Che cos’è un Harem? Sulle orme della scrittrice Fatima Mernissi (Paola Magno)

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Che cos’è un Harem? Sulle orme della scrittrice Fatima Mernissi
di Paola Magno

Pensate alla parola harem. Cosa affiora subito alla mente? Nell’immaginario comune quasi sempre una dimora orientale dove ammalianti odalische intrattengono con pratiche erotiche il proprio padrone. Questo stereotipo tipicamente occidentale, con una chiara connotazione sensuale ed estetica, si è consolidato ormai da più di un secolo, come dimostrano le opere di pittori europei quali Donne turche al bagno di Delacroix e Bagno Turco di Ingres1 ed è rimasto tale fino ad oggi.
Volendo allontanarsi dall’ideale occidentale, si scopre che la dimensione erotica rappresenta solo un aspetto dell’istituzione dell’harem, che assume invece caratteristiche diverse a seconda delle epoche storiche. Tra le personalità che meglio hanno trattato questa tematica non si può non ricordare la marocchina Fatima Mernissi, docente di sociologia presso l’Università Mohammed V di Rabat e autrice di fama internazionale di opere come “La terrazza proibita. Vita nell’harem” o “L’Harem e l’Occidente”.
Scomparsa il 30 Novembre 2015 all’età di 75 anni, Fatima Mernissi ha lasciato un’impronta profonda nella storia del Marocco e del femminismo arabo, attraverso la sua analisi sulla condizione della donna nella società islamica e il suo impegno per la libertà femminile.
Nata nel 1940 a Fez, città a Nord del Marocco, all’epoca sotto il protettorato francese, persegue una formazione culturale occidentale, malgrado la sua famiglia sia strettamente legata alla tradizione. Completa gli studi all’Università Muhammad V di Rabat e si trasferisce successivamente a Parigi, dove lavora per un breve periodo in qualità di giornalista.
Nel 1973 ottiene un posto come dottoranda di ricerca in sociologia presso la Brandeis University e pubblica, due anni dopo, la sua tesi dal titolo “Beyond the veil: Male-Female Dynamics in Modern Muslim Society”: questo lavoro rivoluzionario, in cui emerge per la prima volta la riflessione critica sulla condizione della donna, segna l’inizio della sua carriera internazionale2.
Attiva inizialmente in qualità di femminista secolare, ossia sostenitrice di una parità dei sessi all’interno di uno stato laico, fonda nel 1981 il collettivo “Femmes, Famille et Enfants”, destinato a influenzare la questione femminile a livello nazionale. In una fase più matura si avvicina, insieme ad altre esponenti del movimento di genere, alla corrente del femminismo islamico che sostiene la compatibilità tra la religione musulmana e il pieno riconoscimento dei diritti umani3. Basandosi sul rifiuto dei modelli occidentali, tale movimento propone una nuova interpretazione del Corano e degli ḥadīth, i detti del Profeta, attraverso l’iǧtihād, la ricerca libera sui testi sacri, e i tafsīr, i commenti del Corano, allo scopo di far emergere il vero contenuto del messaggio religioso, di stampo tutt’altro che misogino4.

