WUHAN: ANTICHI BRONZI, PUNK E DIARI DI QUARANTENA (Intervista alla sinologa Radina Dimitrova, a cura di Lucia Cupertino)

ponte

 

RACCONTIAMO WUHAN

INTERVISTA DI LUCIA CUPERTINO A RADINA DIMITROVA

Lucia Cupertino: Benvenuta al sofà virtuale de La macchina sognante. Nel 2020, Wuhan ha fatto capolino nella mappa mentale di molte persone nel mondo, tuttavia sappiamo molto poco di questa città, se non per la questione del coronavirus. Ci farebbe piacere che condividessi con noi la tua esperienza di sinologa e viaggiatrice a Wuhan. Come ci sei arrivata?

Radina Dimitrova: Innanzitutto, sono infinitamente grata per questo invito che mi dà la doppia opportunità di condividere le mie esperienze a Wuhan e di cercare di rimediare, almeno un po’, all‘immagine negativa che ha recentemente acquisito, a causa del coronavirus. Wuhan era ed è ancora uno dei luoghi più amati, desiderati e sognati della mia vita. Se fosse possibile viaggiare lì adesso, prenderei l’aereo senza pensarci due volte.
Ricordo che nella primavera del 2006 ricevetti – con copiose lacrime e una stizza monumentale – la notizia che avrei studiato in una città sconosciuta e in un’università che non era di mia scelta… Ricordo di aver cercato Wuhan sulla mappa della Cina appesa nella mia stanza, in Bulgaria, e di aver ripetutamente misurato, con grande disperazione, la distanza tra Pechino, Shanghai e quel punto centrale del paese, che a quel tempo era ai miei occhi nient’altro che un luogo sperduto nella “provincia profonda”.
Giunsi a Wuhan alla fine dell’estate del 2006, con una borsa di studio per studiare il mio secondo master in letteratura cinese antica, presso l’Università pedagogica del Centro della Cina, nota anche come Università di Huazhong o la Normale del Centro della Cina. Dopo aver superato lo shock iniziale, causato dal terribile calore umido, dal fragoroso caos nelle strade, dalla burocrazia per la residenza e dall’improvvisa influenza che mi colpì nella prima settimana, ero sulla via della riconciliazione con l’idea di spendere i successivi tre anni a Wuhan. Trascorsero come fossero tre giorni, così intensa e vertiginosa è stata la mia esperienza lì. Ho studiato, ho lavorato, ho viaggiato, ho nuotato, ho amato… Alla fine me ne sono andata, con lacrime ancora più abbondanti e con un dolore intenso e sincero, come quando si lascia alle spalle un grande amore.

Lucia Cupertino: Quali attività hai svolto?

Radina Dimitrova: Oltre ai corsi obbligatori del master, ho fatto un pellegrinaggio da un’aula all’altra per ascoltare il maggior numero possibile di corsi, sia nella mia università che a Wuhan: letteratura classica cinese, antica, popolare e moderna, teatro tradizionale, storia del cinema cinese, buddismo, ecc. Ho anche lavorato come insegnante di inglese e spagnolo nelle scuole materne, private e pubbliche, anche nell’università… L’esperienza di lavoro mi ha aiutato a imparare a muovermi facilmente in questa grande e complessa città tripartita che è composta da Wuchang, Hankou e Hanyang e anche a relazionarmi più intimamente con i cinesi, la loro vita quotidiana e il loro modo di pensare. La vicinanza quasi quotidiana con bambini e giovani di età e gruppi sociali diversi mi ha arricchito enormemente, ha notevolmente aumentato il mio livello di cinese, permettendomi di comprendere meglio i portatori contemporanei di quell’antica cultura che mi ha sempre affascinato così tanto. Mentre insegnavo corsi di lingua, seguivo anche un corso accelerato in “società cinese” che nessuna università è in grado di offrire in modo così autentico.

strada

Lucia Cupertino: Che idea ti sei fatta dalla città durante il tuo soggiorno?

