che non era ancora rientrata; contai diciassette squilli prima che cadesse la linea; Julia detestava le segreterie telefoniche quasi più dei telefoni cellulari e così non c’era modo di comunicarle che avevo chiamato; non mi restava che uscire e riprovare più tardi. All’emporio mi attendeva un’altra delusione. Il proprietario che conoscevo era purtroppo assente, al suo posto trovai l’anziana madre che a cose normali leggeva riviste o faceva la calza nel retrobottega; dubitai immediatamente che mi avrebbe concesso i prodotti a credito, non avrei saputo dire se fosse dura d’orecchi o di comprendonio, in ogni caso rinunciai a priori al mio tentativo e rimandai le operazioni di rinnovo della stanza alla settimana successiva.
Aveva ripreso a nevicare e si era levato un vento freddo che spirava da ponente, era difficoltoso perfino restare in sella, e la neve non sembrava più nemmeno cadere al suolo, sferzava al ritmo di vorticose e intermittenti folate orizzontali. Mi sarebbe piaciuto non dover rimontare subito in sella, entrare in un vicino caffè per ordinare una bevanda calda e sfogliare pigramente un quotidiano per mezz’ora, magari fumando un paio di sigarette, ma non avendo addosso il becco di un quattrino ero costretto a ripiegare su una cioccolata bollente nella mia inospitale e solitaria cucina.
Sul portone di casa mi attendeva una nuova sorpresa. Nella tasca anteriore sinistra dei pantaloni, dove ero solito infilare le chiavi in modo ormai automatico, si trovava solo un pacchetto quasi vuoto di sigarette Karo. Tenni la mano in tasca per alcuni secondi, rovistai a fondo nei recessi più impervi, ma indubbiamente le chiavi di casa non c’erano. Sperai dapprima che per un motivo che non riuscivo a spiegarmi avessi infilato le chiavi in un’altra tasca, ma seppure controllassi scrupolosamente in ogni orifizio dei pantaloni e della giacca, non credevo davvero alla possibilità di trovarvele. Quando fui certo di non averle addosso, mi venne quasi da sorridere per il disappunto. Esistevano due possibili spiegazioni; forse erano restate in casa, entrando in cucina le avevo ancora in mano, poi avevo notato il biglietto di Gregor sul tavolo e le avevo poggiate più o meno inavvertitamente. Una volta letto il messaggio le chiavi erano restate sul tavolo, su cui non avevo più guardato prima di uscire di nuovo. Siccome non ero solito chiudere a chiave la porta di casa – al contrario di Gregor -, quell’eventualità era la più probabile, mentre era inverosimile che le chiavi fossero potute scivolare dalla tasca successivamente, quando sedevo in bicicletta: il pacchetto di sigarette Karo ostruiva l’imboccatura della tasca a sufficienza.
Mi sedetti sulla soglia del palazzo per pensare al da farsi e accesi una sigaretta. Avrei forse potuto sfondare la porta a calcioni come nei film – la spallata mi è sempre parsa inverosimile -, oppure chiamare un fabbro o i pompieri perché smontassero la serratura; non sapevo bene chi fosse addetto all’operazione, ma immaginavo che in entrambi i casi il conto sarebbe risultato salato, senza considerare che al momento non avevo il becco di un contante per saldare il servizio. Oltretutto avevo ragione di credere che prima dell’arrivo di qualche operaio sarebbero trascorse alcune ore. La soluzione più semplice era cercare di rintracciare Gregor, sperando che non avesse già spedito le chiavi per posta al mio indirizzo, anche se conoscendo la sua solerzia dubitavo di essere ancora in tempo.
Perfino rintracciare Gregor era un’operazione tutt’altro che semplice. Non avendo ancora trovato un nuovo alloggio stabile, mi aveva confidato di aver ottenuto per qualche tempo ospitalità presso un amico. Ero certo che avesse anche fatto il nome dell’amico in questione, ma siccome l’argomento non mi interessava irresistibilmente non ero stato ad ascoltare, e ora non ricordavo più quale degli amici avesse menzionato. Per fortuna Gregor non era persona di mondo, e da quando si era trasferito in città non era entrato in confidenza che con un paio di colleghi di università, come lui pedanti fanatici del computer che non conoscevano maniere migliori di trascorrere una serata se non provando un videogioco o un nuovo programma. L’unico tra i compagni di studio di Gregor di cui conoscessi il domicilio era un certo Hans, e solo in virtù del fatto che abitava a pochi passi da casa di Julia. Decisi dapprima di riprovare a chiamarla da un telefono pubblico, nel caso che fosse finalmente rientrata, ma anche quella volta il telefono squillò a vuoto per diciassette volte.