Le prime riflessioni sulla condizione femminile prendono corpo durante l’infanzia, vissuta nell’agio dell’harem paterno, abitato da due famiglie, quella di Fatima e quella di suo zio ʿAlī.
Occorre a questo punto far maggior chiarezza su tale concetto e sulla sua istituzione.
Il termine harem è una variante di ḥarām, che designa ciò che è vietato, proibito, in particolare dalle leggi religiose5. Ciò che è ḥarām si oppone a ciò che è ḥalāl, riferito invece a ciò che è lecito, consentito6. La parola harem designa pertanto un luogo sottoposto a vincoli, in cui certe cose sono proibite.
Esistono due tipologie di harem, quello imperiale e quello domestico. Il primo, diffusosi in epoca omayyade7 e sopravvissuto fino al 1909, era un luogo in cui l’imperatore ospitava le numerose schiave rilevate nei territori conquistati. L’occupazione di queste donne era di intrattenere il sovrano attraverso le proprie doti, non solo sessuali. Il secondo, coesistito insieme a quello imperiale e sopravvissuto anche dopo il 1909, è una casa dove una o più coppie, monogamiche o poligamiche, convivono assieme alle proprie famiglie, eventuali servi e parenti aggiunti8.
In base a questa analisi storica si osserva che ciò fa di una dimora un harem, domestico o imperiale che sia, non è il numero di schiave o di coppie poligamiche in esso presenti, bensì la forzata reclusione delle donne che abitano tale spazio9.
Quello de “La terrazza proibita” è dunque un harem di tipo domestico, regolato dal rispetto di confini inviolabili, gli ḥudūd. Tali sono innanzitutto quelli stabiliti dalla religione islamica, come la necessaria separazione tra musulmani e non musulmani, tra uomini e donne. Quest’ultima si attua su diversi livelli e quasi sempre a discapito delle seconde: i confini inviolabili sono le mura della casa da cui le donne Mernissi non possono uscire se non con un permesso degli uomini; la suddivisione nella gestione di spazi pubblici e privati, i primi occupati dagli uomini, i secondi dalle donne; i veli stessi che le marocchine indossano al di fuori dell’harem per proteggersi dagli sguardi maschili. Ma spesso gli ḥudūd sono regole invisibili che corrispondono a una particolare qā ʿida (costume o un codice di comportamento)10.
Le donne del romanzo vivono dunque una condizione di segregazione, in cui la condivisione dei pasti e delle attività comporta spesso un’assenza di privacy. Tale problematica, espressa dal personaggio di Dūǧa, la madre della scrittrice, fa emergere un altro aspetto della vita nell’harem, l’ostacolo all’individualismo. Nella cultura musulmana infatti i comportamenti individualisti vengono scoraggiati in quanto ogni iniziativa privata costituisce una bidʾa, un’innovazione, ed è percepita come una minaccia alla solidità del sistema islamico11.

Ma dove ha origine questa segregazione?La Mernissi spiega che, secondo la tradizione araba, alla donna viene attribuita la fitna, letteralmente “tentazione” o “fascino”, un potere capace di travolgere irrimediabilmente l’altro sesso e da cui bisogna guardarsi. Per questo la popolazione femminile viene esclusa dallo spazio pubblico attraverso la reclusione all’interno delle mura domestiche e l’impiego del velo al di fuori di esse e più in generale gode di meno libertà rispetto a quella maschile. Tale condizione minoritaria non rispecchia, secondo la Mernissi, il contenuto del Corano che sancisce al contrario la parità dei sessi. Nella Sura delle donne si può leggere infatti: “O uomini! Temete Iddio, il quale vi creò da una persona sola. Ne creò la compagna e suscitò da quei due esseri uomini molti e donne” (4,1)12 e “E chiunque, maschio o femmina, opererà il bene, e sarà credente, entrerà nel Paradiso e non gli sarà fatto torto nemmeno per una scalfittura d’osso di dattero.” (4, 124)13. Questa uguaglianza non viene rispecchiata nella šarī ʿah, la legge islamica: le donne possono ad esempio eleggere i propri rappresentanti in parlamento, ma non hanno voce in capitolo in materia di legislazione. Permane dunque l’omogeneità (maschile) e si evita l’affermazione del pluralismo, in cui l’elemento “altro”, straniero è rappresentato dalla donna stessa14.