Radina Dimitrova: Non me la feci fino a quando si avvicinò la partenza. E in quegli ultimi mesi – di nuovo soffocanti mesi estivi – non si è nemmeno cristallizzata una chiara idea del luogo in quanto tale, ma sono emersi sentimenti diversi, forti e contrastanti, quella particolare sensazione di aggrapparsi a ciò che hai amato, forse senza accorgertene. Wuhan per me non è un luogo, ma una vita e le migliaia di sensazioni che mi hanno nutrita.
La città mi ha fatto innamorare del suo giovane volto, il carattere ribelle, estroverso e scandaloso della sua gente; le amicizie sorte lì, alcune delle quali durano fino ad oggi; la vegetazione traboccante e i laghi sparsi ovunque; gli antichi tesori del Museo Provinciale di Hubei; la vibrante scena underground e soprattutto il punk; i mercati sudici, ma pieni di prelibatezze; le bancarelle notturne di
shaokao; anche il puzzolente chou doufu, il cui cattivo odore irrazionalmente mi manca. E il fiume: robusto, perenne, necessario… Sono nata sulle rive del Danubio e questo mi ha predestinato a cercare sempre l’acqua corrente come l’asse della mia vita.
Wuhan è un grande amore per me, inspiegabile e vero.

Lucia Cupertino: Dal vicino sito archeologico di Panlongcheng all’insurrezione di Wuchang… se dovessi condensare tutto ciò che è successo dal punto di vista storico a Wuhan, cosa sceglieresti di raccontarci?

Radina Dimitrova: Wuhan è storia. Al suo interno e nei dintorni, sono accaduti molteplici eventi, battaglie e sconvolgimenti storici, ci sono anche così tanti resti archeologici di epoche diverse e di diverso tipo… Sarebbe folle provare a mettere in evidenza un singolo evento o sito. Meglio parlare di fenomeni. Vorrei fare riferimento a due che, a prima vista, possono sembrare totalmente diversi, anche diametralmente opposti, ma che sono tracce essenziali nella fisionomia culturale di Wuhan.

campane bronzo
Uno dei momenti che mi hanno segnato per la vita è stat
o quello della mia prima visita, all’inizio del 2007, al Museo Provinciale di Hubei, quando molte sezioni erano chiuse a causa di un rinnovamento in occasione dei Giochi olimpici del 2008. Ricordo di aver iniziato la visita con una certa noia, che all’improvviso è svanita quando mi sono imbattuta – senza una conoscenza preliminare o alcuna preparazione – nella collezione di antichi bronzi del Tesoro del Duca Yi, del regno Zeng (Zeng Hou Yi), uno dei vassalli dell’enorme regno di Chu, che occupava i vasti territori a sud della culla della civiltà cinese. Incredula, pensavo che le targhette fossero sbagliate e che oggetti di tale dimensione e raffinatezza non sarebbe potuti essere manufatti del 500 a.C. Ad un certo punto mi sono resa conto che non stavo respirando, tale era il mio stupore. Con il semplice fatto di esserci – e anche di essere davanti ai miei occhi – quegli imponenti oggetti in bronzo mi hanno convinta circa la prospera economia, la floridezza culturale e l’inimmaginabile portata tecnologica del regno di Chu, che conoscevo vagamente e più per la filosofia e la poesia classica. Ora che insegno un corso sull’arte della Cina, inizio sempre con il tema dei bronzi antichi, dando a questo tesoro di 64 campane rituali, ospitato nel cuore di Wuchang, il posto che gli spetta.
Il contrappunto alla millenaria cultura materiale
si lega ad un’altra passione, diventata ancora più forte durante i miei anni a Wuhan: la scena rock cinese. Dopo una breve incursione, durante il mio primo soggiorno in Cina (Pechino 2002-2003, prima forte esperienza con i pericolosi virus di origine esotica e rapida diffusione), fu a Wuhan che potei incontrare persone, gruppi musicali, luoghi ed eventi legati al vivace movimento underground del primo decennio del XX secolo. Molto importante è stato (ed è tuttora) il mitico bar VOX dove ho ascoltato sia i classici gruppi punk di Wuhan (tornerò tra poco su questo tema), sia gruppi di Pechino, sia da tutta la Cina, come anche dall’estero. Non mentirei se dicessi che, proprio nel mio ultimo anno a Wuhan, è stato quando, dopo essere stata durante la mia prima giovinezza molto seria, ai limiti della secchiosa, a quasi 30 anni ho iniziato a imparare a divertirmi. Wuhan notturna e i suoi innumerevoli suoni rappresenta una parte inseparabile di questa esperienza intima. Così, nella mia memoria, Wuhan risuona, allo stesso tempo, col solenne scampanellio dei bronzi rituali e con le voci rauche delle chitarre elettriche. Questi due suoni – apparentemente estranei l’uno all’altro – si trovano alle estremità opposte della medesima corda storica, estesa su oltre due millenni.

