
GRIOT: Raccontami della tua esperienza a Venezia, cosa significa per te essere qui oggi?
Victor Ehikhamenor: È molto bello essere qui e penso che per qualsiasi artista che viene ad esporre alla Biennale è un passo enorme per la sua carriera. Si tratta della Biennale più antica al mondo, ma anche la più importante, quindi sono veramente felice di far parte del team nigeriano presente qui oggi. Ancora più importante è il fatto per il mio paese sia la prima volta a questa manifestazione. Sono riusciti a ordinare tutto quanto e oggi siamo qui. Sono veramente molto contento.
Qual è stato il tuo ruolo in questo processo? Hai partecipato solo in quanto artista o sei parte di quelli che hanno reso possibile questa presenza?
Solo in qualità d’artista, dando il massimo di quello che potevo, mettendo avanti il mio paese e lavorando con un team eccezionale. Scenderei in guerra per loro, sai, soprattutto per la curatrice, Denrele [Sonariwo] che è stata una vera partner. È quello che dovresti fare come artista, in senso che se il tuo paese ti invita ad esporre nel padiglione nazionale alla Biennale, ti impegni per farlo succedere. Trovi il modo di superare le sfide che potrai incontrare e se ti aiutano bene, sennò fai di tutto per far sì che succeda. Però il bello è che qui ci siamo impegnati tutti quanti per realizzare questo sogno, indipendentemente dalle difficoltà incontrate.
L’opera che hai realizzato per la Biennale ha per caso un legame speciale con Venezia?
Non proprio, direi. Riguarda soprattutto la mia città in Nigeria, Benin City, però ha anche un forte legame con il mio paese. Con questa installazione ho cercato di navigare indietro nella storia, una sorta di riconnessione. Allo stesso tempo, se si approfondisce un po’ Venezia, la città fa parte dell’Europa, quindi in qualche modo richiama il nostro primo incontro con gli europei. Vista da questa prospettiva ha senso per tutte e due le città, però soprattutto con la mia, che è stata il mio punto di partenza. Il mio lavoro è molto influenzato dall’arte creata da miei antenati ed allora ecco che è molto più legata alla mia città. Venezia è solo il luogo d’esposizione.
Se ricordo bene non è la tua prima volta qui a Venezia, neanche in Italia vero?
È vero, non è mia prima volta qui. Due anni fa ho esposto nel padiglione della Germania, ero parte del lavoro presentato dall’artista Tobias Zielony. M’invitò a contribuire con la scrittura di una fiction che trattava del traffico di esseri umani in Europa. Uno dei personaggi era finito qui a Venezia e pur di non diventare schiavo dei trafficanti decise di suicidarsi saltando dal Ponte del Rialto. Non ero mai stato qui prima, quindi era veramente tutto frutto della mia immaginazione quando ho scritto questa storia. Partendo da questo, Zielony lavorò su una fotografia il cui focus erano le persone che migrano verso l’Italia, quindi hanno cercato qualcuno che trattasse anche di questo e così mi hanno invitato a presentare questo mio lavoro di scrittura, ma ho anche realizzato un disegno.
È stata allora la mia prima volta a Venezia, due anni fa, quando Okwi Enwezor era il direttore artistico della Biennale di Venezia. Era veramente un bel periodo per me, anche perché il curatore quell’anno era un nigeriano. È lì che ho iniziato a pensare che il mio paese avrebbe dovuto veramente far parte del grande gioco, anziché essere ospite del padiglione di qualcun’altro. Sapevo che eravamo abbastanza ricchi, sia nelle risorse umane che economicamente, per ragionare insieme e farlo succedere.
Sembra che vada di moda oggi collezionare, esibire o parlare di arte contemporanea africana, cosa ne pensi? L’arte contemporanea africana è in crescita, dicono così.
L’arte contemporanea africana per loro è accessibile, per questi collezionisti che sono pronti a pagare milioni per un’opera d’arte. Non mi sembra ci sia un artista africano le cui opere arrivino a dei livelli di prezzo elevati, a parte qualche eccezione come El Anatsui e Njideka [Akunyili Crosby, di cui avevamo parlato qui] che lavora negli Stati Uniti ed è un’artista nuova, Lynette Yiadom Boakye, Wangechi Mutu, Julie Mehretu… Ecco questi sono alcuni esempi di artisti le cui opere sono vendute ad un prezzo molto alto, ma di sicuro non rappresentano tutti gli artisti dal o sul continente.