Esempi di tale limitazione appaiono già nella tesi di dottorato “Beyond the veil: Male-Female Dynamics in Modern Muslim Society”, in cui la scrittrice, traendo spunto dall’analisi del contesto marocchino, mette in luce come il contributo femminile all’interno della società sia reso invisibile. Da nubile la donna è posta sotto il controllo dei membri maschi della sua famiglia, padre ed eventuali fratelli, mentre attraverso il matrimonio si legittima l’autorità maschile su quella femminile, oltre ad attribuire al marito la tutela della prole così come la proprietà di ciò che viene prodotto dalla moglie15.
Alla violenta critica verso le istituzioni islamiche, di cui quest’opera è un esempio, segue, verso la fine degli anni Ottanta, la presa di coscienza che non è la religione ad essere responsabile della discriminazione di genere bensì il carattere maschilista e patriarcale delle società arabo-islamiche. Tale svolta coincide, come già accennato, con l’avvicinamento alla corrente del femminismo islamico, di cui la Mernissi è considerata una delle pioniere, pur non essendosi mai definita come tale (ma solo femminista)16. È stato infatti proprio in risposta all’inasprimento di alcune leggi discriminatorie di genere, come l’imposizione del velo in Iran, e alla diffusione del fanatismo religioso dopo l’11 Settembre 2001, che le musulmane impegnate hanno espresso la necessità di una maggiore apertura, non intesa come importazione in blocco dei valori occidentali17. Anzi la cultura europea viene contestata in quanto legata ad una percezione della donna musulmana quale vittima indifesa, sottomessa ad un sistema religioso opprimente18. Dal punto di vista pratico le credenti hanno cominciato a riunirsi per analizzare i testi sacri senza la mediazione maschile, il numero di iscritte a corsi di studi islamici è aumentato, così come la presenza femminile in ruoli di spicco nella sfera religiosa19.

Il contributo letterario della Mernissi in questo senso è fondamentale. Come le altre femministe islamiche, affianca alla ricerca sui testi sacri lo studio della storia della prima epoca islamica, della letteratura e dell’antropologia, al fine di inquadrare il contesto storico-sociale in cui si è formata la tradizione e fornire così un’interpretazione del messaggio religioso il più oggettiva possibile (ma non univocamente accettabile)20. Da tale lavoro vengono alla luce opere come “Le donne del profeta. La condizione femminile nell’Islam”, “Le sultane dimenticate. Donne capi di stato nell’Islam”, in cui appare la volontà di restituire la memoria negata e ridare lustro alle figure femminili che hanno occupato ruoli di spicco nella storia musulmana. Nella prima opera si analizzano le norme vigenti all’epoca del profeta Maometto e alcuni suoi ḥadīth considerati misogini. Si evidenzia così la grande apertura verso il genere femminile apportata dall’avvento dell’Islām, in particolare la lotta contro alcune superstizioni, come quella che prevedeva di allontanare le donne mestruate. Altre conquiste furono il riconoscimento del diritto all’eredità per le donne e i bambini, la condanna dell’infanticidio femminile, il divieto di catturare le donne come prigioniere di guerra, la limitazione della poligamia a un numero di quattro mogli e la necessità di
trattare le consorti allo stesso modo21. Le mogli del Profeta inoltre occupavano una posizione privilegiata, godevano di autorevolezza presso i fedeli e influenzavano la politica del tempo. Tra queste spicca in particolar modo Āʾiša, attiva militarmente, grande studiosa di fiqh (scienza del diritto islamico) e autrice di 1210 detti22.

Ma le spose del Profeta non furono le sole a ricoprire un ruolo pubblico decisivo. Ne “Le sultane dimenticate” la Mernissi effettua un’approfondita indagine identificando sedici donne di potere affermatesi in regni musulmani del passato. A tali sovrane vennero attribuiti diversi appellativi tra cui malika (regina), come malika Zaynab o le yemenite Asmāʾ e ʿUrwah, ṣultānah (sultana) come Ṣultānah Raḍḍiyah, al potere a Dehli nel 1236, al-ḥurrah (libera), in riferimento alle nobili che godevano notoriamente di più libertà e potevano pronunciarsi sugli eventi politici, e sitt (signora) come la sovrana egiziana della dinastia fatimide Sitt al-Mulk (la Signora del potere)23. Le figure presentate non furono sovrane giuste e democratiche ma, al pari dei capi di stato uomini, ricorsero a mezzi brutali, come l’uccisione di personaggi scomodi, per perseguire i propri scopi politici.
Accanto a queste regine dimenticate la Mernissi esalta il potere nascosto ma incisivo delle ǧāriyah, le schiave rinchiuse negli harem. Queste figure sono state le prime ad operare una rivoluzione silente, influenzando le vicende storiche molto più di quanto si possa credere. Una fra le prime fu Hayzurān: indusse suo marito al-Mahdī a condividere il potere con lei e, dopo la morte del coniuge, esercitò la propria influenza durante il regno dei suoi figli, al-Hādī e Hārūn al-Rašīd24.