Nevicava ancora, ma meno intensamente rispetto a prima. Decisi di muovermi a piedi, la Dunckerstraße era poco lontana e non valeva la pena di inzaccherarsi ulteriormente con la bicicletta. Avevo percorso spesso quel tragitto per recarmi a trascorrere la serata e la notte da Julia, tutte le volte trepidante, con la piacevole sensazione di galleggiare a una spanna da terra. Quel giorno invece avvertivo un curioso senso di solitudine, conseguenza forse del mio recente ingresso nella categoria dei senzatetto, seppure in via solo transitoria. Avevo la spiccata impressione che la totalità dei passanti si rallegrasse di tornare a casa con la prospettiva di un fine settimana di domestica intimità dopo giorni di duro o noioso lavoro. Donne, operai, pensionati, perfino i bambini che alle quattro uscivano dall’asilo avvolti in cappotti e cappelli più grandi di loro contribuivano a nutrire quell’inquietudine.
In pochi minuti mi ritrovai di fronte al portone, alle prese con un nuovo problema a cui non avevo pensato, quello di ignorare il cognome di tale Hans. Suonai qualche campanello a caso; rispose dapprima una voce di donna dall’età indefinibile, cercai di spiegarle che cercavo un inquilino sui vent’anni, alto e magro, dai capelli castani e con un orecchino ad anello. La donna mi rispose in tono oltremodo infastidito, non si interessava affatto ai suoi vicini, e a quella descrizione in ogni caso rispondeva metà degli inquilini, compresi quelli delle ali laterali dell’edificio, in cui era più probabile che abitasse. Prima di chiudere la comunicazione, la donna mi ingiunse in modo perentorio di non scocciarla più.
Suonai i campanelli delle ali laterali del palazzo, ma l’unica voce che rispose fu quella pastosa di un uomo che sembrava ubriaco o dissennato, non ci fu neppure verso di fargli capire il mio problema, alla fine persi le staffe e gli intimai seccamente, ma continuando a usare la forma cortese, di aprirmi il portone. L’uomo disse “Sì, d’accordo”, ma subito dopo chiuse la comunicazione senza azionare il tasto di apertura. Restai qualche minuto davanti alla soglia a girare su me stesso intirizzito dal freddo, in attesa che qualcuno entrasse od uscisse per potermi intrufolare dentro, ricordando nostalgicamente i bei tempi andati, quando non esistevano citofoni, i portoni dei vecchi palazzi avevano ancora la maniglia e restavano aperti giorno e notte.
Infine una donna con due sporte di tela alle mani si decise ad aprire il portone per uscire, non sapevo perché finsi di cercare le chiavi in tasca, ma poi sorrisi spalancandole la porta e lei mi ringraziò augurandomi una buona giornata. Una volta dentro la situazione non migliorava molto. Uscii nel cortile, dove scoprii tre porte diverse da cui si accedeva ad almeno otto appartamenti per ognuna. Stabilii il seguente piano d’azione: eliminata a priori l’ala che dava sulla strada – la donna con cui avevo parlato al citofono si era sentita d’escluderla -, decisi di interrogare per ogni ala interna dell’edificio almeno un inquilino, supponendo che chiunque conosca almeno di vista i propri vicini.
Nella prima ala mi aprì un’ottuagenaria malferma sulle gambe che affermò di non conoscere gli altri inquilini del palazzo, a parte il suo alcolizzato dirimpettaio che era solito svegliarla la notte battendo con le mani alla parete divisoria, gridando cose incomprensibili, cose da avvertire la polizia, succedevano sempre più spesso e le rovinavano il sonno, ormai non dormiva più di un paio d’ore per notte. Cercai di strapparle qualche informazione al riguardo di Hans, ma la vecchina mi domandò se non potessi invece farle il piacere di bussare alla porta dell’ubriacone per minacciarlo un po’, era l’unica maniera di farlo smettere, con le buone non c’era verso. Le assicurai che l’avrei fatto volentieri, ma sarebbe stato opportuno per lei richiudersi in casa, poteva rivelarsi una faccenda pericolosa, gli ubriaconi sono spesso imprevedibili, dissi, possono rivelarsi docili come agnellini ma anche diventare violenti per un nonnulla. La vecchina si lasciò convincere facilmente; appena si richiuse in casa bussai alla porta del vicino; naturalmente non avevo alcuna intenzione di tenere un sermone ad un alcolizzato, era l’ultima cosa che mi passava per la testa in quel momento, non potevo più rientrare in casa e con quel freddo fuori. Avevo intenzione di interrogare anche il vicino ubriacone, per quanto in apparenza sembrasse ancor meno affidabile della vecchia pensionata. Dopo alcuni secondi d’attesa dedussi che in casa non dovesse esserci nessuno, o che l’inquilino fosse in condizioni tali che era davvero meglio non aprisse. La vecchia pensionata schiuse nuovamente la porta con molto sforzo e tenendosi a fatica sul suo bastone di metallo, mentre io scendevo già le scale, aggiunse che probabilmente, se intendevo davvero parlargli, avrei dovuto cercarlo nella bettola dall’altra parte della strada, era frequentata solo da ubriaconi come lui, vi trascorreva le giornate a sbevazzare già da prima di pranzo. Mi congedai dalla vecchina affermando che avrei fatto proprio come consigliava.