Lucia Cupertino: Sin dall’antichità Wuhan è stata una delle culle artistiche della Cina, in particolare ha vissuto periodi d’oro nel campo della poesia. Cosa ha favorito tutto ciò? Quali sono le voci più importanti dell’antichità?

Radina Dimitrova: Cosa avrà favorito che la poesia sia sgorgata nella terra di Chu in un modo più impetuoso delle stesse acque dello Yangtze? Probabilmente neppure i più dotti storici e studiosi di letteratura cinese potrebbero rispondere a questa domanda. Forse è stata l’abbondanza di tutto – cibo, risorse, bellezze naturali – che ha esentato gli abitanti del sud della Cina da qualsiasi difficoltà e mancanza e ha permesso al loro spirito libero di indulgere in ricerche più sublimi… Prima della poesia, nelle calde terre di Chu, è sorta un delle figure leggendarie della filosofia classica cinese: il saggio Laozi. Si dice che fosse un contemporaneo e avversario dello stesso Confucio e che, in quei tempi di guerra e disordine sociale costanti, il ​​suo pensiero fosse molto più popolare di quello del famoso erudito. Anche nei Dialoghi, opera che raccoglie la saggezza di Confucio, ci sono parti (per esempio, i paragrafi VI e VII del capitolo XVIII) che descrivono gli incontri tra taoisti e confuciani, in cui i primi riescono sempre a dimostrare – in modo tacito e umile – la superiorità della loro posizione esistenziale e filosofica. A Laozi è attribuita la paternità del famoso trattato del Dao De Jing (traslitterato più comunemente come Tao Te Ching), il cui titolo è stato più comunemente tradotto come Libro della via e della virtù o Classico della via e della virtù. Frasi laconiche e spesso in rima, linguaggio metaforico ed elusivo, così come l’uso ricorrente di parallelismi e immagini contrastanti per illustrare il discorso filosofico hanno reso il Dao De Jing una vera e propria opera poetica. Alcuni hanno cercato di tradurre gli 81 capitoli del famoso trattato taoista con metriche e rime (si veda, ad esempio, la traduzione di I. W. Heysinger del lontano 1903).
L’altro grande fenomeno letterario dell’antichità cinese legato al regno di Chu è il primo poeta nella storia del paese asiatico: Qu Yuan (? 340-278 a.C.). È stata molto discussa la sua paternità di
Elegie di Chu (in cinese, Chu Ci) che – insieme al Libro dei canti (Shi Jing) – costituisce il canone dell’antica poesia cinese, basato su raccolte di canzoni popolari e rituali. Qu Yuan fu dapprima un virtuoso ministro presso la corte di Chu, da cui fu esiliato sia a causa della sua posizione critica nei confronti del governo centrale, sia delle calunnie che altri invidiosi ufficiali inventarono per diffamarlo davanti al sovrano. Si ritiene che le Elegie di Chu siano il frutto della profonda depressione che il poeta subì nel suo esilio a sud del fiume Yangtze (oggi provincia di Hubei). Dopo aver appreso che la capitale di Chu sarebbe stata conquistata dal regno nemico di Qin, Qu Yuan si gettò nelle acque del fiume Miluo e annegò, mentre la popolazione locale cercò di salvarlo, scacciando i pesci e gettando riso per evitare che si alimentassero del suo corpo. Così, in onore di quel grande statista e poeta, nacque la famosa festa delle barche drago, che viene celebrata ogni quinto giorno del quinto mese lunare con gare nei fiumi e nei laghi e con glutinose torte di riso chiamate zongzi. L’eredità di Qu Yuan consiste non solo nel suo grande esempio di virtù, ma anche nella sua poesia introspettiva e tormentata, una delle pietre miliari della storia letteraria cinese. I suoi versi sono caratterizzati da una lunghezza più libera e da una metrica più sofisticata rispetto a quelli del Libro dei Canti. In essi si dispiega una vasta gamma di emozioni – reclami, lamenti, autointerrogazioni, vaticinii – e viene anche coniata l’immagine eterna di un uomo altamente morale e genuinamente tragico.

