Vita da rifugiato siriano. Il viaggio di Mahmoud di Saida Hamouyehy

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Ho dei ricordi bellissimi della Siria perché quando ero più piccola guardavo tanti telefilm siriani che mi avevano fatto innamorare di questo paese, peccato però che la guerra abbia rovinato tutto.

La guerra civile in Siria è iniziata con alcune manifestazioni di protesta nel marzo del 2011, nel contesto delle cosiddette “Primavere arabe”, per poi trasformarsi nel 2012 in una vera e propria guerra più ampia.

Negli ultimi anni abbiamo assistito a vari sbarchi sulle coste europee di chi scappava dalla guerra e miseria e ci siamo spaventati per una presunta “invasione dei profughi”. Ma ci siamo mai fermati ad ascoltare le loro storie? Qui voglio raccontarvi l’avventura di Mahmoud Qeshreh, un giovane siriano scappato da Aleppo per rifugiarsi in Belgio, dove oggi lavora nel mondo del sociale e fa volontariato per assistere i richiedenti asilo.  Ho avuto la fortuna di conoscerlo durante un progetto di scambio culturale a Brussels.

1 Mahmoud

La verità, secondo Mahmoud, è che i rifugiati siriani sono estremamente frustrati perché vivono un dolore immenso e vorrebbero sentirsi delle persone normali, non dei rifugiati. Nonostante oggi vivano in luoghi più sicuri rispetto al loro paese di nascita, sentono questa libertà acquisita come incompleta. Se non fosse stato per la guerra non avrebbero mai lasciato volontariamente la loro terra. Ma la guerra ha mietuto già tante vittime e continua a farlo, sebbene oggi non si parli più di quest’area del mondo.

<< La vita in Siria era come un giorno di primavera, con un fantastico sole e una delicata pioggia – ricorda Mahmoud –, potevi sentire il profumo dei fiori, soprattutto dei gelsomini. Questa era la vita prima del 2011, prima che iniziasse la guerra >>.

Laureato in Economia, Mahmoud era un insegnante universitario prima di lasciare la Siria: << La guerra ha portato tutti i giovani laureati a rifugiarsi in altri paesi, come in Libano, ma chi non è riuscito a scappare è stato costretto ad arruolarsi con la forza, e ciò significava morire in guerra >>. Persa ogni speranza e qualsiasi sogno di un futuro, decise nel maggio 2014 di lasciare il suo paese per un altro luogo, e l’opzione più abbordabile era la Turchia perché era l’unico paese che accettava i rifugiati siriani senza il visto, ma aggiunge che oggi non è più così.

Quando ha lasciato la Siria non sapeva, e ancora oggi non sa, quando avrebbe rivisto la sua famiglia: << Mi manca la mia famiglia, la mia casa e i miei amici >>. La sua famiglia si trova ancora ad Aleppo, in un’incerta situazione, perché vive giorni di calma alternati con momenti d’insicurezza, quando può capitare di essere colpiti da qualche bomba dal cielo.

2 Aleppo

La situazione in Turchia non era affatto facile: nel paese vivono circa 2 milioni di siriani, costretti ad accettare qualunque condizione di lavoro per sopravvivere e mantenere le loro famiglie, incontrando razzismo e spesso poco rispetto.

Mahmoud iniziò a studiare turco per poter cercare più facilmente un lavoro nella grande Istanbul ma, nonostante i suoi sforzi, non riusciva nel suo intento perché era siriano: << Se sei siriano è quasi impossibile trovare lavoro, anche se parli turco >> afferma. Dopo 15 mesi di ricerche, quando stava balenando nella sua mente l’idea di tornare in Siria, nonostante sapesse che sarebbe stato costretto ad arruolarsi, sua madre lo dissuase dal tornare perché la situazione in Siria era sempre più drastica e lo spronò a tentare di andare in Europa. L’Europa era dunque la sua ultima spiaggia, sebbene il tragitto fosse molto pericoloso, ma non immaginava fino a che punto lo sarebbe stato.

Ad agosto 2015, dopo vari tentativi, trovò qualcuno disposto ad aiutarlo a raggiungere la Grecia insieme ad altri ragazzi in barca, pagando 1200 dollari a testa. Dopo 6 giorni di attesa, vennero chiamati dal loro contatto per partire; nel punto di incontro erano presenti tanti altri profughi che, come Mahmoud, aspettavano di raggiungere le coste europee. Vennero trasportati su un camion con 80 persone stipate in piedi per diverse ore. Raggiunto il punto da cui sarebbero salpati in barca, vi trovarono una marea di poliziotti, per cui furono costretti a nascondersi in un bosco vicino per alcune ore prima di poter iniziare il loro viaggio.

