di Vito Teti
Tratto da “Terra inquieta“, Rubbettino, 2015.
Gli attori scelti per le riprese dello sbarco sono profughi veri: immigrati di diverse parti dell’Africa, che vivono a Riace, un paese della costa ionica, dove il sindaco Mimmo Lucano da anni si prodiga per accoglierli e ospi- tarli (grazie a progetti del governo italiano e della Comunità europea), anche per scongiurare la chiusura del paese. L’incontro tra il sindaco impegnato davvero nell’accoglienza e Wenders, e quello del regista con un bambino di otto anni, figlio di rifugiati politici afghani, scelto per interpretare il bambino giunto da fuori, si rivelano decisivi per il dest no del film. Ramadullah – così si chiama il bambino – dice a Wenders: «Devi venire a Riace». E il giorno dopo Wenders parte per Riace. Gira per i vicoli deserti, filma gli immigrati, le vie, intervista il sindaco e tre bambini rom, Valentino, Dennis e Elvis, provenienti da varie capitali europee. Parlano inglese, tedesco o italiano, dicono di trovarsi bene a Riace, sono contenti di andare a scuola insieme a bambini che vengono da altre parti del mondo. «Stiamo bene a scuola», ripetono. Mi tornano in mente i nostri emigrati che partivano e facevano studiare i loro gli, perché vedevano nella scuola e in un «pezzo di carta» una possibilità di riscatto da antiche soggezioni. Ramadullah, che arriva dall’Afghanistan, racconta storie di guerra, parla di bombe e di incendi, di case messe a fuoco dai talebani, della fuga della sua famiglia e dell’arrivo in questo paese, che ormai sente suo. Il luogo delle interviste è una porta medievale, la Porta dell’acqua, conosciuta con un toponimo magico e misterioso: «a lammia». Dai muri e dalle pietre della strada spuntano ciuffi d’erba, segno di abbandono e solitudine. Da qui le donne di Riace partivano verso il fiume a prendere acqua, agili con i barili sulla testa. E da questo luogo partivano gli uomini con gli asini per raggiungere gli orti. Mimmo Lucano ha recuperato la tradizione degli asini: vengono utilizzati per la raccolta di differenziata dei rifiuti. Wenders ha uno sguardo assorto, attento, quasi incantato. Il punto di partenza è mutato. Il film originario sta diventando un altro lm. La favola iniziale viene sovrastata dalla forza e dalla potenza dei luoghi, dalla loro capacità di narrare e restituire storie. La fiction sta diventando una storia vera. Sono i luoghi a voler diventare lm e consegnano una storia. Come era accaduto per Paris, Texas (1984) quando «i luoghi avevano trovato la storia, e non viceversa».
Wenders ama le storie e si considera narratore di storie, ma pensa che la forza motrice di un lm, il suo ingranaggio principale, la sua anima, ciò che gli conferisce energia, siano i luoghi. In quasi tutti i suoi lm, i luoghi vengono prima delle storie e non a caso egli ricorda come, quasi sempre, cominci a girare senza una sceneggiatura precisa. Sono i luoghi che a un certo punto del suo viaggio gli segnalano di essere «arrivato». «Il senso del luogo ha anche bisogno di un posto dove svilupparsi e respirare, un posto che, per l’appunto, gli possa dare spazio». Le storie non «succedono» semplicemente, ma esse, letteralmente, «hanno luogo». La percezione del luogo a Wenders, viaggiatore, fotografo e regista, giunge dal senso dei luoghi proprio di chi li abita, le persone che incontra, siano essi gli aborigeni australiani o i suoi connazionali berlinesi. I luoghi sono i veri narratori. La perdita del luogo, per Wenders, è una perdita di qualità nei lm. Presuppone una perdita di realtà e d’identità. A di erenza di molti registi americani, per i quali le trame dominano e manipolano i personaggi, Wenders crede, invece, nei lm in cui gli in- dividui controllano il proprio destino, trasformano le loro vite in storie. Fare un lm signi ca, allora, accostarsi lentamente ai luoghi, conoscerli, sentirli, mettersi in discussione. La trama e la storia, la sceneggiatura e i protagonisti non possono restare mai quelli iniziali, ma sono costante- mente riscritti in base agli incontri, a seconda della «chiamata» che egli sente provenire dai luoghi.