torre gru gialla
All’altro estremo, troviamo il non meno talentuoso poeta della dinastia Tang, Li Bai (701-762), il più famoso libertino e bevitore tra gli antichi scrittori cinesi. Come molti altri poeti del suo tempo, Li Bai non risparmiò né forza né vers
i per elogiare la Torre della Gru gialla (in cinese, Huang He Lou) che, dall’inizio del terzo secolo, si erige sulla riva del fiume Yangtze, sulla Collina del serpente, essendo ancora il simbolo inconfondibile di Wuhan. La storia della torre si intreccia con l’antica leggenda di un immortale taoista che viveva nei dintorni, che però un giorno si alzò in cielo cavalcando una gru gialla fino a scomparire per sempre. Li Bai ha dedicato diverse opere alla famosa costruzione e al panorama che si apre intorno, ma la poesia più nota è forse quella con la quale si congeda dal suo caro amico Meng Haoran (691-740), un altro dei grandi Poeti Tang (i frammenti poetici, presenti nell’intervista, sono a cura di Radina Dimitrova, nella traduzione dal cinese, N.d.T.):

Presso la Torre della Gru gialla, mi congedo da Meng Haoran
che se ne va a Guangling

Il mio vecchio amico si congeda a ovest della Torre della Gru gialla;
in questo marzo aggrovigliato di fiori si scende a valle, verso Yangzhou.
La vela della sua barca solitaria si perde nei confini dell’etere smeraldo;
la mia vista si colma delle acque dello Yangtze che sfociano nel cielo.

Nel XX secolo, un altro grande statista e poeta immortalò nei suoi versi la Torre della Gru gialla, le terre di Chu e le sue bellezze. Questo fu né più né meno che il primo presidente della Repubblica popolare cinese, Mao Zedong (1893-1976). Circa due decenni prima della fondazione della nuova Cina, nel 1927, lui era temporaneamente a Wuhan: a quel tempo compose una poesia classica in stile Ci per esprimere la sua angoscia per il lento avanzamento delle forze comuniste, ma anche la sua ferma speranza nel successo della rivoluzione. Di fronte allo stesso paesaggio che tredici secoli prima aveva ispirato Li Bai, il giovane Mao esclama:

Dove sarà volata la gru gialla?
Resta solo la locanda per i viaggiatori.
Che scorra il liquore impetuoso come il fiume,
nel mio petto ruggisce un torrente ancora più audace!

Oggi un’altra voce – non dal mondo della politica né della poesia, ma ugualmente risoluta e potente – viene dal sud della Cina, proprio da Wuhan, per esprimere i sentimenti che bruciano nel seno della società cinese. È la voce della scrittrice Fang Fang…

Lucia Cupertino: Venendo a oggi, Wuhan continua a mantenere la rilevanza di cui parli nel campo culturale o hanno prevalso nuove sfaccettature? Quali sono stati i processi di cambiamento nella metropoli?