L’unica persona che pareva trovarsi in casa nell’ala sinistra del caseggiato era una giovane giapponese o coreana che non parlava se non un paio di inintelleggibili parole di inglese, per cui dopo un mesto tentativo rinunciai anche solo a tentare di esporle la questione. Non era la prima volta che incontravo studentesse orientali all’università, mi ero sempre chiesto come potessero studiare da noi senza conoscere una parola di tedesco, ma in quel frangente non mi soffermai neanche per un attimo sulla questione. Di nuovo in cortile, venni colto da un repentino acuto di sfiducia: era impresa ardua riuscire a trovare il tale Hans tra tutti quegli appartamenti. Se anche avessi trovato l’appartamento, era improbabile che uno studente come lui si trovasse a casa a quell’ora del pomeriggio. Se anche lo avessi trovato in casa, non era certo che Gregor si fosse trasferito da lui. Se anche Gregor si fosse trasferito a casa sua, era ancor più improbabile che non mi avesse già spedito le chiavi per posta.
Avvertivo il bisogno di parlare con qualcuno, prima ancora di trovare riparo dal gelo in un posto chiuso e riscaldato. Julia abitava a pochi passi, se fosse finalmente rientrata avrei potuto riparare nel suo appartamento per il fine settimana, fino a quando le chiavi di Gregor fossero arrivate a casa, quindi avrei potuto scassinare la cassetta delle lettere senza troppi rimpianti, non ricevevo altra posta che bollette da pagare e pubblicità non richiesta, e tutto si sarebbe risolto nel migliore dei modi.
L’euforia che a quel pensiero mi invase venne di lì a poco raffreddata dalla constatazione che Julia non era ancora rientrata. Cominciai a temere che fosse partita per il fine-settimana senza preavviso, non sarebbe stata la prima volta, forse a far visita ai genitori, forse a qualcuno di quei suoi amici che avevano voltato le spalle alla vita metropolitana per trasferirisi in campagna a coltivare rape.
Non sapevo più dove andare. Se non si ha denaro né riparo in una sera di venerdì di un dicembre tedesco, le probabilità di sopravvivenza si riducono drasticamente. I miei denti avevano cominciato a battere sfiorandosi appena a un ritmo forsennato, urgeva trovare un rifugio qualunque dove raccogliere le idee. I grandi magazzini offrivano un anonimo ricovero al calduccio, ma ero sicuro che in mezzo alla folla in preda alla furia degli acquisti natalizi mi sarei abbattuto ancora di più. Oltretutto non mancava molto alla chiusura e non sarebbe stato un gran guadagno di tempo. Perfino le chiese che incontravo per strada sbarravano le porte a una pecorella smarrita. Decisi, senza riuscire a spiegarmene esattamente il motivo, di tornare al cimitero, speravo che al cospetto del tumulo di Rosenstein avrei potuto trovare un fugace conforto. Quella sepoltura rappresentava in definitiva la cosa più vicina ad una relazione umana a cui potessi aspirare quel giorno. Era ormai probabile che il cimitero avesse chiuso i battenti, ma in quel momento per me la cosa più importante era ritornare nelle sue vicinanze per riconoscerne le mura merlate e la cupoletta da cui mi ero allontanato troppo presto. In ogni caso l’oscurità era calata da un pezzo e sarebbe stata impresa ostica trovare la tomba di Rosenstein ignorandone l’ubicazione. La tradizione sepolcrale ebraica non conosce lumicini, ma solo pietroline.
Anche intorno al cimitero non c’erano lanterne o lampioni di sorta e l’assenza di luci artificiali aveva un inspiegabile effetto appacificante. Percorsi le mura merlate verso l’ingresso principale, presso il quale si intravedevano le sagome di due persone; le riconobbi da una certa distanza, si trattava del fioraio, che evidentemente fungeva anche da guardiano, e della forestiera dai capelli rossi. Ero ormai vicino e dovettero riconoscermi a loro volta, perché sembravano aver interrotto la conversazione per osservarmi.
Buonasera, dissi tanto per dire.
Lei era qui alla funzione del pomeriggio, esclamò il fioraio. Ha dimenticato qualcosa?