È quanto gli accade in Calabria. Anche qui la sceneggiatura, la storia, i protagonisti mutano a contatto con i luoghi e le persone reali. Il centro della storia da Badolato si sposta a Riace. Un altro luogo lo chiama per essere raccontato. Il protagonista non è più il bambino che non ha più compagni di gioco. Sono i bambini che arrivano da fuori. E al sindaco inventato (un bravissimo Ben Gazzara) che, nelle sequenze di Badolato, si poneva il problema di accogliere, si aggiunge ora, a Riace, un sindaco vero, che da anni prova a mettere in pratica quanto era immaginato nella storia iniziale. La storia non è più quella di un paese in abbandono che attende l’arrivo degli immigrati per ripopolarsi, ma quella di un paese dove molti vuoti sono stati già riempiti dagli arrivi. Quale storia Wenders racconti, lo esplicita lui stesso in un intervento al municipio di Berlino, l’11 novembre 2009, durante il decimo summit dei premi Nobel per la pace: «Ho visto un paese capace di risolvere, attraverso l’accoglienza, non tanto il problema dei rifugiati, ma il proprio problema: quello di continuare a esistere, di non morire a causa dello spopolamento e dell’immigrazione. E ho voluto raccontare questa storia in un lm, che ha come attori i veri protagonisti». E ancora: «La vera utopia non è la caduta del Muro, ma quello che è stato realizzato in Calabria. Riace in testa». Eccolo, lo stile di Wenders. È la poetica di chi scorge nel viaggio e nel nomadismo una via alla verità, di chi mette sempre in discussione la propria identità. La terra dell’utopia ha catturato un grande costruttore di utopie. La Calabria, «grande incompiuta», ha attratto il regista che ha raccontato sempre storie incompiute e vicende aperte.
Riace, 16 dicembre 2009, Palazzo Pinnarò, sede dell’associazione «Città Futura G. Puglisi»: grande animazione, un viavai ininterrotto, accenti diversi. Una docente che insegna italiano ai bambini immigrati e che si occupa dell’organizzazione, mi dice: «Una volta questo antico e ricco palazzo era chiuso a tutti. Nessuno poteva entrarci. Adesso è aperto a tutti. Possono entrarci tutti». Nel salone grande, riscaldato alla meglio da due stufette elettriche, i tecnici di ripresa sono sistemati da- vanti a due computer. Wenders sta arrivando dall’aeroporto di Lamezia. Mimmo Lucano, seduto al tavolo, parla con alcuni profughi, telefona, dà disposizioni, mi abbraccia, mi fa accomodare con grande a abilità. Anche lui mi crea un certo disagio quando dice che, dietro la sua follia di recuperare e ripopolare il paese, ci sono anche tante mie riflessioni. Per fortuna non mi dà il tempo di rispondere, parla con la teatralità della gente di qui: è instancabile, voce e sguardo mobili, racconta, senza enfasi, la sua storia e la storia di questo luogo. Ogni tanto si ferma per parlare con altra gente dell’associazione. È felice dell’arrivo di Wenders, il suo nuovo «compaesano» (il regista ha ricevuto a settembre la cittadinanza onoraria), ma il suo pensiero va all’arrivo, previsto per la serata, dei pro- fughi palestinesi dai campi dell’Iraq. Alcune famiglie si sistemeranno a Riace, altre a Caulonia, l’altro paese che ha sposato, con il suo sindaco, Ilario Amendolia, un progetto molto innovativo, fortemente sostenuto dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, e approvato dal Ministero degli Interni. Si tratta del primo caso di resettlement sperimentato in Italia: i rifugiati lasciano i campi profughi per essere ospitati in paesi dove si stabiliranno per sempre. Mimmo Lucano mi accompagna a visitare il palazzo, mi mostra gli oggetti del mondo contadino, quasi un piccolo museo, le foto d’epoca alle pareti. Mi presenta immigrati giunti dall’Afghanistan, dall’Eritrea. Usciamo per le strade e per le viuzze. C’è un po’ di nebbia e di umidità. Un’abitazione vicina al palazzo è stata trasformata in una sorta di ristoro per immigrati e forestieri. Lo slargo circostante accoglie una capanna con Giuseppe, Maria e il Bambinello in cartapesta. Passano donne con il capo coperto e coi bambini per mano. Ombre fugaci in un paese al quale lentamente si stanno abituando.