Radina Dimitrova: Wuhan ha circa 30 università (ora forse di più), concentrate nella parte di Wuchang, dove si svolge un’intensa vita accademica-scientifica e giovanile. Ciò mantiene Wuhan tra le principali destinazioni per l’istruzione superiore. Molte università sono nei ranking universitari cinesi. Questo rende Wuchang sempre giovane, culturalmente diversa e irrequieta nello spirito, ma senza mai perdere il suo peculiare tocco locale. Molto più uniformi sono le parti di Hankou, dove si concentra la vita economica e finanziaria, e Hanyang, che è più residenziale e manifatturiera. Quindi la città ha in realtà tre volti distinti, il più interessante dei quali è proprio quello della parte universitaria, Wuchang.
Nel 2006, Wuhan aveva ancora un aspetto provinciale, disordinata, sottosviluppata, con strade polverose e sovraffollate, con banchi di biciclette (che gradualmente hanno lasciato il posto alle motociclette elettriche), con innumerevoli autobus diretti vers
o le tre parti della città… Non c’erano quasi piste stradali a due piani per facilitare il traffico e la costruzione della metropolitana era iniziata intorno al 2009. Quando fu inaugurata la nuova stazione ferroviaria sembrava un’astronave gigante, erano i giorni della mia partenza, la vidi tutta radiante e spaziosa, come se stesse per librarsi nell’aria su un paesaggio, ancora affondato in resti della costruzione, polvere e pozzanghere. Si poteva già percepire l’incedere dello sviluppo: essendo letteralmente il centro del paese, Wuhan non poteva sfuggire alle nuove strategie di massiccia (ri)costruzione.
Quando sono tornata brevemente a Wuhan, nel 2015 e nel 2016, ho scoperto che parti della città erano cambiate in modo irriconoscibile, e altre erano in processo di rapida distruzione-costruzione. È stato frustrante assistere a un simile cambiamento, perché un certo numero di posti chiave nei miei ricordi di Wuhan avevano smesso di esistere. In quello che è stato uno dei peggiori momenti della mia vita, mi sono seduta sul marciapiede e ho pianto incontrollabilmente di fronte a una nuovissima unità di edifici molto alti e lussuosi che si trovavano orgogliosamente dove un tempo era esistito l’Istituto Idroelettrico di Wuhan, in via Bayi. I dormitori, il campo da calcio e le unità per i professori erano scomparsi per sempre, anche
uno spazio che avevo affittato con amici. Quel luogo amato era stato uno delle tante vittime dello sviluppo urbano accelerato (direi persino strampalato).

punk

Lucia Cupertino: Nella scena contemporanea, indicaci alcuni artisti o gruppi artistici di Wuhan e dicci perché apprezzi il loro lavoro…

Radina Dimitrova: Nel panorama contemporaneo spiccano la letteratura e la scena musicale. Di quest’ultimo, consiglierei il seguente articolo che tratta della storia del punk a Wuhan e offre molti video di canzoni importanti: We Sing This Song For You, Wuhan!”: A Short History of Wuhan Punk. Consiglio vivamente uno qualsiasi dei gruppi citati.

Nel campo letteratario, vorrei evidenziare tre nomi. Innanzitutto, la scrittrice Fang Fang, una delle figure femminili più importanti della prosa cinese contemporanea, con una traiettoria di oltre 40 anni. Nata a Nanchino, vive e lavora a Wuhan da molto tempo, fino a poco tempo fa era anche vicepresidente dell’Associazione di Scrittore di Hubei. Negli ultimi due mesi, con i suoi articoli pubblicati sui social media cinesi (le piattaforme Weibo e Wechat), Fang Fang è diventata la portavoce dei cittadini di Wuhan durante la quarantena, nonché al centro di un’accesa polemica, con milioni di seguaci e non pochi detrattori. L’hanno definita la “coscienza di Wuhan” per aver alzato la voce e aver raccontato le tragiche esperienze dei suoi concittadini durante il lockdown di 80 giorni. Chiunque conosca bene la vita gerarchica e politicizzata cinese, si renderò conto del fatto che – lungi dall’essere una corona d’alloro – tale riconoscimento popolare può essere un peso schiacciante sulle spalle di chi ha osato affrontare la macchina politico-burocratica e il suo incessante controllo sulla popolazione.
Citerei, poi, due poeti. Zhang Zhihao (1965), nato nella provincia di Hubei, trasferitosi a Wuhan, dove ha studiato storia negli anni ’80 e dove risiede attualmente. Eccellente e accattivante poeta che è anche direttore della rivista di Wuhan,
Chinese Poetry. La sua opera poetica è quotidiana e introspettiva, ispirata alla bellezza di Wuhan, in particolare alle acque che attraversano e circondano la città. Sally Wen Mao è una giovane poetessa americana, il cui recente e straordinario libro di poesie Oculus (2019) è sulla mia scrivania al momento in cui scrivo. Lei è nata a Wuhan, ma è cresciuta a Boston ed è attualmente una delle figure promettenti della poesia in lingua inglese. La sua creazione letteraria dimostra un’incredibile capacità di esprimere un discorso poetico caratterizzato da un immenso background culturale cinese attraverso una lingua occidentale.