Quindi sì, va di moda, tutti ora ne vanno pazzi. Forse si sono stancanti dell’America, dell’Asia, eccetera. E come al solito l’Africa viene sempre dopo. Mi fa un po’ venire in mente quando gli europei scoprirono per la prima volta l’Africa, ne volevano tutti un pezzo, colonizzarla. Che sia chiaro, non sto chiedendo a nessuno di venire a fondare istituzioni d’arte per noi, però dobbiamo approfittare di questa tendenza per creare istituzioni permanenti.
Il management delle arti è tuttora un monopolio dell’occidente, ma noi africani dobbiamo trovare un modo per creare le nostre istituzioni, scuole, creare un nostro mercato, avere i nostri collezionisti che capiscano la nostra arte! Chi colleziona l’arte americana? Gli Americani! L’arte inglese? Gli inglesi! Anche se ci sono altri collezionisti provenienti da altri paesi che la comprano, ogni paese ha il proprio zoccolo duro di collezionisti locali. Quindi tocca a noi creare un nostro mercato e una rete di collezionisti sul continente, perché è un problema che un artista africano debba sempre andare fuori per essere valutato, considerato.
Questo è ciò per cui lotto ed è il motivo per cui molto probabilmente rimarrò sempre in Nigeria, anche dopo essere tornato dagli Stati Uniti per vedere cosa si può fare, cosa si può cambiare. La Biennale di Venezia è solo l’inizio. Quindi, sì, tutta quella attenzione è buona, anche se non capisco davvero quella parola sciocca che continuano ad usare, l’Africa è in “crescita”, l’Africa è cresciuta da tanto… In ogni caso, tutta questa attenzione è ancora una piccola goccia nel mare di denaro che è stato speso nel mondo dell’arte.
Sei stato uno dei relatori del panel ‘Arte Africana a Venezia’. Cosa ci puoi dire? Com’è stato percepito dal pubblico?
Sinceramente non so come lo ha percepito la gente, però era pieno, soprattutto di persone del mondo dell’arte. Era interessante, ma penso che probabilmente questo tipo di conversazioni dovrebbero avvenire in Africa più di quanto accadano qui, così che alcuni dei nostri leader possano ascoltarle e alcuni dei nostri giornali parlarne. Sai cosa succederebbe se circa 30 paesi africani prendessero un padiglione qui a Venezia? 30 su 54…anche la metà, supponiamo. Immagina se riescono a portare la loro arte qui. L’equilibrio si sposterà! A chi stiamo chiedendo cosa? A chi stiamo parlando? Una cosa certa è che per gran parte di queste persone si lavora con chi si conosce.
Christine Macel [curatrice della 57° Biennale di Venezia] probabilmente non conosce molti artisti africani, capisci? Quando c’era Enwezor [ha curato la 56° Biennale di Venezia] lui ha saputo come bilanciare le cose e il risultato era abbastanza equilibrato. Non si sa quante volte avremmo dei personaggi come Okwi Enwezor capaci di dire “ma guardate che esiste arte anche al di fuori delle mostre americane, europee”. Andate a scavare dentro al continente africano e asiatico e mettete in luce artisti che lavorano e hanno successo a casa loro. Non sto criticando, però ora basta. Ok, sono stato invitato quindi non potevo non partecipare, però quando organizzi incontri come Arte Africana a Venezia è come se stessi facendo un’omelia. Bisogna estendere la partecipazione a tutti i paesi. Non possiamo continuare a lamentarci, “Venezia non rappresenta abbastanza l’Africa”. Dobbiamo costruirci la nostra narrativa. Proprio nel modo in cui abbiamo abbracciato la tecnologia, cominciamo a guardare all’arte così.
intervista realizzata da Janine Gaelle, ripubblicata per gentile concessione del sito Griot , nel seguente link trovate l’intervista completa “Griot- http://griotmag.com/it/victor-ehikhamenor-nigeria-biennale-di-venezia-damien-hirst-africa-a-venezia/