Mi vengono in mente le donne anziane della mia infanzia, quelle con il «vancale», che copriva il capo e scendeva delicatamente dietro la nuca e sulle spalle. Il luogo mi appare familiare, e al tempo stesso mi sembra altro. Riconosco viuzze, palazzi, la chiesa dei santi Cosma e Damiano, colgo l’antico senso di questo luogo, ma sento che ha ormai un nuovo senso di sé. Si o re con una nuova immagine alla quale debbo abituarmi. Riace è noto come il paese dei Bronzi, rinvenuti nel 1972 lungo la marina, a pochi chilometri di distanza, dove sorge un suo doppio ormai più popoloso. Alla ne degli anni Settanta, il paese veniva raggiunto dai pellegrini delle Serre e dello Ionio per la grande festa di ne settembre dei santi patroni. Ricordo le processioni, le veglie in chiesa con le donne che sonnecchiavano e pregavano, stese per terra, e le ragazze che arrivavano con gli ex voto. Le salsicce fresche nelle trattorie aperte per la festa, gli in- terminabili fuochi d’arti cio, e il ballo degli zingari davanti alla statua dei santi. Mastro Micu, anima dei luoghi, durante il tragitto processionale, come danzando sulle tavole dove erano sistemati i santi, accoglieva nelle sue mani ex voto e soldi che poneva in una grande cassa. Svelto e attento, a errava i bambini che i fedeli gli porgevano, li avvicinava alle statue dei santi e li restituiva, felice, ai genitori che attendevano con le mani protese. Ricordo quando Mastro Micu, raccontando la vita e i miracoli dei santi, mi accompagnava lungo la spiaggia di Riace per mostrarmi il luogo in cui, secondo la leggenda, sarebbero «sbarcati» i santi medici, proprio nello specchio di mare dove sono stati recuperati i Bronzi. Tornavano gli emigrati. Tornavano i giovani. Un mondo mobile narrava di arrivi e di partenze. Registravo voci, raccoglievo testimonianze, fotografavo tutto e tutti, realizzavo un documentario. Mi sentivo parte del luogo.