La forza femminile si è dunque affermata nel corso dei secoli, nonostante il tentativo di occultamento dalla scena pubblica. Questa forza, già definita fitna, è temuta ancora oggi proprio per la sua capacità di sconvolgere la società e soggiogare il sesso opposto. D’altro canto essa costituisce un elemento di forte attrazione sessuale, riconducibile non solo alla bellezza fisica ma anche al possesso di intelligenza, di cultura e di talenti artistici. Il personaggio che meglio incarna queste qualità nel lavoro della Mernissi è Šahrazād, una giovane eroina che, attraverso la narrazione di racconti avvincenti, riesce a salvarsi la vita. La parola diviene dunque strumento di potere e di comunicazione che, unitamente ad una buona istruzione, può destabilizzare il sistema patriarcale e ampliare il controllo nella sfera pubblica.

In ultima analisi, la Mernissi propone un confronto interessante tra l’ideale di bellezza in Oriente e in Occidente. Se nel mondo arabo-islamico è il fascino mentale ad attrarre e nel contempo a minacciare l’altro sesso, tale paura svanisce completamente in Occidente dove tutto si risolve nella dicotomia bello/stupido, brutto/intelligente. Ne “L’Harem e l’Occidente” infatti, la scrittrice sottolinea come nel contesto europeo una donna con cui si abbia uno scambio mentale non risulti interessante, rispecchiato dal fatto che le schiave nei dipinti di Delacroix e di Ingres siano ridotte a figure nude e sensuali25. Nell’harem della visione occidentale le donne sono quindi spogliate sia fisicamente che mentalmente, ridotte a mero oggetto per il soddasfacimento sessuale maschile, in una visione in cui il linguaggio del corpo costituisce l’unica fonte di interesse sessuale.

Ossessionate da quest’idea di bellezza corporea, le donne europee, seppur libere di muoversi all’interno dello spazio pubblico, subiscono degli ideali di perfezione che condannano la maturità ed esaltano la giovinezza come unico aspetto accettabile. La sottile intuizione della scrittrice mette in luce quindi come la donna occidentale sia schiava, spesso inconsapevole, di un harem invisibile poiché mentale, le cui regole determinano un modello di bellezza da cui non si deve sconfinare26. L’invito è dunque quello di individuare ed abbattere gli ḥudūd del proprio harem, nel senso di interrogarsi sui propri costumi, su quanto si è effettivamente limitate nelle proprie scelte dalla società in cui si vive. E attraverso la parola e la conoscenza riappropriarsi della propria libertà, spesso delimitata da muri più mentali che fisici.

 

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http://www.oxfordislamicstudies.com/article/opr/t236/e0527 [13.12.2015].

https://www.youtube.com/watch?v=-miRZBe8ADo Charlie Rose, 4 September 1994. Interview with Fatima Mernissi [13.12.2015] Biografia

Paola Magno (Bari, 1989) si avvicina allo studio delle lingue straniere al liceo, dove approfondisce la grammatica e la letteratura dell’inglese, del francese e dello spagnolo.
Intraprende nel 2011 lo studio dell’arabo e del tedesco presso la scuola di Lingue e letterature, Traduzione e Interpretazione all’Università di Bologna e soggiorna tra il 2012 e 2013 in Germania, dove studia presso la Ruhr Universitaet Bochum (Bochum).
Consegue la laurea in Lingue e letterature straniere nel 2014 presso l’Università di Bologna, a cui segue un soggiorno di cinque mesi ad Amman dove frequenta un corso di arabo alla University of Jordan.
Attualmente è iscritta al Master “Arabische Welt: Sprache und Gesellschaft” dell’Università di Vienna con specializzazione in filologia e dialetti arabi.

Riguardo il macchinista

Sana Darghmouni

Sana Darghmouni, Dottore di ricerca in Letterature Comparate presso l'Università di Bologna, dove ha conseguito anche una laurea in lingue e letterature straniere. E' stata docente di lingua araba presso l'Università per Stranieri di Perugia ed è attualmente tutor didattico presso la scuola di Lingue e letterature, Traduzione e Interpretazione all'Università di Bologna.

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