LE FORZE MISTERIOSE
di Leopoldo Lugones
Traduzione di Francesco Verde
Edizioni Lindau, 2017
«Il primo scrittore argentino a coltivare il genere fantastico fu, credo, Leopoldo Lugones con Las fuerzas extrañas… Un gran libro… La Antología de la literatura fantástica, curata da me, Silvina Ocampo e Bioy Casares, ne contiene il racconto “Los caballos de Abdera”, la cui fonte d’ispirazione è un sonetto di… Hérédia [“Fuite de Centaures”]» (Borges en diálogo: conversaciones de Jorge Luis Borges con Osvaldo Ferrari, Buenos Aires, 1985).
«Gran parte del fascino di “Yzur” – racconto che dà origine alla nostra fantascienza – risiede nell’epilogo sorprendente: chi legge non saprà mai se esso corrisponda a quanto in effetti accaduto, o non invece al delirio del narratore, che l’esperienza con la scimmia ha verosimilmente portato alla follia» (Jorge Luis Borges, introduzione al volume antologico Lugones / La estatua de sal, Madrid, 1985).
YZUR
Acquistai la scimmia all’asta fallimentare di un circo.
La prima volta che pensai di tentare l’esperimento narrato in queste righe fu la sera in cui lessi, non ricordo dove, che i nativi di Giava attribuiscono l’assenza di linguaggio articolato nelle scimmie non a un difetto, ma a una deliberata astensione. «Non parlano – dicono – per evitare che le si metta al lavoro».
L’idea, che all’inizio mi parve senza fondamento, finì per occupare a tal punto i miei pensieri da trasformarsi nel seguente assunto antropologico: in origine, le scimmie erano uomini che per qualche ragione smisero di parlare; questo determinò in loro l’atrofia degli organi di fonazione e dei centri cerebrali del linguaggio, e indebolì fin quasi ad annullarla la connessione fra gli uni e gli altri, riducendo l’idioma della specie a gridi inarticolati; così, l’uomo primitivo degenerò in animale.
Era chiaro che, se si fosse riusciti a provarlo, l’assunto avrebbe definitivamente spiegato tutte le anomalie che rendono la scimmia un essere tanto particolare. Ma c’era un solo modo per dimostrarne la consistenza: restituire alla scimmia la capacità di linguaggio.
Intanto, portai il mio esemplare in giro per il mondo e, fra un’avventura e l’altra, l’animale mi si affezionò sempre più. In Europa suscitò un tale interesse che, se solo avessi voluto, avrei potuto agevolmente dargli la celebrità di un Consul[1]; nondimeno, la mia serietà di imprenditore mal si conciliava con simili buffonate.
Tormentato dall’idea che le scimmie potessero parlare, esaurii tutta la bibliografia sull’argomento, ma senza risultati apprezzabili. La sola certezza raggiunta, dopo cinque anni di studio, era che non esiste alcuna ragione scientifica per cui la scimmia non sarebbe in grado di articolare.
Yzur (nome di cui non scoprii mai l’origine, ignota anche al vecchio proprietario) era di sicuro un animale notevole. L’addestramento circense, benché limitato quasi del tutto all’imitazione di comportamenti umani, ne aveva molto sviluppato le facoltà; e questo mi sollecitava a verificare proprio su di lui la mia ipotesi, apparentemente assurda.
Si sa, d’altro canto, che lo scimpanzé (Yzur ne era un esemplare) è una delle scimmie più docili, e quella dotata di maggiori abilità cognitive, il che accresceva le mie probabilità di successo. Ogni volta che lo vedevo camminare su due zampe, con le mani dietro la schiena per tenersi in equilibrio e quel suo aspetto da marinaio ubriaco, si rafforzava in me la convinzione della sua umanità repressa.
Come ho detto, non c’è ragione perché la scimmia non possa assolutamente articolare. Il suo linguaggio naturale, vale a dire l’insieme di gridi per mezzo dei quali comunica con i propri simili, è abbastanza vario; la sua laringe, diversa da quella umana, non lo è certo più di quella del pappagallo, che tuttavia parla; e quanto al suo cervello, il cui raffronto con quello del volatile basterebbe da solo a fugare ogni dubbio, va ricordato che il cervello dell’idiota ha lo stesso grado di evoluzione, ma che vi sono cretini comunque in grado di parlare. È evidente, infine, che lo sviluppo della circonvoluzione di Broca dipende dallo sviluppo generale del cervello e che, mancando prove inoppugnabili, essa non è necessariamente la sede del linguaggio. Sebbene si tratti della localizzazione meglio stabilita in anatomia, i dati in materia restano controversi.