Mimmo Lucano, quasi per dare consistenza ai miei ricordi, mi dice che l’idea di accogliere i profughi gli era venuta anche pensando alle teorie di pellegrini e agli zingari che ballavano ore e ore, per devozione e per divertimento. Negli anni, con la ripresa dell’emigrazione e con la progressiva discesa lungo la marina, anche Riace, come tanti altri paesi dell’interno, comincia a svuotarsi no a contare una popolazione di meno di cinquecento abitanti (quella della marina raggiunge il quadruplo). Poi l’evento che potrebbe invertire una tendenza al declino. Mimmo Lucano, appena eletto sindaco, pensa che l’accoglienza a Riace di immigrati, rifugiati politici, ma anche di artisti e turisti, possa essere un nuovo modo di far rivivere una tradizione di mobilità e di ospitalità. L’accoglienza per Mimmo è un fatto naturale, non un semplice atto di umana solidarietà, ma un piacere, la realizzazione di un sogno e anche una speranza. «Avevo immaginato che un giorno sarebbe arrivato qualcuno, sarebbe successo qualcosa, sarebbero giunte persone per portare qualcosa di nuovo, per riempire le case, per cancellare il silenzio e la solitudine del mio paese». I sogni e i progetti, finanziati dal Ministero degli Interni, sono stati sostenuti e rafforzati da ulteriori interventi della giunta regionale calabrese, la cui presidenza ha elaborato la legge regionale sull’accoglienza dei rifugiati e richiedenti asilo, approvata all’unanimità dal consiglio regionale nel maggio 2009. Riace diventa, così, un piccolo borgo colorato e multietnico, molti stranieri trovano alloggio in un centro storico «recuperato», nelle case abbandonate dagli emigrati. Molti di loro si sono sposati con persone del luogo, hanno avuto gli e non se ne sono più andati. Assieme ai giovani del paese, in laboratori artigianali nati nei vicoli, lavorano il vetro, l’argilla, i tessuti. Mimmo mi accompagna a visitare queste botteghe, questi centri di rinascita. Entro nei bar, nel tabacchino, che è pure merceria. Non arrivano più i giornali, ma si trova di tutto. Il cantiere dell’accoglienza è aperto: come non registrare la bellezza di quanto qui avviene? Come non ricordare che i tanti paesi dell’interno vivono ormai grazie a immigrati che lavorano nell’edilizia e nelle campagne, a badanti che curano gli anziani? La terra delle partenze è diventata terra degli arrivi. È la novità da cogliere, da assumere, non solo per dovere, ma anche per convenienza. Mimmo non nasconde difficoltà, ostacoli, contrasti che trova anche a livello locale. C’è un nostro lato che privilegia il con itto, le tensioni, le divisioni. Dobbiamo coltivare – mi dice – l’anima che parla di accoglienza e di ospitalità. Queste parole, almeno qui, non suonano retoriche.
Wenders arriva alle otto. Si siede al tavolo con il produttore, un collaboratore e il sindaco per fare un piano di lavoro. Anche qui ha la naturalezza di un abitante. A cena, mangiamo pasta e ceci e melanzane ripiene. Sono le dieci. Wenders dice a Mimmo: «Vai, Mimmo, grazie, è più importante accogliere gli altri». All’inizio del paese una piccola folla attende infreddolita, con la luce dei lampioni oca per la nebbia. «Arriva- no, arrivano», dicono più voci, quasi all’unisono. Da un pullman scende un folto gruppo di profughi palestinesi. Li accolgono con abbracci i loro familiari e amici che vivono già qui. Mimmo Lucano e i suoi collabora- tori li salutano con a etto, come si fa con vecchi amici o nuovi fratelli.
Lascio Riace dopo aver salutato il sindaco e quanti collaborano alla realizzazione del lm. Non disturbo Wenders, gli lascio i miei saluti. Corro. In certe situazioni, dalle nostre parti, i saluti di arrivederci possono durare un’eternità. Continua a piovere, ma il sole ritorna lungo la marina. Mi sento spiazzato, mi pare di aver visto una Calabria poco Calabria, di essere stato in un paese che sfugge non solo agli stereotipi, ma anche alle immagini più consolidate e tristemente veritiere. Bisogna comunque stare con i piedi per terra. Rivedo i fori dei proiettili, ombra incombente della ’ndrangheta. E proprio qui, nei pressi della chiesa, a settembre c’è stato un omicidio. Siamo nella Locride, una zona morti cata e avvelenata da una criminalità asfissiante. Passo dal bivio che conduce al santuario dei santi medici e, non so perché, mi trovo a pensare alla fragilità e all’eccezionalità di mescolanze come queste, e a quanto sia importante seguirle, incoraggiarle, narrarle proprio perché accadono nel deserto.
