Quando, alla fine degli anni ‘70, João de Azevedo rappresenta le ali dell’angelo nelle due pagine della copertina del disco Com as minhas tamanquinhas (Con i miei zoccoli) di José Afonso, quelle ali rappresentano le ali del desiderio. Le ali della rivoluzione dei garofani. Tracciano un arco che va da Teorema di Pasolini nel 1968 al film eponimo di Wim Wenders nel 1987. Oggi temiamo per quelle ali la stessa sorte delle ali di Icaro, sciolte dal suo stesso fuoco. Come? Soccomberanno le ali del desiderio troppo presto, come direbbe Mallarmé? Non esiste comunque un altro cammino per uscire dal labirinto del progresso, in cui tutta l’umanità si trova rinchiusa con Dedalo. Non ci sarà forse nella pittura di João de Azevedo il senso più profondo di quelle stesse ali?
Yves Delpesenaire, Bruxelles, 2015
C’è, nella pittura di João de Azevedo, l’oppressione delle dittature, il ricordo e la denuncia delle ingiustizie, della prigione, dell’esclusione, della pena di morte, delle torture, c’è l’apartheid che schiaccia e usa i neri trasformandoli, a volte, nei loro stessi aguzzini; c’è il grido delle vittime e c’è l’utopia delle rivolte, delle indipendenze; c’è il sogno di un futuro ancora possibile.
C’è il mito, la leggenda.
Ci sono gli Icari, “mito proibito per quelli che non sognano”, che con le loro ali multicolori riescono a travalicare i vincoli dell’umano e della sua piccola realtà, per sfidare leggi e gravità che li incatenano e volare liberi, non importa dove. Non importa se il sole scioglierà le ali. Importa, sì, il volo.
Ci sono i coccodrilli di Timor, animali reali e fortemente simbolici che continuano ad essere presenti nell’immaginario come compagni dei sogni e della vita reale, possibile spiraglio per comprendere e preservare l’umano nel suo riflettersi nell’animale, nella natura, in tutto ciò che compone la vita.
Ci sono le scimmie, e altri animali, in cui il pittore incontra messaggi di familiarità, di empatia e di bellezza. C’è l’amore per la natura, il bisogno impellente di preservarla dalla fine, dalla distruzione.
Ci sono i barconi con i migranti, i rifugiati, abbandonati in mare e alle frontiere, umiliati e perseguitati. C’è il ricordo e la consapevolezza di cosa significhi lasciare il proprio paese:
“Erano anni di grande angoscia, senza sapere se, né quando, si sarebbe tornati alla propria terra e questa era la parte che costava di più. Quando si fuggiva dal Portogallo si era molto lontani, si provava il lutto per tante cose, si aveva l’idea che il paese era imprigionato e nell’oscurità, data la mancanza di informazioni che riuscivamo a ricevere” João de Azevedo
C’è la convinzione che “le cose belle, ma anche le cose più terribili e orrende, dovrebbero essere dipinte preferibilmente con colori vivi, brillanti, seducenti.”.
C’è la lucidità e il disincanto coperto dai colori di una “disperata speranza”.
Ci sono i suoi amori, ci sono i paesi in cui ha vissuto, frammenti, riflessi della loro storia.
C’è il suo volto sui corpi degli oppressi e degli oppressori, c’è il riconoscersi in entrambi per capirli e sentire insieme, nell’assunzione, nell’interiorizzazione, nell’identificazione con l’altro, come un attore che lavori sul personaggio.
C’è l’eco della sua risata irridente, della sua sensualità, il profumo dei piatti che cucinava, le sue contraddizioni sicure, la sua solitudine e il suo bisogno di compagnia, il suo amore incondizionato per la vita.
Di lui, della sua arte, critici, scrittori, compagni di lotta e di viaggio, hanno scritto:
“João possiede un attributo essenziale per chiunque e soprattutto per un artista – l’inquietudine. Tutto quel che accade nel mondo e nella società, nel suo insieme e nelle sue dimensioni più piccole, a livello personale e politico, sociale, ambientale, educativo, artistico è oggetto della sua inquietudine. La ricerca permanente della libertà fa parte di questo universo. Sia la libertà individuale che quella collettiva. Anche quando libertà e sopravvivenza diventano contraddittorie. Sopravvivere con dignità è un labirinto dal quale si può eventualmente scappare con l’aiuto dell’immaginazione, di strumenti, (…) Lui dipinge, dipinge quando sogna o parla, quando cucina, quando passeggia, quando legge o ascolta musica. Dipingere è per lui una maniera di vivere, di farsi ascoltare!” José Hipólito Santo
“Le mani di João de Azevedo si presentano abili e veloci – con pochi tratti regalano la sintesi. Perché è un artista della sintesi e del silenzio, João. O meglio: che cromatizza quel silenzio sgomento che precede il grido. O quello che immediatamente, e purificato, gli segue. Ma ciò che fa funzionare l’impulso carnevalesco dei suoi colori è la forza del silenzio che li avvolge. Ecco un pittore che fraziona le strisce dei colori, per svelare in esse quel che avanzava loro dell’invisibile e che non teme il vuoto, giocando lussuosamente con quella tensione fra le figure che proietta e lo spazio congelato che le circonda. Icaro (una delle sue figure più ricorrenti) non cadde a causa del sole. Icaro cadde perché il suo grido rimbalzava nel silenzio. Il che graficamente si risolve nell’intervallo tra le figure. E João de Azevedo è maestro di questo equilibrio…Credo che ciò accada per una dimensione tragica “alla maniera antica”, come l’intendevano Nietzsche e Clément Rosset, che fonde il dolore e il riso, il patetismo e l’incisività dell’allegria” Antonio Cabrita