Per fortuna, nonostante i molti tratti negativi, le scimmie hanno spiccata tendenza all’apprendimento, come dimostrano il loro mimetismo, l’ottima memoria, la facoltà razionale (che ne fa anche scaltre simulatrici), e l’attenzione, comparativamente più sviluppata che nel bambino. Tutto ciò le rende soggetti pedagogici fra i meglio predisposti.
Il mio era oltretutto un giovane esemplare, ed è noto che la scimmia, al pari del negro, esprime il suo massimo rendimento intellettivo durante l’adolescenza. L’unica difficoltà risiedeva nel metodo da applicare per conferirgli la parola.
Sapevo di tutti i tentativi infruttuosi dei miei predecessori, alcuni di grande competenza, e non serve aggiungere che, di fronte all’inutilità dei loro sforzi, la saldezza dei miei propositi venne meno più di una volta; fino a quando il continuo meditare sull’argomento mi portò a questa conclusione: per prima cosa, occorre favorire nella scimmia lo sviluppo dell’apparato fonatorio.
È così, in effetti, che si procede con i sordomuti perché giungano finalmente ad articolare. Appena ebbi fatta questa riflessione, mi balzarono alla mente le tante analogie fra scimmia e sordomuto.
Innanzitutto, la straordinaria capacità mimica che compensa la mancanza di linguaggio articolato, a dimostrazione che se si smette di parlare, non per questo si smette di pensare, poiché quest’ultima facoltà non viene ridotta dalla paralisi della prima. Poi, caratteri più peculiari, insiti nella specie: la diligenza, la fedeltà, il coraggio, rafforzati da altre due doti, la cui compresenza è davvero rivelatrice: l’abilità nei giochi di equilibrismo e la resistenza alla nausea.
Decisi, allora, di cominciare con un’effettiva ginnastica di lingua e labbra, trattando la mia scimmia come un sordomuto. Per il resto, per stabilire cioè dirette comunicazioni verbali, mi avrebbe soccorso l’udito, senza necessità di ricorrere al tatto. Il lettore vedrà che, a questo riguardo, le mie previsioni peccavano di eccessivo ottimismo.
Fortunatamente, di tutte le grandi scimmie lo scimpanzé è quella con labbra più mobili, e Yzur nella fattispecie, avendo sofferto di angina, sapeva aprire la bocca a comando, per farsela esaminare.
Le prime osservazioni confermarono in parte i miei sospetti. La lingua rimaneva in fondo alla bocca come una massa inerte, senza altri movimenti che quelli della deglutizione. La ginnastica produsse presto i suoi effetti, poiché, dopo due mesi, l’animale sapeva già tirare fuori la lingua per gioco. Fu questo il primo rapporto che Yzur giunse a stabilire fra il movimento della propria lingua e un’idea: un rapporto, del resto, affatto coerente con la sua natura.
Le labbra richiesero un lavoro maggiore, dal momento che bisognò addirittura allungargliele con delle pinze; ma la scimmia sembrava comprendere – forse dall’espressione del mio volto – l’importanza di quegli strani esercizi, e li eseguiva con prontezza. Mentre le mostravo i movimenti labiali che avrebbe dovuto imitare, rimaneva seduta, grattandosi il dorso con un braccio teso all’indietro e ammiccando dubbiosa, o lisciandosi ritmicamente le basette, in tutto simile a un uomo che cerchi, così, di schiarirsi le idee. Alla fine, imparò a muovere le labbra.
Ma la pratica del linguaggio è un’arte difficile, come dimostrano i lunghi balbettii necessari al bambino per acquisire, parallelamente al proprio sviluppo intellettivo, la facoltà verbale. È provato, infatti, che il centro delle innervazioni vocali si trova associato a quello della parola, e che perciò il normale sviluppo di entrambi dipende dal loro esercizio armonico. Lo aveva già intuito nel 1785, come deduzione filosofica, Heinicke, l’inventore del metodo vocale di insegnamento ai sordomuti, il quale parlava di «concatenazione dinamica delle idee»: espressione la cui profonda chiarezza dovrebbe servire da esempio a più di uno psicologo contemporaneo.
Rispetto al linguaggio, Yzur si trovava nella stessa condizione del bambino che, prima di aver imparato a parlare, conosce già un gran numero di parole; per la sua maggiore esperienza di vita, la scimmia dimostrava tuttavia una capacità ben superiore di associare parole e concetti.