Ed eccola, quando nell’aria abbracci un odore di speranza, incombe la Calabria ombrosa, truce, triste, quella che non vorremmo e dalla quale ci chiamiamo fuori. I fatti di Rosarno, i colpi di arma da fuoco contro due migranti africani, impegnati nella raccolta degli agrumi, la loro ribellione che si traduce anche in atti inconsulti, la reazione della popolazione, la caccia all’africano, alla quale non è stata di certo estra- nea la ’ndrangheta, l’espulsione vergognosa di tutti gli immigrati, la distruzione di un capannone-lager. Le televisioni hanno di uso queste immagini terribili in tutto il mondo. Le narrazioni sono tante, le spie- gazioni molteplici, le ragioni in nite, ma è la Calabria a uscirne male. Non è soltanto questione di immagine, è la realtà calabrese che arriva nella sua crudezza e nella sua violenza. La regione è sempre «scoperta» all’indomani di grandi tragedie e catastro : i terremoti, le frane, i paesi che crollano, gli omicidi spettacolari, le guerre di ma a, gli incendi, il delitto Fortugno, i fatti di Duisburg… E non ci si rende conto che questa Calabria esiste ogni giorno, che le catastrofi sono preparate sempre da costanti scosse leggere e da episodi ugualmente inquietanti, che è la vita ordinaria a essere degradata, imbarbarita, soffocata dalla ’ndrangheta, da gruppi politici dominanti, da una borghesia compiacente e collusa. È una realtà che non si può tacere, che chiama in causa ognuno di noi. Noi che siamo stati emigrati, che siamo fuggiti, che abbiamo conosciuto il razzismo degli altri, che nulla abbiamo fatto ora per impedire questo strazio. Abbiamo preferito chiudere gli occhi, tanto ci sentivamo a posto con i nostri articoli, le nostre denunce, la nostra carità comoda, la nostra ospitalità a buon mercato. La nostra stessa idea di Calabria è tutta da ripensare, da problematizzare.
Qualcuno si assume le ombre di questa terra e accetta di portare la croce, il peso del restare, con dolore, dentro questo «noi». Forse davvero Mimmo Lucano rappresenta quella Calabria che sogniamo, silenziosa e lontana dalle vetrine. Il sindaco chiede scusa agli africani e propone loro di spostarsi a Riace, ospita i tre feriti di Rosarno. Non esiste una Calabria, ma tante Calabrie, almeno due. La Calabria ossimoro, terra di contraddizioni e di ambivalenze, delle identità e delle differenze, che soltanto uno sguardo superficiale cancella. Terra bruciata dal sole e bagnata dalle piogge, degli ottocento chilometri di costa e del novanta per cento del territorio montano e collinare, del radicamento e delle fughe, degli abbandoni e delle continue pazienti riparazioni, del tutto è accaduto e del niente accade mai davvero, della limitatezza e dell’infinito, dello stupore e dello sgomento, dell’estrema larghezza e dell’interminabile lunghezza, dell’adesso vengo e del non arrivo mai, della pietas profonda e delle violenze più cupe, degli amori e degli odi del planctus religioso e utopico e delle bestemmie più terribili, delle più sincere benedizioni e delle più atroci maledizioni. La Calabria delle mille attese e delle mille delusioni, delle tante speranze e dei tanti disincanti. Elementi dell’antico paese convivono con tratti della modernità e della surmodernità. Dalle «onde sonore» dell’antico paese (si pensi alle im- magini che ne consegna Alvaro in Gente in Aspromonte) siamo passati ai rumori di fondo, a sonorità e silenzi sconosciuti dei nuovi luoghi. Bisogna saperli ascoltare, tradurli in una nuova musica. Il senso di spaesamento per chi ha ascoltato gli ultimi suoni e le ultime voci dell’antico paese è grande, tuttavia non bisogna rimpiangere il buon tempo antico, ma tentare di stabilire un «accordo» tra le voci delle antiche «vie dei canti» e quelle che sommessamente cercano ascolto. Di recente, Sonia Serazzi in una bella raccolta di racconti, Non c’è niente a Simbari Crichi (2004) coglie, con felici esiti letterari, la nuova dimensione antropologica delle comunità calabresi e di un Sud poco propenso ad essere rinchiuso in stereotipi e in retoriche, in rimpianti e in disperazioni. Il paradosso del vuoto dei paesi (talora della loro solitudine, della loro disperazione) è che questo vuoto si presta ad essere riempito di nuovi contenuti e di nuovi valori. I non più luoghi sembrano rivelare la volontà di cercare e acquistare un nuovo senso, mostrano la capacità di elaborare nuove forme di appaesamento non inglobate nell’omologazione dominante.