Diari Wuhan

Lucia Cupertino: “Il diario di Wuhan” scritto da Fang Fang sta generando un interessante dibattito dentro e fuori la Cina… Perché è considerata una “traditrice della patria” e a che livello la sua testimonianza è una pericolosa forma di dissenso per il regime cinese? Dal punto di vista internazionale, quale finestra può aprirci sulla Cina contemporanea?

Radina Dimitrova: Da alcune settimane, il dibattito in Cina sul diario di Fang Fang ha già superato la discussione moderata e polifonica ed è entrato in una fase di aggressività aperta, denunce e persino minacce nei confronti della scrittrice. Non credo che il diario e il suo contenuto siano stati definiti come un atto di dissenso da parte del governo, ma sorprendentemente dal popolo cinese stesso, le cui reazioni sono state insolite. L’indignazione massiva è stata provocata dalla vendita dei diritti del diario all’estero; molti e in modo precipitato hanno sospettato che il contenuto fosse stato scritto in anticipo perché, altrimenti, “quanto velocemente è stato scritto, poi rivisto e persino tradotto?” Molte voci sono state sollevate contro lo stesso titolo (in inglese, Wuhan Diary; in altre lingue sarà probabilmente tradotto in modo identico) ed il reclamo generale è che Fang Fang e la sua posizione non rappresentano la totalità dei gruppi sociali e delle opinioni a Wuhan, e che indebitamente ha usurpato il nome della città per la sua personale agenda. Altri hanno espresso grande fastidio per la prevendita del libro tradotto sulla piattaforma Amazon e accusano Fang Fang di estrema avidità verso la rapida fama internazionale e i grandi profitti. Un’altra serie di attacchi ha a che fare con una proprietà che la scrittrice aveva acquisito in un settore esclusivo della città; da lì si è scatenata una valanga di cose messe in discussione sulle sue finanze e sulla sua vita personale…Davvero spiacevole. La condanna generalizzata come “traditrice della patria” che ha “imbrattato di nero” il volto del paese davanti alla comunità mondiale (i cinesi, e il mondo asiatico in generale, attribuiscono grande importanza al perdere la faccia o all’umiliazione pubblica, tanto da essere in molti casi causa di suicidi). Così è emerso un gruppo di difensori della patria, anonimi e non, che minacciava anche con atti di violenza fisica contro la scrittrice; il caso più famoso è quello di Lei Lei, un soggetto che si dichiara erede delle tradizioni delle arti marziali di Wuhan che ha pubblicato un video, in cui invita la comunità di sostenitori del kungfu in città a trovare e picchiare Fang Fang. Per me, la cosa più terrificante era un anonimo poster, allo stile dei dazibao dell’era della Rivoluzione Culturale, pieno di minacce e appeso in un posto centrale a Wuhan, che – se fosse stato politico e contro il governo – avrebbe portato immediatamente all’arresto immediato del suo autore (assolutamente possibile grazie alle migliaia di telecamere di sorveglianza installate ovunque nelle città cinesi).