Abito semplicemente nelle vicinanze, mentii in risposta. Mi piace passeggiare la sera da queste parti.
Allora la prego, ci dia una mano. Questa signorina è forestiera e deve andare alla stazione, ma io non posso muovermi dal mio posto. Non potrebbe aiutarla lei?
D’accordo, dissi senza fare una piega, senza nemmeno chiedere a quale stazione, poteva essere l’Ostbahnhof o Alexanderplatz come la stazione degli autobus dall’altra parte della città. La ragazza era restata composta, non il sollievo per un aiuto insperato né il timore per l’entrata in scena di uno sconosciuto.
Per un attimo mi domandai, invero un po’ retoricamente, cosa mi spingesse ad accollarmi nuove complicazioni. Non sapevo distinguere se si trattasse di un repentino ma umanamente comprensibile sovraccarico di testosteroni al cospetto di una donna attraente, del dirompente anelito a scongiurare la solitudine di quella serata, o forse solo di un senso di spossatezza, l’abbandono dolce e remissivo a un capriccio del destino. Era un fatto che avessi di colpo ridimensionato la perdita del focolare domestico, un problema fasullo che non aveva più bisogno di immediata soluzione.
Ci congedammo dal fioraio e scendemmo in silenzio verso la Berliner Allee, dove avremmo potuto prendere un tram in direzione Alexanderplatz. Mi sembrava strano che la ragazza volesse andare alla stazione senza bagaglio e non avesse prenotato un taxi, ma decisi di non mostrarmi troppo curioso; se avesse avuto voglia di fare conversazione avrebbe preso spontaneamente l’iniziativa. Mi veniva dietro senza battere ciglio, un comportamento insolito per una donna in balìa di un estraneo di sesso maschile in una città forestiera; forse la rassicurava il mio aspetto inoffensivo o la mia seppur fuggevole presenza al funerale di Rosenstein.
Sulla banchina alla fermata del tram aprì bocca per la prima volta, si presentò come Magda, originaria di una cittadina dalle parti di Leopoli in cui avrebbe voluto tornarsene al più presto, confessò di sentirsi a disagio nella metropoli sconosciuta, faceva troppo freddo per i suoi gusti e aveva ormai i soldi contati per il biglietto di ritorno.
Sul momento non vi prestai attenzione, ma usò proprio il condizionale, “vorrei” invece di “voglio”. Non mi risultava poi che a Leopoli il clima fosse molto più mite che da noi. Riconoscendo un’affinità di fondo con la mia attuale condizione e nella speranza, come si suol dire banalmente, di rompere il ghiaccio, cedetti all’impulso di raccontarle le mie disavventure del pomeriggio, sorvolando deliberatamente sui ripetuti tentativi di chiamare Julia. Dapprima mi ascoltò incredula e al termine scoppiò a ridere divertita. Parlava un buon tedesco, con un accento un po’ aspro che non mi sembrava tipico né dei parlanti russi o ucraini né dei polacchi, e una cadenza della frase che ricordava un po’ quella di Rosenstein, per quanto lui parlasse alto-tedesco senza accenti. Alcune curiose scelte lessicali della giovane facevano supporre che avesse imparato la lingua da autodidatta, o non avesse avuto molte occasioni per praticarla conversando. Ormai aveva smesso definitivamente di nevicare e il tram era in ritardo, la giovane attendeva in piedi senza muovere un muscolo, aveva gli occhi sbarrati e sembrava osservare un punto fisso dall’altra parte del binario. Salimmo sul tram e durante il tragitto osservammo il silenzio celebrato da quasi tutti gli altri viaggiatori; naturalmente non comprammo il biglietto, io perché non avevo un soldo in tasca, lei forse perché, come molti turisti, pensava per chissà quale ragione di esserne dispensata. Una volta entrati alla stazione rivelò di non aver ancora prenotato il biglietto di ritorno, di non avere neppure la più pallida idea degli orari dei treni. Io ero solo a conoscenza che le tratte verso l’Europa Orientale partivano dalle stazioni di Lichtenberg o dell’Hauptbahnhof, da poco ribattezzata Ostbahnof.
Prima di tutto occorreva informarsi se quella sera ci fosse ancora una partenza in programma. La maggior parte dei migranti est-europei si serviva per ragioni di convenienza delle corriere internazionali, però la stazione degli autobus si trovava dall’altra parte della città ed era molto improbabile che ci fossero partenze giornaliere, tanto più a quell’ora della sera. La ragazza mi veniva dietro senza alcuna premura, come se non fosse nel suo interesse affrettarsi per partire; offriva piuttosto un’impressione di trattenuto smarrimento.