Tali concetti, non soltanto sensitivi, ma anche inquisitivi e disquisitivi, a giudicare dal carattere differenziale che assumevano – lasciando così supporre una capacità di ragionamento astratto – denotavano un grado superiore d’intelligenza, senz’altro favorevole al buon esito del mio esperimento.
Basti pensare, perché le mie teorie non appaiano troppo audaci, che il sillogismo, ossia il metodo fondamentale di argomentazione logica, non è estraneo alla mente di molti animali, consistendo originariamente in una comparazione fra due sensazioni. Come si spiega, altrimenti, che a fuggire dall’uomo sono sempre gli animali che ne hanno già avuta esperienza, e mai quelli che ancora non lo conoscono?
Diedi inizio, allora, all’educazione fonetica di Yzur. Si trattava di insegnarle prima l’articolazione meccanica, per poi condurla, progressivamente, al significato delle parole.
Poiché la scimmia è dotata di voce ed è quindi, seppure con rudimentali mezzi articolatori, avvantaggiata rispetto al sordomuto, occorreva insegnarle le variazioni vocali alla base dei fonemi e della loro articolazione, definita dagli esperti «estatica» o «dinamica», a seconda che riguardi le vocali o le consonanti.
Data la golosità della scimmia, e seguendo al riguardo un metodo già applicato da Heinicke con i sordomuti, decisi di associare ogni vocale a una ghiottoneria: «a» a patata, «e» a mela, «i» a vino, «o» a cocco, «u» a zucchero – in modo che la vocale fosse contenuta nel nome dell’alimento, ora come suono unico e ripetuto («patata», «cocco»), ora come suono principale, unendo i due accenti, tonico ed espiratorio («vino», «mela», «zucchero»).
Finché si trattò di vocali, cioè di suoni prodotti a bocca aperta, tutto procedette per il meglio. Yzur le imparò in quindici giorni. Solo che, a volte, l’aria contenuta nelle tasche boccali dava loro una sonorità quasi tonante. Quella che le costò più fatica pronunciare fu la «u».
Le consonanti richiesero, invece, uno sforzo immane, e ben presto mi convinsi che non sarebbe mai riuscita a pronunciare quelle nella cui articolazione intervengono denti e gengive. I suoi lunghi canini e le sue tasche boccali lo rendevano del tutto impossibile.
Il vocabolario si riduceva, così, alle cinque vocali e alla «p», alla «k», alla «m», alla «g», alla «f» e alla «c»: alle consonanti, cioè, nella cui articolazione intervengono solo il palato e la lingua.
Ma anche per queste l’udito non fu sufficiente. Come con un sordomuto, dovetti ricorrere al tatto, appoggiando la mano della scimmia prima sul mio petto e poi sul suo, perché avvertisse le vibrazioni sonore.
Passarono tre anni, senza che riuscisse ad articolare neanche una parola. Tendeva a chiamare le cose con il fonema predominante nei loro nomi. Tutto qui.
Al circo aveva imparato a latrare come i cani, suoi compagni di spettacolo; e quando mi vedeva disperato per i sempre vani tentativi di strapparle una parola, latrava con forza, come a volermi offrire tutto ciò di cui era capace. Pronunciava vocali e consonanti separatamente, ma non era in grado di associarle. Imbroccava, al più, vertiginose ripetizioni di «p» e di «m».
Pur se lentamente, la sua indole era molto cambiata. Faceva meno smorfie, il suo sguardo si era fatto più profondo, e la scoprivo spesso in atteggiamenti meditativi. Aveva preso l’abitudine, per esempio, di contemplare le stelle. Del pari, era aumentata la sua sensibilità: notavo in lei una maggiore facilità alle lacrime.
Le lezioni si succedevano con ostinata costanza, ma senza il minimo successo. Andavano trasformandosi, oramai, in una penosa ossessione e così, a poco a poco, mi decisi a usare la forza. Il fallimento mi inaspriva, e sentivo crescere in me un cupo risentimento nei riguardi di Yzur. L’animale si intellettualizzava sempre più nel suo ribelle mutismo, e io iniziavo a convincermi che non ne sarebbe mai uscito, quando di colpo realizzai: non parlava perché non voleva parlare.
Il cuoco venne a dirmi una notte, terrorizzato, di avere sorpreso la scimmia a «pronunciare vere parole», accovacciata nell’orto, vicino a una pianta di fichi. Lo spavento subìto gli impediva, però, di ricordare l’essenziale, e cioè quali parole avesse proferito Yzur. Credeva solo di rammentarne due: «bocca» e «pipa». Mancò poco che non lo prendessi a calci per la sua imbecillità.