Nonostante gli elogi e gli attacchi, Fang Fang ha saputo mantenere la calma e in una lunga intervista ha risposto alle accuse, chiarendo il processo di vendita dei diritti e la traduzione in inglese del suo diario che è cominciata nel corso della sua stesura del diario. L’impulso è venuto allo stesso traduttore che, grazie al linguaggio semplice e diretto (nelle parole della stessa Fang Fang, non letterario ma giornalistico) è stato in grado di avanzare molto rapidamente nella traduzione. Inoltre, l’autrice sottolinea una realtà molto importante: che i profitti generati all’estero dagli scrittori cinesi sono ridicoli rispetto a quelli che raccolgono dalla vendita dei loro libri all’interno del paese. Tiraggi di decine e centinaia di migliaia di copie sono una cosa normale nel gigante asiatico; i migliori autori possono vantare milioni di copie vendute. Fang Fang deplora senza mezzi termini il fatto che tutte le case editrici cinesi (ne cita alcune) che inizialmente hanno mostrato interesse per la pubblicazione del diario siano diventate “molto caute” e abbiano ritirato le loro offerte. La vendita anticipata è qualcosa che l’autore ammette di aver finora ignorato; inoltre, non solo non si sta illudendo con aspettative di profitti favolosi, ma commenta che i soldi della vendita del diario saranno dati, sotto forma di donazioni, alle famiglie dei dottori deceduti. Sul titolo, si meraviglia della reazione contro di lei, dal momento che nella letteratura mondiale non mancano titoli come Diario di tale città, dove l’intenzione degli autori non è mai stata quella di rappresentare l’opinione dell’intera cittadinanza. Secondo il mio punto di vista, la stessa Fang Fang non spera di stupire l’arena internazionale, ma di fornire alla comunità mondiale una visione onesta e profondamente critica dall’epicentro della crisi, anche per condividere la propria esperienza e quella dei suoi concittadini durante il lockdown totale che ha avuto luogo a Wuhan nei mesi di febbraio e marzo. L’importanza del diario come nuovo fenomeno non è quella di essere uno strumento per cambiare radicalmente l’ordine politico in Cina, ma di strappare il tanto agognato permesso di esprimere un malcontento vociferato nella vasta sfera sociale e che, di conseguenza, implica un’espressione critica di massa: un progresso molto importante nella libertà di espressione. Il governo rimarrà lo stesso, ma speriamo con un atteggiamento diverso e più cauto quando si tratta di sopprimere le voci contro le sue decisioni autoritarie e talvolta assurde.
Oltre alla Fang Fang, sono emerse altre voci assennate che indicano una serie di eventi importanti. In primo luogo, se il diario non fosse stato censurato o non avesse causato così grandi ripercussioni nella stessa Cina, tanto meno le avrebbe provocate all’estero, specialmente negli Stati Uniti dove pochissime persone sono interessate allo sdegno di una scrittrice cinese contro il governo autoritario del suo paese. Secondo un testo cinese intitolato “L’influenza del diario di Wuhan negli Stati Uniti”, a metà aprile il libro occupava a malapena la posizione 2567 nel ranking di Amazon. Un’altra osservazione ironica ma accurata è che è meglio dirigere gli insulti e infine la violenza contro le informazioni sistematicamente distorte che riempiono i media cinesi, piuttosto che contro le poche persone che hanno cercato di dire una certa verità, anche se non è esaustiva e rappresentativa per tutti.
Una delle cose più bizzarre che ho visto nelle ultime settimane sul tema del Diario di Wuhan e della sua autrice è stata la canzone di una rapper – i cui testi un po’ imbarazzanti e superficiali mi astengo dal commentare – in cui Fang Fang e la sua generazione sono classificati come “una cosa del passato” e si sostiene che sarebbe meglio che le giovani generazioni si prendessero in carico il destino del paese. Personalmente, trovo difficile credere che la gioventù cinese, materialmente soddisfatta e focalizzata sul successo personale, possa realizzare qualcosa di considerevole per cambiare il corso del Paese, con l’iPhone in mano. La recente storia della Cina ha ampiamente dimostrato che il motore e l’arma dietro i grandi cambiamenti sociali non sono stati i mezzi economici, ma gli ideali.

Lucia Cupertino: Nel tuo lavoro di traduttrice letteraria, quali sono le sfide più impegnative nel lavorare tra due lingue e culture così diverse?

Radina Dimitrova: Allo stato attuale in cui, dopo aver accumulato varie esperienze per oltre un decennio (con testi classici e contemporanei, in prosa e in poesia), posso dire che le sfide non provengono più dalle lingue, ma dei testi e delle realtà al loro interno. Per me, sia il cinese che lo spagnolo non sono la mia madrelingua e il rapporto con ciascuna di esse è abbastanza diverso. Con il cinese, è una relazione rispettosa e graduale, un processo di espansione e approfondimento della conoscenza, sapendo che questo va all’infinito e non ci sarà mai un punto finale. Mentre con lo spagnolo è vera e talvolta irritante passione, a volte è uno sforzo estenuante di precisione, raffinatezza e, perché no, perfezione. Come voler possedere un amante che non dà mai tutto, nasconde sempre parte del suo fascino, in modo che tu possa cercarlo nuovamente. Lo spagnolo è entrato nella mia vita quasi un decennio prima del cinese, durante i cinque anni della scuola bilingue spagnola “Miguel de Cervantes” di Sofia. Il mio primo progetto professionale era quello di essere traduttrice della letteratura ispanoamericana, un sogno che è stato troncato quando il cinese è entrato nella mia vita e con un gomito ha messo gli altri amori in secondo piano; “Come una diva alla Scala di Milano”, è quello che diciamo in Bulgaria, proprio così è geloso ed esigente il cinese… Sempre, quando qualcuno si meraviglia di me e dice “Wow, traduci dal cinese!”, penso dentro di me: “Wow, traduco in spagnolo!”
Muovermi costantemente tra questi due ambiti, cinese e ispanico (a cui sommo spesso l’inglese), mi ha permesso di sviluppare una certa versatilità non solo come traduttrice ed interprete,
ma anche come persona, mi sono armata di soluzioni, improvvisazioni e trucchi utili nel mondo lavorativo e quotidianamente. Per me fare la traduttrice è come essere un attore: passare la vita in costante preparazione, senza mai essere pienamente preparata e – invece di salire sul palco – stare dietro le quinte e godere d’essere invisibile.