Apprendemmo a uno sportello che quella sera l’unica possibilità sarebbe stata un treno per Kiev che partiva alle 21:43 da Lichtenberg, Leopoli non risultava come stazione di transito, ma ricordavo vagamente che Lublino non dovesse essere poi troppo lontana, anche se forse mi traeva in inganno l’assonanza fonetica. In verità tutte le città estranee sembrano lontane da noi e vicine tra loro, e quelle due suonavano al mio orecchio non meno esotiche di Samarcanda e Alma-Ata, ma mi vergognavo ad ammettere le mie lacune dinanzi alla giovane che attendeva alle mie spalle senza battere ciglio. Mancava poco più di un’ora alla partenza di quel treno, eppure sembrava non avere intenzione di affrettarsi, disse che prima di partire sarebbe dovuta andare a prendere il bagaglio, ma non ebbi bisogno di ribattere che in tal modo, dovunque si trovasse quel bagaglio, avrebbe perso l’ultimo treno disponibile.
 Lo poteva prendere con tutta calma domani alla stessa ora, aggiunse con noncuranza dopo una pausa di silenzio, rispondendo a una domanda che non avevo posto. Non avevo voglia né diritto di intromettermi nelle sue faccende, ma sarebbe stato lecito domandarle dove avesse intenzione di trascorrere la notte. Uscimmo all’aria aperta per sfuggire al viavai di passanti e viaggiatori, la stazione della metropolitana era un nodo cruciale in quei giorni di compere frenetiche, oltretutto la piazza ospitava i grandi magazzini più frequentati della città.
Dove sarebbe andata ora? le domandai.
Non rispose subito, lasciò trascorrere qualche secondo come per riflettere, poi mi corresse, dove andiamo, avrei dovuto dire, e dopo un’altra breve pausa carica di imbarazzo, dopotutto non avevo molta scelta, le sembrava, ero quasi costretto a seguirla.
Sorrisi lusingato da quella specie di invito. Dove saremmo andati, allora?
Mi resi conto dell’ironia di quella situazione. All’inizio mi ero creduto in vantaggio, un sottile senso di potere che probabilmente lei aveva percepito a sue spese, un arcano riflesso maschilista sopra il destino della donna, ma anche il vantaggio di conoscere la via per la stazione, la metropoli, il mondo. Ora il gioco si rovesciava, la mia accompagnatrice si prendeva una giusta rivincita, un’ironica vendetta, e io ero in un certo modo costretto a vestirmi della sua pelle.
Sembrava proprio che la giovane guidasse i nostri passi con una meta definita, e quell’improvviso capovolgimento dei ruoli mi infondeva una vaga inquietudine. Avevamo imboccato la Karl-Marx-Allee; improvvisamente mi sentii io il forestiero, cominciai a sospettare che la ragazza conoscesse la città meglio di quanto volesse far credere. Sul viale enorme regnava la consueta, spettrale atmosfera, rari passanti sui marciapiedi vastissimi e carovane di luci sfreccianti tra un semaforo e il successivo. Anche gli imponenti palazzi del neoclassicismo sovietico sembravano irrimediabilmente spopolati, a quell’ora della sera poche luci accese qua e là. Durante il tragitto accennai alla mia accompagnatrice qualche aneddoto storico sulla strada che originariamente era stata intitolata al suo sovvenzionatore, la monumentale Stalin-Allee costruita in pochi anni sulle macerie, le due torri gemelle in cui veniva ospitata nel lusso qualche famiglia selezionata – in cambio doveva sopportare le visite frequenti ed estremamente guidate delle delegazioni straniere, a cui, con notevole faccia tosta da parte delle autorità e dei loro ciceroni, veniva mostrata la quotidianità della famiglia media nel paese degli operai e dei contadini.
A un certo punto la ragazza interruppe la mia orazione prendendomi quasi sottobraccio – il contatto mi provocò un fremito -, per indicare senza una parola un portone non diverso da tutti gli altri che davano sul viale, di legno agile e alto, con ampie vetrate. La ragazza aprì con la chiave di un mazzo che estrasse dal cappotto, quindi salimmo a piedi, uno dietro all’altra, tre piani di scale fino alla porta priva di intestatari di un appartamento. Durante l’ascesa non potei fare a meno di fissare lo sguardo sulle sue natiche pudicamente avvolte dall’aderente soprabito, ero rapito dal movimento diastolico di comparsa del gluteo nell’istante in cui la gamba si piegava e di scomparsa quando si allungava.
Si trattava evidentemente dell’appartamento di Rosenstein. Sapevo che abitava da quelle parti e mi bastò un’occhiata fugace a qualche titolo dei libri che tappezzavano le pareti, perfino quelle del corridoio traboccavano di vecchie e meno vecchie edizioni bulgare, macedoni, serbe, i caratteri cirillici sulle coste dei volumi variavano solo di poco, ma io ero abbastanza addentro alla materia per apprezzare la vastità di quella biblioteca.