Inutile dire che passai la notte in preda a un grande turbamento: l’errore che in tre anni non avevo commesso, ciò che mandò tutto in malora, derivò da quella veglia snervante, non meno che dalla mia eccessiva curiosità.
Invece di attendere che la scimmia giungesse spontaneamente a manifestare la propria capacità di linguaggio, il giorno dopo la chiamai e la costrinsi a parlare.
Non ottenni che le solite «p» e «m», di cui ormai ero stufo, insieme a ipocrite strizzatine d’occhio e – Dio mi perdoni – a una certa vaga ironia che mi parve trasparisse dalle sue smorfie.
Mi spazientii e, senza alcuna ragione, la frustai, con l’unico risultato di farla piangere. Al pianto seguì poi un silenzio assoluto: mai più rotto, neanche da gemiti.
Di lì a tre giorni si ammalò, cadendo in una specie di ombrosa demenza, complicata da sintomi di meningite. Sanguisughe, affusioni d’acqua fredda, purganti, revulsivi cutanei, alcolaturo di brionia, bromuro – ogni terapia utile a curare quel male spaventoso le venne somministrata. Lottai con disperata energia, spinto sia dal rimorso per la crudeltà dimostrata verso l’animale, sia dal timore che la scimmia portasse nella tomba il suo segreto.
Migliorò dopo molto tempo, rimanendo tuttavia così debole da non riuscire a sollevarsi dal giaciglio. La prossimità alla morte l’aveva nobilitata e umanizzata. I suoi occhi, pieni di gratitudine, non si distoglievano mai da me, seguendomi per tutta la stanza come sfere girevoli, anche quando mi trovavo dietro di lei; la sua mano cercava le mie, nell’intimità della convalescenza. Per me, uomo solo, veniva rapidamente assumendo l’importanza di una persona.
Il demone dell’analisi, il quale non è che una forma di perversione, mi spingeva però a continuare i miei esperimenti. Se la scimmia aveva realmente parlato, la faccenda non poteva chiudersi così.
Iniziai con grande cautela, chiedendole le lettere che già sapeva pronunciare. Niente! La lasciai sola per ore, spiandola da un forellino nel tramezzo. Niente! Le parlavo con frasi brevi, facendo leva sulla sua fedeltà o sulla sua ingordigia. Niente! Quando davo alla mia voce un tono patetico, gli occhi le si riempivano di lacrime. E a frasi come «io sono il tuo padrone» – parole con le quali introducevo ogni seduta di addestramento, facendo loro seguire le complementari «tu sei la mia scimmia», allo scopo di instillare nella sua mente una qualche verità assoluta – lei annuiva serrando le palpebre, ma senza produrre alcun suono, senza neanche muovere le labbra.
Era tornata a comunicare solo attraverso la gesticolazione; particolare questo che, unito alle altre analogie coi sordomuti, mi induceva ad agire con raddoppiata cautela, data la notoria, forte predisposizione dei sordomuti alle malattie mentali. C’erano momenti, in verità, in cui mi auguravo che impazzisse, per vedere se il delirio ne avrebbe finalmente rotto il silenzio.
Le sue condizioni rimanevano stazionarie. Perdurava in uno stato di malinconica prostrazione. Soffriva, evidentemente, di troppa intelligenza. L’innaturale cerebrazione imposta all’animale ne aveva spezzato l’unità organica e, presto o tardi, avrebbe finito col perderlo.
Ma nonostante la maggiore docilità indotta dalla malattia, quel silenzio, quel disperante silenzio provocato dalla mia collera, non cessava. Custode di oscure memorie pietrificatesi in istinto, la razza imponeva all’animale il proprio millenario mutismo, fortificando di volontà atavica le radici stesse del suo essere. Costretti al silenzio, indotti al suicidio intellettivo da chissà quale barbara ingiustizia, gli antichi uomini della foresta serbavano il loro segreto – di misteri silvestri e abissi primordiali – proprio in quella decisione, certo non più consapevole, ma tenacemente ribadita nell’infinito scorrere del tempo.
Superato l’antropoide nella corsa evolutiva, l’uomo aveva spodestato le grandi famiglie di quadrumani dal dominio arboreo degli eden primitivi, decimandole e catturandone le femmine, per organizzare la schiavitù già nel ventre materno; fino a quell’ultimo atto di dignità morale, con cui i vinti si separarono definitivamente dai vincitori, rompendo il vincolo della parola – infausto, benché superiore – e cercando rifugio nelle tenebre dell’animalità.