Sembrava che ce l’avessero fatta, il mare era calmo e potevano ammirare l’alba, ma poco prima di raggiungere le coste greche la polizia turca riuscì a riprenderli e riportarli in Turchia. Sul piroscafo della polizia erano presenti 800 persone, rimaste in pieno mare sotto il sole per 7 ore.

Mahmoud stava perdendo le speranze, ma si convinse di riprovarci ancora. Questa volta si rifugiarono in un’altra città turca, da cui era possibile partire per la Grecia. Il viaggio in barca era tortuoso, mosso da onde alte; a un certo punto il barcaiolo perse il controllo e la barca si capovolse su se stessa riversando in mare tutti i profughi, che dovettero nuotare fino alle coste turche per salvarsi. Erano disperati, bagnati e infreddoliti e avevano fallito di nuovo.

Mahmoud era partito col suo amico d’infanzia Mohammad, che gli disse: << Riproviamo per l’ultima volta, e se questa volta non ce la facciamo torniamo a casa >>. Così tentarono ancora: cercarono un’altra persona disposta a traghettarli verso la Grecia. Il mare sotto il cielo notturno era tranquillo e 60 persone partirono insieme con lo stesso scopo, arrivare o morire. Finalmente arrivarono all’isola greca di Coo: << Ce l’avevamo fatta! Eravamo felici >> racconta Mahmoud, e ad aspettarli c’erano la BBC, l’UNHCR e la CNN.

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Andarono alla stazione di polizia per richiedere un certificato che avrebbe permesso loro di partire per Atene, ma a causa della lunga fila dovettero tornare il giorno dopo. Ad Atene cercarono qualcuno che potesse condurli al confine con la Macedonia. Il giorno della partenza camminarono tra i campi per 4 ore sotto la pioggia, finché non raggiunsero il confine macedone. Da qui dovevano attraversare il confine tra la Macedonia e la Serbia in treno, ma la stazione era affollatissima. Quando il treno arrivò le persone si riversarono sulle porte aperte e Mahmoud riuscì ad entrare solo attraverso una finestra. Arrivati a destinazione dovettero camminare altre 5 ore per attraversare la frontiera e raggiungere la Serbia; camminavano in silenzio per non essere denunciati dalla popolazione e si servivano del GPS per trovare il tragitto da seguire.

Il 22 Agosto raggiunsero il confine con l’Ungheria in autobus. La frontiera si poteva attraversare in due punti: il fiume e la ferrovia; scelsero la strada della ferrovia perché più sicura. Il gruppo di profughi camminava sotto la luce della luna, in un silenzio tombale per non farsi scoprire dalla polizia, che avrebbe messo fine al loro viaggio della speranza. Erano così vicini a quel confine delimitato da una roccia vicino alla ferrovia, quando all’improvviso un poliziotto li illuminò con una torcia ed essi si misero a correre per scappare. Il poliziotto sparava contro di loro e colpì a morte Mohammad, l’amico di Mahmoud, che si accasciò sui binari esanime.

<< Non dimenticherò mai quell’episodio >>, ricorda Mahmoud, che da 20 anni conosceva quel ragazzo di 25 anni che viveva solo con la madre vedova ad Aleppo. Prima di intraprendere quel fatidico viaggio Mohammad gli aveva chiesto di prendersi cura di sua madre se qualcosa gli fosse accaduto, come se si sentisse qualcosa.

Ma Mahmoud non poteva fare nulla in quel momento disperato, doveva scappare se non voleva morire anche lui. Tanti poliziotti erano arrivati sul posto per stanarli, ma il gruppo si nascose agli angoli della ferrovia per alcune ore aspettando che i poliziotti se ne andassero.

Infine, attraversato il confine, cercarono qualcuno che li potesse condurre a Budapest, e qui si rifugiarono in un boschetto, dove si divisero in gruppi più piccoli per poter andare in città a mangiare qualcosa, nonostante la paura di essere scoperti e arrestati.

Chiamarono poi un taxi per raggiungere la Germania, e una volta arrivati la polizia li intercettò e, quando seppe che erano siriani, li accompagnò alla centrale per dare loro cibo e lenzuola, e poi li portò al centro di accoglienza. Ma Mahmoud e i suoi compagni decisero di scappare dal centro per andare alla stazione dei treni, e questa fu l’ultima volta che li vide perché ognuno andò per la sua strada. Mahmoud optò per andare in Belgio per richiedere asilo politico.

In Belgio visse per 11 mesi in un centro di accoglienza, dove gli operatori erano molto gentili, ma si ritrovò ad attraversare varie difficoltà burocratiche per farsi riconoscere lo status di rifugiato. Finalmente, dopo vari colloqui con le autorità, la risposta positiva arrivò nell’Aprile 2016. Ora doveva solo trovare una casa e lasciare il centro, ma non fu affatto facile.