Magda era sparita in cucina, aveva riempito nel lavabo il bollitore dell’acqua e caricato di foglioline di tè un filtro di metallo. La aiutai a portare la teiera nel soggiorno, poi ci accomodammo con le tazze in mano su due poltrone, tra noi un tavolino di legno scuro. In quei primi minuti non scambiammo una parola, ma non c’era imbarazzo né tensione nell’aria, io osservavo nei particolari l’arredamento, mobili antichi che ormai potevano essere obiettivamente definiti vecchi, qualche pezzo pregiato che avrebbe meritato un restauro, insieme alle mensole di legno grezzo cariche di libri, evidentemente inchiodate da mano amatoriale, probabilmente dallo stesso Rosenstein. Per terra tappeti di varie grandezze e colori e orditi, incastonati uno accanto all’altro e uno sopra l’altro senza ordine apparente, ricoprivano il pavimento delle stanze e del corridoio senza soluzioni di continuità, solo la cucina e il bagno facevano mostra di ordinarie piastrelle.
Cedetti alla tentazione di rompere il silenzio domandandole, senza preamboli o frasi di circostanza, se fosse parente di Rosenstein. Scosse la testa, poi, dopo una breve pausa in cui tenne lo sguardo rivolto alla teiera sul tavolino, rivelò che Rosenstein era un vecchio conoscente di sua nonna prima e di sua madre poi, con le quali aveva evidentemente contratto un qualche impegno prima che lei nascesse o quando era ancora molto piccola.
Che genere di impegno, avrei voluto ribattere, ma attesi con impazienza la continuazione del racconto. La ragazza prese fiato osservandomi direttamente, di nuovo quello sguardo fisso, le orbite spalancate e l’iride verde chiara che sembrava attraversarmi, andare oltre la mia persona, come sanno guardare solo gli uccelli pronti a reagire a una minaccia incombente. Non era riuscita a strappare alla nonna né alla madre i particolari di quel misterioso accordo, ma di un fatto era sicura, Rosenstein non era suo parente. Non spiegò su quali fondamenti basasse quella convinzione, ma occorreva in effetti notevole immaginazione per accostare i tratti affilati di Rosenstein a quelli sinuosi e larghi e apertamente slavi della ragazza.
Sua madre era morta da anni, la nonna solo qualche mese prima e ora anche Rosenstein, l’ultimo tassello della congiura – usò proprio quell’espressione, sorridendo debolmente – si era portato il segreto nella tomba, sembrava proprio che non ci fosse più modo di portarlo alla luce.
Perché allora aveva percorso tanta strada per venire al funerale? la incalzai io, incuriosito dal mistero.
Rosenstein aveva sovvenzionato i suoi studi sin dai tempi della scuola, confessò, malgrado ne fosse venuta a conoscenza solo in età matura. L’anno prima c’era stato uno screzio, Rosenstein avrebbe voluto adottarla per passarle il cognome, quindi sarebbe stata una formalità ottenere una borsa di studio e un visto per l’America o per qualunque altro paese, ma lei si era rifiutata con decisione, malgrado le insistenze della nonna, in fondo le sembrava umiliante rinunciare alla propria identità per una banale borsa di studio, a maggior ragione senza conoscerne il motivo.
Fece un’altra lunga pausa per raccogliere le idee, parlava piano soppesando ogni parola, il suo tedesco migliorava col trascorrere dei minuti, come se rispolverasse una lingua un tempo conosciuta alla perfezione ma arrugginita dalla mancanza di pratica. Negli ultimi tempi il contatto tra loro si era interrotto, Rosenstein non si era più fatto vivo e lei non aveva avuto il coraggio di prendere l’iniziativa. Non sapeva neppure che fosse malato, era venuta a conoscenza della sua fine solo da un notaio berlinese, le aveva spedito una lettera formale in cui comunicava che Rosenstein era in punto di morte e che lei ne era, per così dire, l’erede universale.
Sussultai per la sorpresa e lei ne approfittò per bere un lungo sorso che deglutì con sforzo.
Sul momento era restata piuttosto confusa, continuò, non sapeva bene cosa fare, tuttavia col trascorrere delle ore prevalsero i sensi di colpa per non aver avuto il tempo di riconciliarsi con il suo benefattore, quindi si era precipitata in città nella speranza, rivelatasi vana, di essere in tempo utile per rimediarvi, con l’ulteriore, recondita speranza – rivelatasi ancor più vana della prima – di riuscire finalmente a scoprire la misteriosa relazione che univa Rosenstein alla sua famiglia.
