Yun yun (granite contro il calore)
Karlina Veras
traduzione e cura di Barbara Stizzoli
Introduzione di Reynolds Andújar
Edizioni Arcoiris 2020
Yun yun (granite contro il calore) è un libro che produce il desiderio di possederlo, portarlo in tasca, perché dà la sensazione di freschezza, ma la bellezza di questo libro di Karlina Veras non si limita all’aspetto estetico. In apertura troviamo una poesia di Emily Dickinson, ma è dentro il libro che scopriamo che lo scopo è trovare la poesia nella quotidianità dominicana, caraibica, in queste storie molto brevi, cortometraggi dalla voce delicata che trascurano la storia per trovare la poesia.
Un amore contorto nei confronti del luogo di provenienza può spingere le persone ad allontanarsene, ma la separazione dalla terra natia rappresenta quasi sempre una ferita che, inevitabilmente, provoca un perpetuo senso di malinconia ed è indispensabile comprendere che a volte all’essere umano, quando è lontano, ciò che resta è rievocare la sua casa, il suo ambiente, la famiglia, i fratelli.
La città di Santo Domingo non è mai nominata nelle pagine che compongono il libro d’esordio di Karlina Veras, ma il suo spirito e la sua essenza sono sempre presenti.
Attraverso trentanove racconti, alcuni dei quali microracconti, Karlina Veras illustra la dominicanità descrivendola a volte con rassegnazione e accettazione, altre volte con orgoglio e allegria, anelando di poter rivivere situazioni che non ritrova nella Londra in cui risiede, consapevole di aver rinunciato a una parte di sé.
Yun yun (granite contro il calore) ci trasporta ai Caraibi e al tempo stesso esorcizza un dolore latente che accompagna la sua autrice, ormai felicemente inserita nella realtà britannica, ma questo dolore, nel momento inaspettato, bussa alla porta e la trova aperta.
Barbara Stizzoli
Fra birre e bachata
Guancia a guancia. Strette. Come se nessuno le stesse guardando, ballano bachata. I loro vestiti a balze svolazzano con la brezza. L’odore di mare ispira felicità. A volte arriva qualche spruzzo di questa acqua violenta portata dalle onde che sbattono sugli scogli del lungomare. Una con la sua Presidente[1] in mano, l’altra con i tacchi alti. La gente le guarda con disprezzo e vergogna. E loro, come se nulla fosse. Continuano a ballare bachata. Eseguendo i passi, respirando il mare.
Perché non posso giocare a vitilla[2]
«Stringi, Marleni, stringi!». Gridò Soraya a sua figlia.
«Mamma. Non capisco. Devo stringere che cosa?». Soraya, ascoltando queste parole, si mise la mano in faccia.
«Ma come non capisci? Stringi!».
Marleni girò il viso, e dalla finestra guardò con invidia i suoi fratelli e cugini mentre giocavano a vitilla. Con lo sguardo fisso su di loro, parlò a sua madre.
«Mamma, però io voglio giocare a vitilla con i ragazzi!».
«Ma quale vitilla. Solo questo mi mancava. Una figlia maschiaccio!».
Soraya girò su se stessa varie volte, facendo un solco sul terreno su cui poggiavano i suoi piedi scalzi.
«Capisci che loro sono maschi. Tu sei femmina. Pertanto, devi esercitarti. Stringi là per almeno dieci minuti».
«Ma devo stringere che cosa?».
«Ancora? Stringi la fica, cazzo. La fica!». Marleni, che guardava ancora verso l’esterno, non la ascoltò neanche. «Marleni!».
Questa volta la sentì, ma decise di ignorarla. Sperando di essere lasciata in pace.
Il suo tentativo andò a buca. A Soraya salì il sangue alla testa. Prese Marleni per la mandibola e le girò la faccia verso di lei. «Guardami quando ti parlo figlia del diavolo. Quante volte te l’ho detto? Sarà meglio che tu stringa».
«Ma mamma!». Soraya perse la pazienza. Questa volta la prese per il braccio e se la portò dall’altro lato del salone. La mise davanti a uno specchio ossidato. Marleni poté vedersi intera.
«Che vedi?». Chiese Soraya a sua figlia, quasi gridando.