“La pittura di João de Azevedo segue una strategia nella quale si combinano, in dosi forti come quelle dei colori spessi che la compongono, cariche sessuali, politiche, sociali e mitologiche. Eccetto alcuni casi in cui l’acqua diluisce e sfuma il colore o qualche inatteso interesse per il dettaglio (i piccoli triangoli delle mandibole dei coccodrilli), quello che il pittore cerca non sono transizioni soavi né velature, ma il confronto aperto di colori forti, spessi, definitivi; colori che tracciano territori, aree delimitate, linee invalicabili. È, quindi, una pittura frontale e assertiva, nella violenza delle ragazzine come nella sessualità rossa dei falli cilindrici e delle vulve triangolari, delle lingue, delle labbra, dei capezzoli. Una pittura che esprime desiderio, fretta e furia. Il pittore si disinteressa degli sfondi, che ci appaiono neutri (o, per meglio dire, aree ampie e uniformi, perché i colori sono sempre gridanti) perché su di essi possano meglio risaltare le azioni umane; ossia, perché su di essi si possa raccontare una storia. Ciò che muove questa pittura è lo stupore provocato dalla scoperta del reale. Meraviglia, indignazione, accusa. Ogni serie è un’impronta della vita del pittore” João Paulo Borges Coelho
“João de Azevedo ha tutto il mondo all’interno delle sue preoccupazioni. Questi dipinti sono interpretazioni di sentimenti, all’interno dell’esperienza di storie. Sono modi di interpretare la realtà. Realtà piena di sofferenze ma anche di allegrie” José Teophilo Duarte
“Se c’è qualcosa di cui dobbiamo ringraziare João de Azevedo è che, malgrado il mondo cinico e dimissionario che ci circonda, non cade nel peccato della malinconia. I suoi colori sono densi e esaltanti, come di chi grida o prepara il grido o l’azione che riscatti …” Antonio Cabrita
João se n’è andato all’improvviso il 26 aprile di quest’anno, e non ci credeva, non ci abbiamo creduto. Continuiamo a non crederci e a incontrarlo ancora nel suo mondo dolente e colorato.
João de Azevedo nasce a Figueira da Foz, in Portogallo, dove ha cominciato a esporre le sue opere dal 1964 al 1967. Dopo essersi trasferito a Lisbona ed essersi iscritto alla Facoltà di Giurisprudenza, è costretto a lasciare il Portogallo per sfuggire alla PIDE (Polizia Politica) e all’obbligo militare. Vivrà quattro anni in Belgio, dove frequenterà l’Istituto Nazionale di Arti e Spettacolo (Teatro e comunicazione); risiederà a Roma fino al 1976 partecipando a diverse mostre collettive e individuali e collaborando come scenografo in spettacoli teatrali; di ritorno in Portogallo parteciperà, nell’estate del 1975, e poi dal ’76 al ’77, come animatore socio-culturale alle lotte dei contadini senza terra e collaborerà alla costituzione di cooperative agricole popolari; dal 1977 al 2001 ha vissuto e lavorato undici anni in Mozambico, quattro in Italia e dieci in Niger in progetti di sviluppo rurale e movimenti cooperativi. Dopo due anni a Timor Est, rientra in Portogallo nel 2001, con soggiorni in Olanda, e lavorando fino alla fine come consulente per la Commissione Europea e per le Nazioni Unite e per cooperative portoghesi. In tutti questi anni ha contemporaneamente realizzato varie mostre personali in Portogallo, Francia, Timor e Mozambico. Ha inoltre illustrato le copertine delle ultime tre agende di SOS Racismo; la copertina e le illustrazioni del libro TAXI di Fernando Cabral Martíns e le copertine dell’edizione inglese di LOOKING AT THE OTHERS e STORIE DI UN TEMPO BREVE, ANZI BREVISSIMO di Anna Fresu.
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ANNA FRESU Nata a la Maddalena, in Sardegna, si è laureata in Lettere e Filosofia all’Università La Sapienza di Roma. È regista, autrice, attrice di teatro, traduttrice e studiosa di letterature africane. Nel 1975 ha lavorato in Portogallo come mediatrice culturale. Dal 1977 al 1988 ha vissuto in Mozambico dove ha insegnato e diretto la Scuola Nazionale di Teatro e creato e codiretto il Dipartimento di Cinema per l’infanzia e la gioventù, realizzando diversi film che hanno ottenuto riconoscimenti internazionali. Nel 2013 ha pubblicato il libro di racconti Sguardi altrove, Vertigo Edizioni e nel 2018 il libro di poesie Ponti di corda, Temperino Rosso Edizioni. Nel 2019 ha curato per la Kanaga edizioni l’antologia Molti nomi ha l’esilio e nel 2020 ha pubblicato con Macabor editore il libro di racconti Storie di un tempo breve (… anzi, brevissimo). Sue poesie, racconti e fiabe sono presenti in diverse antologie. Collabora con riviste on line e blog. In Argentina ha insegnato Lingua e Cultura Italiana e realizzato diversi spettacoli teatrali. Vive attualmente a Forlì.