Ero stupito e imbarazzato dal fatto che confidasse candidamente a uno sconosciuto quei particolari, che rendesse conto con tanta franchezza dei propri sentimenti. Come contropartita in fatto di confidenze gratuite, non resistetti una volta di più all’impulso di rivelarle che dovevo a Rosenstein una discreta somma di denaro – ne menzionai, con un certo cattivo gusto di cui subito mi pentii, anche l’entità -, che ora sarebbe diventata mia creditrice. Dapprima rimase interdetta per la meraviglia, poi fece un gesto con la mano come per scacciare l’argomento dall’aria, un gesto di fastidio che screditava la mia interruzione, come per dire: discutevamo del destino di un uomo e della storia di una famiglia, e io me ne uscivo fuori con una banale questione di debiti. In quel gesto della mano vi era una punta di disprezzo che mi punse sul vivo.
Affermò che per conto suo potevo considerare il debito estinto, ancora non sapeva neppure se avrebbe accettato l’eredità, le risultava difficile, aggiunse, accettare un lascito verso il quale non aveva la benché minima relazione, o meglio, di cui non conosceva affatto le ragioni. Si sentiva raggirata, nel senso concreto della parola, sottolineò, perché era stata messa al corrente del fatto compiuto senza alcuna spiegazione, nemmeno una lettera in cui Rosenstein avesse accennato ai motivi di quel gesto.
Era un fatto che non mi appariva poi molto strano, ribattei, mi sarei stupito invece se Rosenstein avesse scritto delle righe per spiegare alcunché di personale, non rientrava, per così dire, nel personaggio. Quel che trovavo curioso era piuttosto il silenzio prolungato e ormai definitivo di sua madre e di sua nonna, quello sì davvero inspiegabile, come se ci fosse dietro un motivo di vergogna da cancellare, da non tramandarsi nemmeno dopo decenni ai parenti o agli intimi o perfino ai discendenti. Immaginavo che quel segreto così ben conservato avesse a che vedere con l’olocausto, secondo l’ufficialità Rosenstein era nato in una località della Bucovina che non avevo mai sentito nominare e che avevo dimenticato subito dopo averla sentita nominare, probabilmente un villaggio o una cittadina. Nel quarantatré doveva aver avuto sei o sette anni, probabilmente gli antenati di Magda lo avevano in qualche modo salvato da una fine sicura in qualche lager tedesco o rumeno – mi vennero alla mente i genitori di Paul Celan trucidati in un lager della Transnistria -, non era poi un caso eccezionale che una famiglia del posto avesse accolto un bambino ebreo salvandolo da morte certa, quante storie di quel tenore si sentivano anche negli ultimi tempi. Ad avallare quell’ipotesi c’era il fatto che Rosenstein fosse evidentemente privo di parenti, in caso contrario se ne sarebbero viste le tracce al funerale o nel testamento, ma sembrava ormai impossibile ricostruire come avesse fatto un bambino ebreo della Bucovina a finire nella Germania orientale nei meandri del dopoguerra, con tutta probabilità era stato scacciato – in quanto parlante tedesco – dagli ucraini o dai rumeni o dai polacchi. Non le comunicai quelle mie puerili supposizioni, la ragazza era sicuramente abbastanza sveglia per averle da tempo formulate da sola, ciò che cercava era piuttosto una conferma a quelle o ad altre congetture, una conferma che a quanto sembrava nessuno era più in grado di fornirle.
Naturalmente non poteva fare altro che accettare l’eredità, affermai, non sembravano esistere potenziali eredi tagliati fuori, o almeno non se ne era vista traccia nel testamento né al funerale.
Un ulteriore motivo di dispetto era il fatto che Rosenstein non avesse neppure messo in conto la possibilità di un rifiuto, insistette lei, non aveva preso alcuna disposizione nell’eventualità che rifiutasse. Non stentavo a credere che rappresentasse per lei un motivo ulteriore di offesa, un atto di generosa violenza ma pur sempre di violenza, era quello che non le dava pace, oltre a una curiosità che forse non avrebbe più potuto soddisfare.
In fondo l’accettazione di quell’eredità rappresentava l’unico strumento che aveva a disposizione per riconciliarsi con il defunto, mi venne da dire, nella convinzione che il suo proposito di rifiutare il lascito fosse più uno spauracchio agitato nell’aria che un’alternativa da prendersi in seria considerazione.