Dopo i fatti di Rosarno, mi sono chiesto come avrebbero potuto in- uenzare il montaggio e il racconto di Wenders, la sua percezione dei luoghi. Come avrebbero potuto scoraggiarlo o motivarlo, dopo avere scoperto che anche da noi, e forse più che altrove, i luoghi sono oggetto di devastazione e di mortificazione. Mi sono chiesto se il regista che modifica la sceneggiatura, che scopre progressivamente le storie da raccontare, che ridefinisce costantemente il suo senso di identità, non si sarebbe in ne egli stesso adattato ai contrasti di una terra dove tutto resta aperto e incompiuto. Ma un cineasta, un artista, uno scrittore, un etnografo non possono raccontare tutta la realtà, non devono spiegare l’universo mondo. Wenders ha raccontato le storie vere di luoghi a lui congeniali, di luoghi che l’hanno chiamato. Dopo il suo lm, quei luoghi non verranno guardati allo stesso modo. La sua poetica forse inviterà i calabresi a guardare se stessi in maniera diversa, ad assumersi le proprie ombre. Il regista narra le storie di un luogo: sta a noi riconoscerle, farle vivere e cancellare altre brutte storie, altre inquietanti pratiche di deva- stazione dei luoghi. Ha scritto Wenders:
Luoghi che desideriamo. Che ci insegnano il timore. O nei quali ci sentiamo come a casa. Luoghi che troviamo stupefacenti. Luoghi da cui ci sentiamo spaventati. Luoghi di cui abbiamo sognato, prima d’arrivarvi. Luoghi in cui ci siamo persi E luoghi che noi abbiamo perso. I luoghi ci condizionano. I luoghi ci proteggono. Essi però ci possono anche distruggere.
I luoghi cambiano. Possono anche scomparire e morire. Possiamo per- derli e possiamo perderci. Possiamo interrogarli, scriverli, «ascoltarli», rivolgere loro la parola come avviene tra vecchi amici. Possiamo salvarli e possiamo salvarci. Dipende da noi.
Vito Teti è professore di Antropologia Culturale presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università della Calabria, dove ha fondato e dirige il Centro di Antropologie e Letterature del Mediterraneo. Tra le sue pubblicazioni: La razza maledetta. Origini del pregiudizio antimeridionale, manifestolibri, 1993 (n.e. 2011); La melanconia del vampiro. Mito, storia, immaginario, manifestolibri, 1994 (n.e. 2007); Il colore del cibo. Geografia, mito e realtà dell’alimentazione mediterranea, Meltemi, 1999; Il senso dei luoghi. Memoria e vita dei paesi abbandonati, Donzelli, 2004 (n.e. 2014); Maledetto Sud, Einaudi, 2013. Presso Quodlibet ha pubblicato Pietre di pane. Un’antropologia del rrestare, 2011 e Il Patriota e la maestra. La misconosciuta storia d’amore e ribellione di Antonio Garcèa e Giovanna Bertòla ai tempi del Risorgimento, 2012.
Foto dell’autore dal blog di Vito Teti.
Uno stralcio da “Il volo”: https://www.youtube.com/watch?v=OzAReFZ8LaI&feature=share