E chissà quali martirii, quali orribili sevizie dovettero averle inflitto i nuovi dominatori, perché la semibestia in stallo evolutivo si rassegnasse, dopo aver gustato il frutto paradisiaco della conoscenza, il frutto di cui narrano le bibbie, a quel claudicante ritorno della specie nella schiera indistinta dei sottomessi; a quel volontario regresso, che cristallizzava per sempre la sua intelligenza nei gesti automatici dell’acrobata; a quella codarda remissione, che avrebbe eternamente incurvato, come marchio d’infamia, la sua schiena di bestia dominata, imprimendole sul volto quel perenne straniamento che ne fa, ancora oggi, una triste caricatura.
Ecco ciò che, a un passo dal traguardo, il mio malumore aveva richiamato dalle profondità del limbo atavico. Attraverso milioni di anni, la parola aveva esorcizzato l’antica anima scimmiesca; ma prima che la sua seduzione giungesse a dileguare le tenebre protettrici dell’animalità, la memoria ancestrale, diffusa nella specie sotto forma di orrore istintivo, le aveva opposto era su era, come una muraglia.
Yzur entrò in agonia, senza perdere conoscenza. Una dolce agonia a occhi chiusi: respiro fioco, polso debole, inerzia assoluta, dalla quale si riscuoteva di tanto in tanto, solo per volgere verso di me la sua faccia di vecchio e triste mulatto, con un’espressione di straziante fissità.
Fu l’ultima sera, la sera della sua morte, che accadde la cosa inaudita per cui ho voluto raccontare questa storia.
Mi ero assopito al suo capezzale, vinto dalla calura e dalla quiete del crepuscolo incipiente, quando mi sentii all’improvviso afferrare i polsi.
Mi svegliai di soprassalto. La scimmia, con gli occhi sbarrati, era prossima alla fine; la sua espressione, così umana, mi fece paura, ma la sua mano, i suoi occhi mi attraevano con tale eloquenza che non potei non chinarmi immediatamente su di lei. E allora, col suo ultimo respiro, un respiro che premiava e insieme dissolveva tutte le mie speranze, sgorgarono – ne sono certo – in un sibilo confuso (come descrivere una voce rimasta muta per diecimila secoli!) le seguenti parole, la cui umanità riconciliava le specie:
«Padrone, acqua. Padrone, padrone mio…».
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[1] Nome di uno scimpanzé da circo, molto popolare in Inghilterra fra gli ultimi anni dell’800 e i primi del ’900. I suoi spettacoli divertirono molto l’allora bambino Arthur Tindell Hopwood che, ricordandosene, volle chiamare Proconsul («antenato di Consul») il fossile rinvenuto nel 1933 [N.d.T.].
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Leopoldo Lugones (1874-1938) nacque nella provincia di Córdoba, in Argentina, ricevendo dalla madre una severa educazione cattolica e un’iniziale formazione letteraria. Dopo aver mosso i primi passi nell’ambito del giornalismo e della poesia (firmando i propri componimenti con lo pseudonimo di Gil Paz), intraprese un lungo viaggio in Europa, esperienza all’epoca considerata imprescindibile per far parte dell’élite letteraria di Buenos Aires. Nel corso della sua vita fu giornalista, poeta – influenzato inizialmente dal simbolismo francese e poi dal modernismo europeo (in particolare nelle opere Los crepúsculos del jardín, 1905, e Lunario sentimental, 1909) –, ma anche prolifico autore di racconti (La guerra gaucha, 1905, Las fuerzas extrañas, 1906, Cuentos fatales, 1924), nonché studioso di occultismo e teosofia. Dopo aver aderito alla massoneria nel 1889, fu protagonista di successive giravolte ideologiche, passando dal socialismo al liberismo fino ad approdare al nazionalismo autoritario (con la fondazione, nel 1929, del partito parafascista Liga Repúblicana). Il 18 febbraio 1938, in preda a una pesante crisi depressiva dovuta a delusioni amorose e politiche, Lugones si tolse la vita in un hotel di Tigre, ingerendo un mix letale di cianuro e whisky.
Testo pubblicato su gentile concessione della casa editrice.
Traduzioni delle citazioni borgesiane in epigrafe di Francesco Verde.
Immagini contenute nel testo dell’illustratore argentino Rodolfo Fucile, pubblicate per sua gentile concessione (www.rodolfofucile.com.ar)
Immagine in evidenza di Alberto Guadagno