Il patrimonio di Rosenstein doveva presumibilmente essere tutt’altro che favoloso, riflettevo tra me, ma in rapporto alle attuali condizioni della ragazza comunque molto ingente. Un professore di un’università tedesco-orientale poteva aver cominciato a risparmiare somme degne di questo nome solo dopo la caduta del muro, con ogni probabilità proprio quella svolta epocale coincideva più o meno con l’inizio dei versamenti volti a sostenere l’istruzione della ragazza. Dopotutto per una studentessa o diplomata ucraina in filosofia o germanistica pressoché priva di mezzi, quel lascito rappresentava un’insperata fortuna e il suo rifiuto un lusso che non si poteva permettere, o almeno così la pensavo io o così l’avrei pensata se fossi stato nei suoi panni, ancora una volta nella sua pelle. Naturalmente non avevo alcuna idea delle effettive condizioni economiche della mia accompagnatrice, così come non sapevo cosa avesse effettivamente studiato – filosofia o germanistica solo per il suo ottimo tedesco – ma ricordavo che aveva i soldi contati per comprare il biglietto di ritorno al suo paese o città ucraina, e parlava per sé il suo abbigliamento molto semplice e fuori moda anche per qualsiasi ragazza ucraina. Le ragazze dell’Europa orientale, molto di più di quelle occidentali, tendono in primis attraverso la cura dell’abbigliamento a fare mostra della loro agiatezza o a mascherarne la mancanza, benché sia discutibile il buon gusto della maggioranza; probabilmente avvertono il bisogno di recuperare in tal modo i decenni di austera e uniforme moda socialista, anche quelli non vissuti di persona. Il suo doppio taglio di feltro grigio per contro, la camicetta bianca di pizzo, il fiocco di seta o raso nero rimandavano al vecchio sistema economico e ideologico, o forse neppure a quello, erano comunque un pugno nell’occhio al gusto imperante, una manifestazione di sfacciato orgoglio per la propria condizione o di estremo bisogno, io sospettavo entrambi.
Naturalmente mi guardai bene dal formulare simili argomentazioni, mi limitai solo ad aggiungere che mi sembrava irresponsabile – ero sul punto di dire sciocco, ma mi trattenni – declinare quel lascito, dopotutto in mancanza di eredi quel patrimonio sarebbe stato incamerato dallo stato senza una parola di ringraziamento – lo stesso stato, pensai senza dirlo, che probabilmente era il responsabile storico della tragedia famigliare di Rosenstein, la causa originaria di quella personalità impervia e insopportabile.
La ragazza non commentò quelle considerazioni, si versò un’altra tazza di tè e sprofondò in un silenzio che osservai per alcuni minuti. Quel giorno non avevo ancora mangiato nulla, affermai a un tratto – era la verità, il mio stomaco brontolava da un pezzo -, sarei stato ben disposto a cucinare qualcosa, azzardai. Per la prima volta Magda sorrise apertamente, se non mi impressionava utilizzare la dispensa di un morto, rispose, nel frattempo lei avrebbe preparato il divano-letto nello studio di Rosenstein. Non potevo sperare di meglio, dissi, avevo messo in conto di chiedere ospitalità per la notte, ma quell’offerta aveva prevenuto la richiesta.
Durante la rapida cena toccammo argomenti più ameni, parlammo di noi con una certa leggerezza, lo spettro di Rosenstein sembrava essere stato fugato per qualche minuto. Prima di andare a letto le proposi di restare per tutto il fine settimana, in cambio dell’ospitalità – se non le sembrava indelicato – avremmo potuto avviare insieme una breve ricerca tra i documenti e gli effetti di Rosenstein, ci fosse stata forse la possibilità di trovare qualche indizio che contribuisse a illuminare un po’ qualcuno di quei misteri. Magda non si decise subito, rifletté per qualche istante calando lo sguardo sui tappeti, non sapeva dire se avesse davvero voglia di passare in rassegna le carte di Rosenstein, la tentazione era forte come il rigetto, avrebbe avuto meno scrupoli se Rosenstein fosse stato effettivamente un parente, invece aveva la sensazione di dover mettere le mani negli effetti di un estraneo. La decisione venne aggiornata all’indomani.
Lo studio di Rosenstein era perfettamente riordinato, prima di mettermi a letto feci un sopralluogo tra i titoli della libreria, aprii qualche volume che mi parve interessante, me ne portai un paio sul cuscino per conciliare il sonno, ma una volta a letto mi era già passata la voglia di leggere, spensi la luce e mi rivoltai tra le coperte per qualche ora. Un attimo prima di prendere sonno ebbi l’inspiegabile sensazione di giacere nel mio letto, di essere finalmente ritornato a casa.

Antonello Piana
Antonello Piana (1974) vive dal 1999 a Berlino, felicemente separato, un figlio. Insegnante, traduttore, guida turistica. Quest’anno uscirà il suo primo romanzo per Robin Edizioni.

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Immagine in evidenza: Foto a cura di Pina Piccolo.

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

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