<< La vita nel centro fu la mia grande opportunità per imparare la cultura belga – afferma Mahmoud –, e ho anche dato una mano come interprete per i risiedenti e gli operatori, visto che parlo bene inglese >>.

Ricorda che al centro avevano a disposizione vari servizi, come la palestra, la cucina, la lavanderia, la biblioteca, il bar e una stanza da cui potevano prendere i vestiti di cui avevano bisogno. Alcuni dei risiedenti potevano anche lavorare nel centro come addetti alle pulizie o al bar.

La vita in centro gli ha anche permesso di intraprendere la strada del volontariato, collaborando con la Croce Rossa e con JAVVA. Mahmoud sostiene: << L’integrazione è la cosa più importante, perché è la chiave per comprendere la cultura di un nuovo paese e avere più opportunità >>. E questo significa anche, secondo lui, non aver paura di mostrare di essere un rifugiato, perché non è una colpa del singolo, ma anzi di dichiararlo perché ci sono tante persone disposte ad aiutare.

Dopo alcune esperienze di formazione e volontariato, ha diretto un campo estivo per i richiedenti asilo, con attività ludiche e formative e di scambio culturale. In Olanda ha partecipato a un’esperienza di formazione al Don Bosco Rijswijk, dove ha imparato, insieme ad altri ragazzi da varie parti del mondo, a organizzare i campi educativi per i bambini. La cosa fondamentale di questa esperienza è che è riuscito ad andare fuori dalla comfort zone e a condividere la sua storia di rifugiato siriano con chi è disposto ad ascoltarlo.

Oggi non si parla quasi più di profughi e richiedenti asilo, ma questi ci sono ancora, le guerre e la miseria continuano ad esistere nonostante il covid-19. Per anni abbiamo urlato: << Porti chiusi >>, << Prima gli Italiani >>; abbiamo ridimensionato il sistema di accoglienza, lasciando di fatto molti richiedenti asilo per strada o condannandoli alla malavita nei casi più gravi. Adesso che molti paesi del mondo hanno preso come modello l’Italia per affrontare l’emergenza da Corona-virus, quando tutto questo sarà passato, mi chiedo se l’Italia non potrebbe prendere a modello di integrazione e inclusione sociale i paesi che la stanno applicando meglio.

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Saida foto

Biografia:

Saida Hamouyehy, nata in Marocco e cresciuta in Italia, è laureata in Lingue e Letterature Straniere a Bologna e ora studia Relazioni Internazionali. Insieme ad altri ragazzi ha fondato NILI (Network Italiano dei Leaders per l’Inclusione). Collabora con Le Nius con articoli su temi riguardanti i giovani di origine straniera. Adora leggere, scrivere, fare fotografie e a volte si diletta a comporre poesie, alcune delle quali pubblicate nelle antologie di concorsi letterari.

 

Riguardo il macchinista

Bartolomeo Bellanova

Bartolomeo Bellanova pubblica il primo romanzo La fuga e il risveglio (Albatros Il Filo) nel dicembre 2009 ed il secondo Ogni lacrima è degna (In.Edit) in aprile 2012. Nell’ambito della poesia ha pubblicato in diverse antologie tra cui Sotto il cielo di Lampedusa - Annegati da respingimento (Rayuela Ed. 2014) e nella successiva antologia Sotto il cielo di Lampedusa – Nessun uomo è un’isola (Rayuela Ed. 2015). Fa parte dei fondatori e dell’attuale redazione del contenitore online di scritture dal mondo www.lamacchinasognante.com. Nel settembre’2015 è stata pubblicata la raccolta poetica A perdicuore – Versi Scomposti e liberati (David and Matthaus). Ė uno dei quattro curatori dell’antologia Muovimenti – Segnali da un mondo viandante (Terre d’Ulivi Edizione – ottobre 2016), antologia di testi poetici incentrati sulle migrazioni. Nell’ottobre 2017 è stata pubblicata la silloge poetica Gocce insorgenti (Terre d’Ulivi Edizione), edizione contenente un progetto fotografico di Aldo Tomaino. Co-autore dell’antologia pubblicata a luglio 2018 dall’Associazione Versante Ripido di Bologna La pacchia è strafinita. A novembre 2018 ha pubblicato il romanzo breve La storia scartata (Terre d'Ulivi Edizione). È uno dei promotori del neonato Manifesto “Cantieri del pensiero libero” gruppo creato con l'obiettivo di contrastare l'impoverimento culturale e le diverse forme di discriminazione e violenza razziale che si stanno diffondendo nel Paese.

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