Lucia Cupertino: Grazie mille per il tuo tempo e questo dialogo che ci arricchisce molto.

Radina Dimitrova

Radina Dimitrova traduttrice, insegnante e ricercatrice bulgara con residenza permanente in Messico. Laurea e Master in Sinologia presso l’Università di Sofia (Bulgaria). Master in letteratura cinese antica presso l’Università Pedagogica del Centro della Cina (Wuhan). Dottoranda di letteratura cinese classica presso il Colegio de México. Ha ricevuto numerosi premi per la traduzione della letteratura cinese e le sue traduzioni sono state pubblicate in Messico, Cina, Bulgaria, Cile, Argentina, ecc. Ha tradotto 15 film cinesi dal cinese al bulgaro. È membro dell’ Associazione Traduttori della Cina, della piattaforma cinese di traduzione CCTSS e dell’Associazione Messicana di Traduttori Letterari (Ametli). Collabora con il Gruppo accademico del Programma Universitario di Studi asiatici e africani (PUEAA-UNAM) come coordinatrice del modulo sulla Cina del Diploma in Studi asiatici. Insegna lingua cinese, traduzione cinese-spagnolo, storia e arte della Cina, ecc. presso l’ENALLT-UNAM, Universidad Anáhuac-Norte e il Centro de Arte Mexicano. Ha una dozzina di articoli in spagnolo, bulgaro e inglese su lingua, letteratura e cultura della Cina.

___________

Foto di copertina: la Torre della Gru gialla (in cinese, Huang He Lou), Wuhan.
Foto di copertina e all’interno dell’articolo, a cura di Radina Dimitrova.

Riguardo il macchinista

Lucia Cupertino

LUCIA CUPERTINO (1986, Polignano a Mare). Scrittrice, antropologa culturale e traduttrice. Laureata in Antropologia culturale ed etnologia (Università di Bologna), ha conseguito un Master in Antropologia delle Americhe (Università Complutense di Madrid) con tesi sulla traduzione di fonti letterarie nahuatl. Vive da tempo tra America latina e Italia, con soggiorni più brevi in Australia, Germania e Spagna, legati a progetti di ricerca, educativi e di agroecologia. Scrive in italiano e spagnolo e ha pubblicato: Mar di Tasman (Isola, Bologna, 2014); Non ha tetto la mia casa - No tiene techo mi casa (Casa de poesía, San José, 2016, in italiano e spagnolo, Premio comunitarismo di Versante Ripido); il libro-origami Cinco poemas de Lucia Cupertino (Los ablucionistas, Città del Messico, 2017). Suoi lavori poetici e di narrativa sono apparsi in riviste e antologie italiane e internazionali. Parte della sua opera è stata tradotta in inglese, cinese, spagnolo, bengali e albanese. È curatrice di 43 poeti per Ayotzinapa. Voci per il Messico e i suoi desaparecidos (Arcoiris, Salerno, 2016, menzione critica nel Premio di traduzione letteraria Lilec – Università di Bologna); Muovimenti. Segnali da un mondo viandante (Terre d’Ulivi, Lecce, 2016) e Canodromo di Bárbara Belloc (Fili d’Aquilone, Roma, 2018). Membro della giuria del Premio Trilce 2018, Sydney, in collaborazione con l’Instituto Cervantes. Cofondatrice della web di scritture dal mondo www.lamacchinasognante.com, con la quale promuove iniziative letterarie e culturali in Italia e all’estero.

Pagina archivio del macchinista