«Me stessa». Le rispose Marleni, con un tono di “ovvio, mamma, che domanda idiota!”.
«Ah diamine. Come sei. Pensa, cazzo, che per qualche motivo ti mando a scuola».
«Beh, né una mazza da scopa né una balena».
«Dio mio, quanto sei stupida. Guardati bene. Che altro?».
Marleni guardò fissando lo specchio, e riuscì a vedere il riflesso. Nei suoi occhi ambrati, si ritrovò.
«Sono, bianca?». Soraya respirò.
«Esatto, Marleni, bianca». La interruppe Soraya, entusiasta. «Adesso guarda lì».
Le ordinò, indicando un gruppo di ragazze, più o meno della stessa età di Marleni, che camminavano per strada. «Cosa vedi adesso?».
«Un gruppo di ragazze».
«Errore! Marleni. È un gruppetto di haitiane. Haitiane negre, hai capito? Loro sono le tue antagoniste. Hanno nel sangue il cocomordán[3]. Vanno a ruba. Ma tu no, Marleni. Tu no. Stringi!».
Marleni si guardò allo specchio, dopo guardò le haitiane. Qualcosa sul suo volto cambiò. Si sedette sulla sedia a dondolo di suo padre assente, e iniziò a stringere.
Ariel
Li c’è Ariel, questa bambina innocente con riccioli rossi e brutti capelli strani. Nessuno nel suo quartiere capiva il perché della sua strana apparenza. I genitori di suo padre, Juan, erano delusi. Juan era un pazzo, diceva la gente.
Era ovvio che Ariel non fosse uguale a tutti gli altri membri della famiglia. La maggior parte di loro era bianca, capelli lisci, con occhi chiari. Alcuni con capelli neri, altri con capelli biondi, la maggior parte con capigliatura castana. Ma Ariel no. Ariel aveva la pelle color cannella, brutti ricci rossi e occhi verdi come una laguna. Che maledizione per questa povera bambina! Nascere così, bionda ma con pessimi capelli[4]. Senza appartenere né a questo posto né a un altro. Non si preoccupi Signora, pregheremo la Madonna per la bambina, dicevano le persone a sua nonna. Grazie, grazie, rispondeva la nonna, con speranza apparente.
E tutto per colpa di suo figlio, che non riuscì a resistere e andò a letto con quella nera. Adesso la sua prima nipote è uno scherzo della natura. Non poteva nemmeno pettinarla. Il pettine rimaneva incastrato fra questi fili rossi che aveva al posto dei capelli. Bisognava portarla dal parrucchiere per farglieli districare, per renderla un minimo decente. Cazzo Juan, che diamine! Hai rovinato la razza[5]. Diceva la signora a suo figlio mentre tirava i capelli alla bambina, nel tentativo di pettinarla.
[1] Birra Presidente, la birra più bevuta in Repubblica Dominicana.
[2] La vitilla è un gioco derivato dal baseball e che prevede l’utilizzo del tappo di bottiglia in sostituzione della palla, e di un bastone di legno come alternativa alla mazza.
[3] È l’arte che possiedono alcune donne di stringere il membro maschile durante i rapporti sessuali. La parola deriva dal patois haitiano e significa “vagina che morde”.
[4] I pessimi capelli sono il segno distintivo delle persone di colore. Averli è una maledizione per una bambina proveniente da una famiglia di bianchi.
[5] Frase sarcastica con cui i dominicani sottolineano che l’unione fra un bianco e un nero possa “rovinare” la razza bianca, con il continuo riferimento ai “pessimi capelli”.
Karlina Veras, nata a Santo Domingo, Repubblica Dominicana, vive a Londra dal 2006. Trova ispirazione per i suoi lavori nei ricordi d’infanzia e negli aneddoti familiari. Nell’autunno del 2017 il suo racconto “La Victoria” è stato pubblicato nell’antologia di lingua spagnola “Otras vidas posibles” curata da Battersea Spanish Londra con prologo scritto dall’acclamato scrittore costaricano Carlos Fonseca. Yun yun (pa’ la calor) del 2018, è la sua opera prima.
Pubblicato per gentile concessione della casa editrice.
Immagine di copertina: illustrazione di Giovanni Berton.